Pubblichiamo il discorso di Benyamin Netanyahu all'AIPAC e riportiamo dalla STAMPA di oggi, 06/05/2009, a pag. 15, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Israele, basta insediamenti " e le sue interviste a Daniel Pipes e Moises Naim titolate " Ora i due Stati sono più difficili " e " Su Iran e colonie è finita l'era Bush ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-31, l'analisi di Franco Venturini dal titolo " Il nodo Iran fra Israele e Obama " . Ecco gli articoli:
Discorso di Benyamin Netanyahu all'AIPAC
It's very good to be with all of you, and I want to thank all of you. I want to thank first the members of Congress who are assembled there, the leaders of AIPAC, you David, Howard Friedman, Lee Rosenberg and Howard Kohr, all the delegates of AIPAC and the hundreds of students that are in the room, all the friends of Israel. I want to thank all of you for your unwavering support for Israel and for strengthening the great friendship between Israel and the United States.
As you said, I have met President Obama, I respect him and I look forward to seeing him in Washington in a couple of weeks. We plan to continue our common quest for security, for prosperity and for peace.
Friends, there is something significant that is happening today in the Middle East, and I can say that for the first time in my lifetime, I believe for the first time in a century, that Arabs and Jews see a common danger. This wasn't always the case. In the '30's and '40's, many in the Arab world supported another country believing that that was their hope. In the '60's, '70' and '80's, they supported another country that was at odds with the Jewish state. But this is no longer the case.
There is a great challenge afoot. But that challenge also presents great opportunities. The common danger is echoed by Arab leaders throughout the Middle East; it is echoed by Israel repeatedly; it is echoed by Europeans, by many responsible governments around the world. And if I had to sum it up in one sentence, it is this: Iran must not be allowed to develop nuclear weapons. If I had to sum up the opportunity in one word, it would be cooperation - cooperation between Israel and the Arab world and cooperation between Israel and the Palestinians.
Next week I'll be visiting Egypt with President Mubarak, and I plan to discuss both matters with him. We seek expanded relations with the Arab world. We want normalization of economic ties and diplomatic ties. We want peace with the Arab world. But we also want peace with the Palestinians. That peace has eluded us for more than 13 years. Six successive prime ministers of Israel and two American presidents have not succeeded in achieving this final peace settlement. I believe it is possible to achieve it, but I think it requires a fresh approach, and the fresh approach that I suggest is pursuing a triple track towards peace between Israel and the Palestinians - a political track, a security track, an economic track.
The political track means that we are prepared to resume peace negotiations without any delay and without any preconditions - the sooner the better. The security track means that we want to continue the cooperation with the program led by General Dayton, in cooperation with the Jordanians and with the Palestinian Authority to strengthen the security apparatus of the Palestinians. This is something we believe in and something that I think we can advance in a joint effort. The economic track means that we are prepared to work together to remove as many obstacles as we can to the advancement of the Palestinian economy. We want to work with the Palestinian Authority on this track, not as a substitute for political negotiations, but as a boost to them. I want to see Palestinian youngsters knowing that they have a future. I want them not to be hostage to a cult of death and despair and hate. I want them to have jobs. I want them to have career paths. I want them to know that they can provide for their families. This means that we can give them a future of hope, a future that means that there is prosperity for all. And this has proved to be successful in advancing a political peace in many parts of the world.
I believe that this triple track towards peace is the realistic path to peace, and I believe that with the cooperation of President Obama and President Abbas, we can defy the skeptics. We can surprise the world. But there are two provisos that I think have to be said at this point. First, peace will not come without security. If we abandon security, we'll have neither security nor peace. So I want to be very clear - we shall never compromise on Israel's security. Second, for a final peace settlement to be achieved, the Palestinians must recognize Israel as the Jewish state. They must recognize Israel as the nation-state of the Jewish people.
A few hours ago, I spoke at the Knesset. We marked the birthday of Theodor Herzl, the founding father of Zionism. Herzl revolutionized the history of the Jewish people, a people that was scattered and defenseless throughout the nations. He revolutionized Jewish history when he published a slim pamphlet called "The Jewish State". This was our salvation and this is our foundation - the foundation of our future and the foundation of peace.
Good night from Jerusalem. God bless America. God bless Israel. Thank you all.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Israele, basta insediamenti "
Joe Biden chiede a Israele di «lavorare per la soluzione dei due Stati» e Shimon Peres rassicura Barack Obama sulla «volontà di pace» del premier Benjamin Netanyahu.
Nell’arco di poche ore Washington si è trasformata ieri nel palcoscenico delle tensioni che aleggiano fra Stati Uniti e Israele. Tutto è iniziato quando il vicepresidente americano è salito sul palco della conferenza annuale dell’Aipac - la maggiore organizzazione pro Israele degli Stati Uniti - per recapitare un messaggio esplicito al governo Netanyahu: «Israele deve lavorare per la soluzione dei due Stati, dovete cessare di costruire insediamenti, dovete smantellare gli avamposti illegali e consentire ai palestinesi libertà di movimento e l’accesso alle opportunità economiche».
Mostrandosi consapevole dell’affondo Biden aveva preavvertito la platea con un «non vi piacerà cosa sto per dire» a conferma della volontà dell’amministrazione Obama di iniziare a recapitare a Israele una serie di richieste su cosa fare per sbloccare il negoziato in Medio Oriente. Biden ha poi anche fatto riferimento all’Autorità Nazionale Palestinese auspicando che «combatta il terrore e ponga fine alla diffusione di odio contro Israele», ma per chi era nell’aula del Centro conferenze è stata chiara la differenza di accenti, tesa a far sapere a Gerusalemme cosa aspetta Netanyahu alla Casa Bianca quando arriverà il 18 maggio per incontrare Obama.
A rafforzare il messaggio di Biden ci ha pensato Rahm Emanuel, capo di gabinetto del presidente, preannunciando alla platea un «energico impegno di Obama» per «raggiungere la soluzione dei due Stati» in pace e sicurezza in Medio Oriente. Poche ore dopo, al fine di smussare le tensioni bilaterali, nello Studio Ovale è entrato il presidente israeliano Shimon Peres che è uno degli ideatori della soluzione dei due Stati avendo firmato nel 1993 gli accordi di Oslo assieme a Yitzhak Rabin e Yasser Arafat.
«Dirò a Obama che la pace è la nostra priorità e che il primo ministro Netanyahu è intenzionato a non lesinare sforzi su questo terreno - ha detto Peres poco prima dell’incontro - perché il popolo ebraico da sempre aspira alla pace». Per rafforzare il messaggio Peres ha benedetto «in nome di Dio» gli «sforzi di pace di Obama» richiamandosi al suo discorso inaugurale: «In maniera molto elegante disse che avrebbe teso la mano agli avversari, ebbene Israele da sempre tende la mano ai popoli arabi cercando la pace». Al tempo stesso Peres ha però ribadito la necessità di «trovare una soluzione al nucleare iraniano che non minaccia solo Israele ma il mondo intero».
Al termine del colloquio alla Casa Bianca Peres non ha rilasciato dichiarazioni riservandosi di portare a Netanyahu le impressioni tratte. Anche il premier ha comunque tentato di allentare le tensioni con l’amministrazione Usa pronunciando in diretta satellite un discorso all’Aipac che ha avuto per destinataria la Casa Bianca: «Sono convinto che assieme ai presidenti Obama e Abbas potremo trovare un approccio nuovo per arrivare alla pace con i palestinesi, sconfiggendo gli scettici e sorprendendo il mondo». Al tempo stesso Netanyahu ha ribadito la richiesta all’Autorità palestinese di «riconoscere Israele come Stato ebraico» come finora il presidente Abbas si è rifiutato di fare.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ora i due Stati sono più difficili "
«Ecco quali sono le nuove idee che in mente Benjamin Netanyahu». Daniel Pipes, direttore del Middle East Forum, è fra gli esperti di Medio Oriente americani più al corrente degli umori di Gerusalemme e parla di «nuovo approccio al negoziato».
Di cosa si tratta?
«Netanyahu appartiene a quegli israeliani che non credono più alla soluzione dei due Stati, perché comporta la volontà da parte dei palestinesi di accettare Israele come Stato ebraico. I palestinesi hanno dimostrato di non averla, come anche di non essere in grado di creare tale Stato. Dunque Netanyahu è portatore, come il ministro degli Esteri Lieberman, di un approccio differente».
Differente sotto quale aspetto?
«Finora i governi israeliani hanno dato la priorità alla creazione politica dello Stato palestinese, negoziando su confini e forze di sicurezza, ora invece Netanyahu ritiene che la priorità debba essere il consolidamento, economico e sociale, di una società palestinese senza la quale uno Stato indipendente non può nascere. Per Netanyahu l’errore commesso dai governi israeliani precedenti, da Oslo in poi, è stato quello di dire "diamogli uno Stato e poi si pensa al resto", ma questo approccio non ha funzionato perché i palestinesi hanno dimostrato di non essere in grado di creare uno Stato indipendente, continuando invece a dedicare energie e risorse ad attaccare Israele».
Può Barack Obama accettare questo nuovo approccio?
«No ed è per questo che Netanyahu ci arriverà per gradi. Quando arriverà a Washington si dirà in favore dei due Stati ma lo farà con un linguaggio sufficientemente ambiguo da lasciare la porta aperta ad altri tipi di soluzioni. Netanyahu non ha alcun interesse a entrare in contrasto con Obama, farà di tutto per evitarlo e dunque si concentrerà con lui a parlare di questioni tecniche, non di grandi principi. In maniera simile a come faceva il premier Yizhak Shamir quando veniva a Washington negli anni prima gli accordi di Oslo».
Israele sta ripensando gli accordi di Oslo?
«La maggioranza degli israeliani, secondo i sondaggi, resta a favore della soluzione dei due Stati ma l’umore sta progressivamente cambiando. Oslo fu uno spartiacque perché da allora, nel 1993, Usa e Israele hanno condiviso un approccio al negoziato con i palestinesi fondato su progressive concessioni da parte di Israele al fine di far nascere lo Stato palestinese. Ma a 16 anni da allora possiamo dire che è stato un fallimento. Arafat a Camp David con Ehud Barack e poi Abu Mazen nel 2008 con Ehud Olmert hanno rifiutato di portare a compimento il processo di Oslo. Dunque ci avviamo a tornare alla fase pre-1993, quando c’era un disaccordo fra gli Stati Uniti, che premevano per ottenere concessioni da Gerusalemme, e Israele, che chiedeva prima di avere in cambio dei passi avanti da parte palestinese».
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Su Iran e colonie è finita l'era Bush "
«Obama e Netanyahu hanno due potenziali punti di attrito». Parola di Moises Naim, direttore del magazine «Foreign Policy», che vede all’orizzonte possibili «disaccordi ma non una vera crisi».
Quali sono i potenziali punti di attrito fra Usa e Israele?
«Sugli insediamenti in Cisgiordania e sull’Iran».
Incominciamo dagli insediamenti. Dov’è la genesi del disaccordo?
«Nel fatto che il governo israeliano è dentro un sandwich, stretto fra le promesse che ha fatto al proprio elettorato, contrario allo smantellamento degli insediamenti, e la situazione internazionale che vede la grande maggioranza delle nazioni, America inclusa, favorevoli».
Quali le conseguenze?
«Le vediamo già oggi, il ministro degli Esteri Lieberman è in Europa e il presidente Peres alla Casa Bianca nel tentativo di guadagnare sostegni, e scongiurare tensioni politiche».
Che cosa cela il disaccordo sugli insediamenti?
«Un differente approccio alla nascita dello Stato palestinese. Tanto Obama che Netanyahu dicono di volerlo ma senza smantellare gli insediamenti diventa assai difficile».
E il secondo punto di attrito?
«È sull’approccio all’Iran».
Perché?
«Per il semplice fatto che Obama persegue una strategia di impegno diretto e negoziato per spingere Teheran a rinunciare al nucleare mentre Netanyahu ha fatto più volte capire che è pronto a usare l’arma militare. Fino a quando Ahmadinejad resta presidente in Iran questo disaccordo resterà sotto la cenere ma se a fine giugno Ahmadinejad dovesse perdere le presidenziali ed essere sostituito da un leader più moderato Obama vorrà accelerare il dialogo mentre Netanyahu sarà contrario, nel timore che l’Iran sia oramai in procinto di diventare una potenza atomica».
Sembra la genesi di una fase di freddo...
«Gli Usa e Israele restano solidi alleati strategici, lo Stato ebraico è l’unica democrazia in Medio Oriente ed entrambi i Paesi non vogliono un Iran nucleare. Le convergenze restano maggiori dei potenziali contrasti e inoltre nessuno può permettersi una crisi aperta, perché da un lato Israele dipende molto dall’America e dall’altro Israele ha molti alleati al Congresso. Ma ciò non toglie che qualcosa nei rapporti bilaterali stia cambiando...».
A cosa pensa in particolare?
«Al fatto che durante l’amministrazione Bush i governi di Israele hanno avuto praticamente carta bianca. Questa situazione ora è mutata. Vi potranno essere dei dissapori anche se non una vera crisi».
Ma se dovesse avvenire, Israele potrebbe cercare altri alleati privilegiati, magari a Mosca?
«L’ipotesi di un’intesa con la Russia è interessante ma non mi convince. Netanyahu non lega con Putin e Mosca ha maggiori interessi nel mondo arabo che in Israele».
CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Il nodo Iran fra Israele e Obama "
Nella sua fretta di mettere tutto sul fuoco Barack Obama non poteva dimenticare il conflitto arabo- israeliano. Nell’arco del prossimo mese il capo della Casa Bianca riceverà separatamente, in una sorta di Camp David a singhiozzo, il premier israeliano Netanyahu, il leader palestinese Abu Mazen e il presidente egiziano Mubarak. L’iniziativa rientra nell’audace (qualcuno dice temeraria) strategia obamiana di prendere di petto le maggiori crisi internazionali. Ma potrà funzionare, un metodo tanto irruente e ancora in attesa di risultati, al cospetto della più intricata e insanguinata delle controversie mondiali? Fino a tempi recentissimi si diceva che Obama era stato sfortunato. Come poteva favorire i suoi progetti un nuovo governo israeliano ultra-nazionalista e fortemente di destra malgrado la strana partecipazione dei laburisti? Come si poteva trattare con il capofila dei «falchi» nei panni di ministro degli Esteri? Queste inquietudini non sono scomparse. Ma la maggiore cautela di Netanyahu, e il viaggio che Avigdor Lieberman sta compiendo in Europa con Roma prima tappa, consigliano qualche ripensamento in vista delle verifiche di Washington.
Perché gli israeliani e Obama avranno in comune almeno un elemento fondamentale: la volontà di cercare nuovi metodi e nuove idee rispetto a percorsi di pacificazione già collaudati e già falliti. E anche perché, come tutti sanno, soltanto un governo israeliano di destra può teoricamente permettersi di rompere gli schemi.
A Roma il ministro Lieberman ha detto cose non prive d’interesse. Con il suo silenzio sul tema, non ha escluso che uno Stato palestinese (finora sempre osteggiato) possa un giorno nascere. E ha insistito, soprattutto, su un approccio nuovo al «dialogo» con i palestinesi, sulla rinuncia agli slogan che non producono frutti, sulla necessità pragmatica di affrontare per primi temi come la sicurezza, lo sviluppo economico, la giustizia, la sanità, in modo da creare legami tra i due popoli che servano da trampolino per affrontare le questioni politiche e territoriali.
Sarebbe facile obiettare che tra israeliani e palestinesi non si può parlare di sicurezza senza parlare di politiche e di territori. Ma lo schema di Lieberman (e di Netanyahu) sarà egualmente al centro del prossimo confronto «innovatore» con Obama, a prescindere dalla distanza iniziale tra i due interlocutori.
E’ possibile che Netanyahu, magari più esplicitamente di Lieberman, non escluda la nascita di uno Stato palestinese. Ma la strategia israeliana sarà di puntare l’indice sulle influenze iraniane in Libano e a Gaza (oltre che sulle sue mire nucleari) per spiegare che Gerusalemme non può tendere seriamente la mano fino a quando la minaccia di Teheran le soffierà sul collo. Dunque, accordo sì ma contro l’Iran e arruolando i molti Paesi arabi che temono l’espansionismo di Ahmadinejad.
Da parte americana (con l’accordo degli europei) il ragionamento risulterà verosimilmente capovolto: per creare nuove convergenze anti-iraniane in Medio Oriente occorre prima che Israele riduca gli insediamenti invece di espanderli e valuti favorevolmente le proposte contenute nel piano della Lega Araba (sempre respinto da Gerusalemme).
Pur tra amici e alleati quali sono Israele e Stati Uniti, dunque, il braccio di ferro è assicurato. Anche a prescindere dai malumori israeliani verso le aperture di Obama a Teheran. Ma una volontà comune, il 18 maggio a Washington, unirà le due parti: quella di cercare l’arma, tante volte risolutiva, della novità.
Per inviare la propria opinione a Stampa e Corriere della Sera, cliccare sulle e-mail sottostanti