Riportiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 28/04/2009, a pag. 31, l'articolo di Joaquìn Navarro-Valls dal titolo " Durban II e i diritti dimenticati " e dalla STAMPA, a pag. 30, l'articolo di Aldo Rizzo dal titolo " Razzismo, sventiamo Durban III ". Ecco gli articoli:
La REPUBBLICA - Joaquìn Navarro-Valls : " Durban II e i diritti dimenticati "
Joaquìn Navarro-Valls spiega per quale motivo Durban II (la Conferenza di Ginevra contro il razzismo) è fallita, "dimentica", però, di far riferimento alle accuse mosse da Ahmadinejad a Israele, come se l'antisemitismo fosse una questione marginale. Navarro-Valls scrive " Gli ideali contemplati in questo ennesimo accordo internazionale sui diritti umani sono sacrosanti. Ma è importante capire e spiegare in futuro perché essi debbano rimanere vincolanti e universali. Invece, a Ginevra si finisce per chiedere sempre nuovi finanziamenti per tentare di stipulare altre intese internazionali, le quali alla fine indeboliranno il valore antropologico dei presupposti sull´altare burocratico e contrattuale di un´eterna negoziazione diplomatica. ". Sono sacrosanti anche i riferimenti a Durban I? Sono sacrosante anche le accuse di Ahmadinejad?
Scrivere di Durban II senza far riferimento a ciò che è successo il primo giorno e al vero intento della conferenza non lo è per niente.
Ecco l'articolo:
Può essere utile fare alcune considerazioni sul documento conclusivo, sottoscritto dalle delegazioni di quasi tutti i paesi partecipanti, della Conferenza di Ginevra, che ha fatto seguito a quella di Durban di otto anni fa.
Il prossimo appuntamento dell´Onu, quando ci sarà, dovrà partire necessariamente da questa intesa, dimenticando, come sempre, le lacerazioni e le cicatrici che si sono prodotte durante i lavori. I 143 punti finali hanno la pretesa di indicare con chiarezza i termini di un accordo di contenuto relativo alla condanna di ogni forma di «razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e intolleranza». Il titolo è talmente ovvio da apparire perfino naif e retorico. Purtroppo, si tratta soltanto di un´apparenza, perché nel mondo i principi fondamentali della dignità umana non sembrano generare subito una tacita e pacifica applicazione. Perciò, siamo comunque davanti a un risultato che è rilevante dal punto di vista simbolico e comunicativo, benché assai debole dal lato dell´effettività che produrrà nel concreto della vita degli uomini.
Tanto per fare un esempio: affermare la responsabilità dei governi nella salvaguardia e la protezione dei diritti umani - come avviene al punto nove del testo - sembra relegare a un ambito di mera astrazione diplomatica tutto il discorso. Proprio perché è all´interno di Stati ufficialmente responsabili che vengono compiute di solito le violazioni più tremende. La formalità dell´accordo emerge ancora meglio dalla sezione numero tre. In essa si propone la promozione di un´universale ratifica e implementazione da parte della comunità internazionale dei diritti fondamentali della persona, affinché siano eliminate tutte le pesanti discriminazioni esistenti. In altri termini, il valore stesso delle affermazioni di sostanza sui diritti umani sono relegate nell´ambito di un´effettiva applicazione da parte di ogni Paese di accordi pattuiti con la votazione del trattato. Il metodo appare, in definitiva, molto chiaro. Siamo davanti ad una serie di affermazioni di principio che devono essere fatte valere per mezzo di comportamenti che attuino le intenzioni dei governi a casa propria e secondo la propria discrezionalità.
Il procedimento a partire dal quale questo accordo ha valore prescrittivo è dunque la singola autorità degli Stati. Ogni istituzione sovrana s´impegna a combattere per proprio conto l´impunità dei crimini commessi contro l´umanità a causa di razzismo e xenofobia, includendo in questo intento politico un´appropriata legislazione che sia non discriminatoria nei riguardi di nessun cittadino. Sicuramente se ciò fosse realizzato coerentemente, si avrebbe un passo avanti importante nel mondo dal lato dei diritti umani, perché troppo spesso l´impegno dei paesi è debole e unicamente di facciata. In tal senso, è condivisibile quanto affermato mercoledì scorso dal delegato della Santa Sede al termine della votazione: «L´esito è positivo, perché si conferma il dialogo di tutti i Paesi del mondo in favore di un accordo pratico di difesa dei diritti umani e di eliminazione delle diseguaglianze e delle discriminazioni pregiudiziali».
La domanda, però, viene spontanea: qual è il contenuto forte che si è imposto a Ginevra? Se, infatti, prendiamo la Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo del 1948, cui per altro debolmente rimanda anche questo accordo, ci accorgiamo che lì l´eguaglianza delle persone e la totale inammissibilità di ogni trattamento diversificato in nome di razza, lingua e religione sono affermati sulla base di una serie di presupposti che si reggono sulla natura stessa dell´uomo come tale. Non a caso, nel dopoguerra si fece largo un nucleo duro di diritti umani, originariamente ritenuti validi, come vero e proprio asse per tutti gli accordi successivi pattuiti tra le nazioni del mondo.
Se paragonato a quell´impegnativa promulgazione, questo documento di oggi appare a dir poco debole e ambiguo, perfino guidato da un metodo opposto al precedente. Invece di avere alcune norme universali valide che spingano gli Stati all´intesa politica, abbiamo una serie di volontà politiche che cercano un compromesso su alcuni diritti umani da tutelarsi e da riconoscersi perlomeno in parte.
Il punto è che se non si sa bene chi è l´essere umano, e qual è la specificità reale che ne definisce dal punto di vista naturale e giuridico l´essenza, si finisce per affidare l´esistenza e la validità dei diritti stessi delle persone a consensi e contrattazioni negli Stati e alla loro buona volontà. La differenza non è marginale, perché i cittadini non possono attendersi il rispetto dei loro diritti solo sulla base della bontà dei governi, altrimenti i diritti stessi potrebbero scomparire con la stessa facilità con cui sono fatti valere.
È, invece, in ragione di ciò che l´essere umano è in quanto tale che si misura la pretesa assoluta della comunità internazionale di non poter tollerare discriminazioni e violazioni personali di nessun tipo. È, infatti, l´antropologia e non la politica che definisce chi è l´uomo. E fin quando non si tornerà ad un´universale condivisione in merito al "bene umano" come tale, sarà inutile ratificare leggi e accordi che varranno fin quando converrà ai governi, lasciando stare le cose come sono e per sempre nella loro costante ingiustizia.
Gli ideali contemplati in questo ennesimo accordo internazionale sui diritti umani sono sacrosanti. Ma è importante capire e spiegare in futuro perché essi debbano rimanere vincolanti e universali. Invece, a Ginevra si finisce per chiedere sempre nuovi finanziamenti per tentare di stipulare altre intese internazionali, le quali alla fine indeboliranno il valore antropologico dei presupposti sull´altare burocratico e contrattuale di un´eterna negoziazione diplomatica.
La STAMPA - Aldo Rizzo : " Razzismo, sventiamo Durban III "
Dopo la conferenza dell’Onu a Ginevra sul razzismo, si continua a discutere se l’esito sia stato migliore di quanto alcuni temessero, se abbiano avuto ragione i presenti o gli assenti, e così via. Ma sarebbe meglio sperare che non ci siano altre conferenze di questo tipo, e che l’Onu trovi altri modi di combattere il razzismo. Il vertice ginevrino è stato definito Durban II, pensando all’analoga conferenza che si tenne in Sud Africa otto anni fa. In realtà, questa riunione planetaria (o quasi) era la quarta nel suo genere. Le prime due si svolsero nel 1978 e nel 1983 e già allora gli Stati Uniti non parteciparono, per la manifesta tendenza della maggioranza (Paesi arabi e Terzo mondo) a farne l’occasione d’una messa sotto accusa dell’Occidente e in particolare di Israele .A Durban nel 2001 le cose non andarono meglio. La vigilia fu dominata dalla richiesta arabo-palestinese di paragonare il sionismo al razzismo (benché un’infausta dichiarazione in tal senso dell’Assemblea generale dell’Onu fosse stata sepolta da una marea di proteste e revocata) e dalla domanda di «compensazione» di diversi Paesi africani, in particolare agli Stati Uniti, per la tratta degli schiavi di alcuni secoli fa. La seconda (volendo prescindere dal contesto storico e dai decisivi progressi della condizione degli «schiavi», in un’America che aveva combattuto una sanguinosa guerra civile per la loro liberazione, e che stava per avere, come oggi ha, un Presidente di origine africana) poteva anche apparire in qualche misura plausibile, mentre la prima, per quante critiche politiche si potessero e si possano fare ai governi israeliani, consisteva nel riproporre una provocazione assoluta. E tuttavia, sia pure in termini in parte diversi dalla famigerata risoluzione dell’Assemblea generale, rimase nel documento finale un’esplicita e dura condanna dello Stato ebraico.
È nel ricordo di Durban I che gli Stati Uniti e altri Paesi, tra i quali Italia e Germania, oltre naturalmente a Israele, non hanno accettato di partecipare alla Durban II. Ma ci si continua a chiedere se questa volta non sia stato diverso, se non abbiano avuto ragione i presenti a contrastare un altro esito infausto, e se il documento finale non sia poi migliore del previsto. Può darsi. La specifica condanna di Israele questa volta non c’è, anche se la si ritrova implicita nel richiamo ai risultati della Durban I. E ci sono apprezzabili impegni sul piano generale, per la parità e la dignità delle persone. Ma ciò non basta per benedire questo tipo di riunioni. Intanto è da vedere, con giustificato scetticismo, quale esito pratico avranno gli impegni presi o le promesse fatte da Stati non certo famosi per la tutela dei diritti umani e civili, mentre resta la possibilità che si offre ai leader più esagitati ed estremisti di farsi la loro propaganda, magari a uso interno. E, più generalmente, c’è un clima di confronto, che porta a divisioni (anche all’interno di gruppi omogenei come l’Unione europea) più che alla concorde ricerca della soluzione migliore.
Insomma, anche se la Durban II è stata meglio, o meno peggio, della Durban I, speriamo che non ci sia una Durban III. Nel senso, certo, che non ce ne sia più bisogno. Ma, se il bisogno ci sarà, perché il razzismo, un po’ ovunque, non cesserà di colpo, esistono altri rimedi. Sul piano dei principi da rispettare, non c’è già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Onu nel 1948 e ribadita e aggiornata cinquant’anni dopo? E, se uno o più Paesi non ne tengono conto, non è meglio che l’Onu stessa intervenga sui casi specifici, con le opportune sanzioni? Invece di celebrare alla pari, di fatto, buone e cattive intenzioni, in megaconferenze, nel migliore dei casi, compromissorie.
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