Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Tariq Ramadan, se lo conosci lo eviti Ignora la modernizzazione, predica 'fedeltà e ritorno al Corano'
Testata: Corriere della Sera Data: 05 maggio 2009 Pagina: 43 Autore: Marco Ventura Titolo: «L'ambigua riforma di Ramadan»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/05/2009, a pag. 43, l'articolo di Marco Ventura dal titolo " L'ambigua riforma di Ramadan ".
Come si cura questo Islam malato? I terapeuti si accalcano al capezzale. Fioccano le proposte degli intellettuali musulmani. Diagnosi e rimedi sono i più diversi, ma la regola d’oro è sempre la stessa. La terapia deve ancorarsi alla tradizione; nutrirsi di fedeltà ai Testi, ai fasti passati, alla sapienza dei maestri. Ovviamente ognimaître à penser ritiene che la propria terapia sia «fedele», non quella altrui. E l’Islam continua a girare in tondo. A unirsi su ciò che lo divide. Il saggio di Tariq Ramadan in uscita in Italia (La riforma radicale, Rizzoli, traduzione di Sara Arena e Cristiana Latini, pp. 418, e 22 in libreria da domani) è uno splendido esempio del genere. Le quattrocento pagine di teorie e concetti sono dominate dall’idea che il riscatto dell’Islam sia nella fedeltà alla sua storia, al suo patrimonio; nella pratica di una tradizione da cui scaturirà inevitabilmente il nuovo. Proprio perché fedele alla vera tradizione, l’autore si accredita come ponte tra i fondamentalisti e l’Islam europeo. Blandisce i radicali esaltando la creatività dei sapienti e l’immobilità dei Testi sacri, criticando «l’ossessione di seguire l’Occidente ». Vellica gli occidentali spiegando che l’Islam è interpretazione, testo che si fa contesto; predicando il «rifiuto dell’immobilismo, del formalismo, dell’imitazione cieca e del fatalismo». Fin dal titolo, il volume offre agli occidentali il miele della «Riforma» e agli islamisti il latte della «radicalità». Tariq Ramadan è odiato o amato per il suo singolare profilo di stratega universale del pensiero islamico; perché ne spicca l’unicità di intellettuale che dice sull’Islam cose che piacciono a tutti. Ma non è questo il cuore della questione. Ramadan è interessante non per un’unicità a ben vedere inesistente, ma al contrario per la sua rappresentatività, per il suo fare come tutti. Il suo approccio alla malattia dell’Islam è in realtà il più comune ed è parte della malattia stessa: un discorso senza fratture e senza concretezza, in cui le convergenze teoriche annullano drammi, colpe e responsabilità della storia, in cui tutto può esser digerito dallo smisurato stomaco dell’Islam; in cui il suo refrain «tutto è ancora possibile» non misura le condizioni storiche, ma la speculazione teologica. L’Islam è invece malato di realtà; si può curare soltanto con dosi massicce di concretezza, di storia, di fatti. Tariq Ramadan dedica solo quattro righe su quattrocento pagine alla modernizzazione nell’Impero ottomano, eppure l’Islam soffre perché ignora cosa è successo nell’incontro/scontro con le potenze coloniali, come ne sia uscito cambiato per sempre; soffre perché finge che quella contaminazione non si sia prodotta, perché vagheggia una purezza istituzionale negata dalla realtà degli Stati arabo-musulmani. L’Islam è malato perché il suo diritto non sa stabilire rapporti con gli altri sistemi giuridici. Giuristi coraggiosi discutono la sharia mettendone a fuoco specificità e impurità, raccontando come interagisca con gli ordinamenti degli Stati musulmani e non, come si differenzi nello spazio e nel tempo. Invece Ramadan isola la sharia dal contesto. Non accenna mai, mai, al suo reale funzionamento. Maneggia disinvolto concetti (legge, giurisprudenza, fonti) di difficile traduzione già nelle varie tradizioni giuridiche occidentali. L’Islam è malato perché non sa integrare i diritti dell’individuo, delle minoranze. Ramadan non parla dell’oppressione conformistica nelle società musulmane o nelle famiglie e comunità islamiche in Occidente. Teme che la libertà politica dell’individuo metta in crisi l’interpretazione tradizionale dei Testi sacri, la «fedeltà» al Testo, la struttura dell’autorità. Il suo Islam, scrive Ramadan, rifiuta «un’interpretazione libera dei testi, lasciata all’elaborazione critica di individui privi di ogni conoscenza riguardo alle scienze islamiche, come anche delle convenzioni e delle norme imposte agli specialisti dei testi e all’esercizio della loro competenza». Le sue quattrocento pagine di esaltazione del connubio tra scienze sociali e Islam si sbriciolano davanti alla suprema legge della fedeltà alla tradizione; scrive ancora Ramadan: «Il rinnovamento e la riforma del pensiero musulmano moderno non possono in nessun caso comportare il mancato rispetto delle esigenze di conoscenza e di scienza della Rivelazione, delle tradizioni profetiche e delle produzioni dei sapienti nel corso della Storia». La parola «fedeltà» ricorre ottanta volte nel volume. È il vessillo di quell’Islam che migliaia di Ramadan vorrebbero guarire a colpi di finzione teologica; un Islam illuso dalla potenza della fede e sfinito da una realtà nemica. Esaltato perché fedele alla Rivelazione; depresso perché infedele al reale. Non dell’alleanza astratta tra fede e ragione ha bisogno l’Islam malato, ma di quella concreta tra religione e realtà.
Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, cliccare sull'e-mail sottostante