Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Un confronto fra Tariq Ramadan e Tareq Heggy E l'intervista a Dalia Mogahed, sostenitrice del dialogo coi Fratelli Musulmani
Testata:Shalom - Il Giornale Autore: Valentina Colombo - Rolla Scolari Titolo: «Dialettica a distanza tra due modi diversi di vivere l'Islam - Grazie al mio velo dialogo Obama-islamici»
Riportiamo da SHALOM n°4 di aprile l'articolo di Valentina Colombo dal titolo " Dialettica a distanza tra due modi diversi di vivere l'Islam ", confronto fra Tariq Ramadan e Tarek Heggy e dal GIORNALE di oggi, 28/04/2009, a pag. 16, l'intervista di RollaScolari a Dalia Mogahed dal titolo " Grazie al mio velo dialogo Obama-islamici " preceduto dal nostro commento. Ecco gli articoli:
SHALOM - Valentina Colombo : "Dialettica a distanza tra due modi diversi di vivere l'Islam "
"Il signor Islam non esiste” scriveva qualche anno fa l’antropologa francese Dounia Bouzar. E aveva perfettamente ragione. L’islam non è un monolite, è fisiologicamente plurale. Potremmo dire che se esistono più di un miliardo di musulmani, potrebbero esistere più di un miliardo di modi di vivere l’islam. Sta di fatto che in Europa un “signor Islam” esiste. Si tratta di Tariq Ramadan, nipote del fondatore dei Fratelli musulmani Hasan al-Banna e fautore di un islam solo in apparenza moderato. Ramadan è ambiguo, va sempre letto tra le righe. Se condanna gli attentati suicidi in Israele, li ritiene al contempo giustificabili. Se propone una moratoria per le pene corporali previste dalla sharia, non ne chiede certo l’abolizione. Ebbene molti sono però gli intellettuali musulmani che la pensano diversamente da lui. In prima fila troviamo l’egiziano Tarek Heggy, una delle menti più illuminate del mondo arabo contemporaneo che ha ricevuto il Premio ‘Grinzane Terre d’Otranto’ lo scorso novembre. “Mi piacerebbe proprio affrontare pubblicamente il signor Ramadan per mostrare all’occidente che cosa si celi sotto l’aspetto da gentiluomo di costui e dei suoi simili e quanto sia incompleta e deforme la loro formazione intellettuale”, ripete ormai da anni Heggy. Si chiede come faccia l’Europa ad ascoltarlo e a considerarlo addirittura un intellettuale di riferimento visto che “come altri Fratelli Musulmani il signor Ramadan ha due messaggi: uno per il pubblico non arabo e uno totalmente diverso in arabo. La differenza è enorme … ci si accorge dei pericoli del fenomeno del doppio linguaggio solo con un’ottima padronanza dell’arabo e un’ottima conoscenza della sharia. L’unico modo per smascherare questa ‘bugia accademica’ è porre al signor Ramadan domande precise”. Grazie alla sua conoscenza profonda sia dell’islam sia dell’arabo, Heggy ci fornisce anche la spiegazione dell’espressione “territorio della testimonianza” (dar al-shahada) spesso usata da Ramadan per indicare l’Europa: “Sostenere che oggi l’Europa è dar al-shahada conferma che il signor Ramadan è un nostalgico. Questa passione per la terminologia e i concetti medievali è, a mio parere, un chiaro e forte indice di una mente che si illude, che crede che una certa epoca storica fosse il paradiso, e che i suoi eroi, la sua lingua e i suoi concetti fossero ‘angelici’ e che quindi mira a replicarli. Il tutto è ancora più pericoloso se pronunciato dal signor Ramadan perché fa sì che ragazzi con un livello di istruzione intermedio, cresciuti nell’isolamento più totale dagli eventi contemporanei, aspirino a ripetere oggi ciò che non può essere più ripetuto. Il termine poi potrebbe anche avere un significato peggiore che corrisponde alla sua traduzione letterale, di ‘territorio del martirio’. Che sarebbe alquanto pericoloso”. Quando chiediamo un parere sulla “moratoria per le pene corporali islamiche”, da anni cavallo di battaglia di Tariq Ramadan, Heggy è lapidario: “La questione non è l’applicazione delle punizioni corporali. La domanda che gli porrei è la seguente: se rifiutate le scellerate punizioni islamiche, ne consegue forse che rifiutate l’insieme della sharia ovvero significa che per voi le punizioni corporali non corrispondono più alla modernità? Accettereste di estendere lo stesso ragionamento a tutti i campi previsti dalla sharia ovvero ai matrimoni, al commercio e alle relazioni internazionali, ovvero ammettereste che la sharia nel suo insieme non può più essere applicata? Ebbene, credo proprio di no”. D’altronde Ramadan ha scritto di essere “contro l’applicazione della lapidazione, delle pene di morte e delle punizioni corporali. In nazioni a maggioranza musulmana, si tratta di una posizione minoritaria. Quel che non possiamo negare è che queste punizioni si trovino nei testi. Quel che dico agli studiosi musulmani è che oggi le condizioni sono diverse, quindi in questo contesto non potete applicare queste punizioni”. Ne consegue che qualora le condizioni lo consentissero, si ritornerebbe alla sharia! L’ultima stoccata all’intellettuale ginevrino arriva quando riferiamo a Heggy che, in occasione della scorsa Fiera del Libro di Torino con ospite d’onore Israele, per giustificare il proprio rifiuto a parteciparvi, ha scritto al direttore dell’evento, Ernesto Ferrero: “tutto quanto non può che essere preso per una provocazione, ragione per la quale io penso che la scelta di Israele come invitato d’onore e del quale si celebra l’anniversario nel momento in cui il popolo palestinese muore a Gaza a causa della politica israeliana è come minimo una gaffe e nei fatti un errore”. Heggy, che spesso tiene lezioni presso le università israeliane e che lo scorso ottobre ha inaugurato una cattedra di studi ebraici all’università di Toronto, non riesce a trattenersi: “Ma che rapporto c’è tra le sofferenze del popolo palestinese e la Fiera del libro? E, a prescindere dal boicottaggio della Fiera, che cosa pensa davvero Ramadan del conflitto arabo-israeliano: è favorevole a un accordo politico del conflitto attraverso negoziati civili e quindi accetta che i palestinesi abbiano diritto al loro Stato ed Israele abbia pari diritto d’esistere? Oppure, come credo, è favorevole alla ‘soluzione militare’ proposta da Hamas e dagli Hezbollah? Che direbbe poi degli attentati suicidi contro civili israeliani?”. Heggy ha colto ancora una volta nel segno. Infine quando gli riferiamo che in una trasmissione televisiva francese Ramadan ha affermato che il profeta dell’islam “ha protetto le tribù ebraiche”, Heggy, non senza provare un certo imbarazzo, ammette: “Nonostante abbia letto tutte le biografie di Maometto, purtroppo non ho mai trovato alcun cenno alla ‘protezione delle tribù ebraiche’. Sarei grato al signor Ramadan se potesse guidarci alle fonti da cui ha tratto la notizia”. Sarebbe davvero interessante e istruttivo per tutti noi assistere a un faccia tra Tariq e Tarek. Forse solo allora scopriremmo chi è davvero Ramadan, ma soprattutto solo allora ci renderemmo finalmente conto che abbiamo a disposizione tante voci del-l’islam che varrebbe la pena iniziare ad ascoltare e valorizzare!
Il GIORNALE - Rolla Scolari : " Grazie al mio velo dialogo Obama-islamici "
Dalia Mogahed sostiene che sia possibile il dialogo con i Fratelli Musulmani, associazione terrorista dalla quale è nata anche Hamas. Ha scritto un libro con John Esposito, accusato di apologia del fondamentalismo islamico. Questi "dettagli" non la rendono la migliore candidata per parlare di rapporti fra Islam e Occidente.
Dalia Mogahed sarà la prima donna a varcare regolarmente la porta della Casa Bianca con il capo coperto da un velo stretto sotto il mento, per fede. Barack Obama l’ha appena nominata consigliere sull’islam. Farà parte di un nuovo comitato dal nome lungo: Advisory Council on Faith-Based and Neighborhood Partnerships. I suoi membri, 25, arrivano da tutte le comunità religiose degli Stati Uniti e lavoreranno al dialogo interreligioso. «Al presidente spiegherò che gli islamici non sono soltanto alla fonte del terrorismo, ma sono anche le sue principali vittime», ha detto lei. Mogahed, nata in Egitto e cresciuta in America, è presidente del Gallup Center for Muslim Studies, istituto di ricerca che fornisce numeri e sondaggi sull’opinione pubblica musulmana. Sulle sue analisi ha scritto un libro pieno di dati («Who Speaks on Behalf of Islam? What a Billion Muslims Really Think», con John Esposito, professore universitario accusato da alcuni d’essere apologeta del radicalismo islamico). La nomina ha suscitato già controversie online. Mogahed pensa infatti sia possibile la strada del dialogo con il gruppo islamista dei Fratelli musulmani, movimento cardine dell’islamismo mondiale. Dall’ideologia della Fratellanza, nata nel 1928 in Egitto e oggi fuorilegge al Cairo, sono nati gruppi terroristici come al Gamaa al Islamiya e Hamas, sulla lista nera di Washington e Bruxelles. «Gli Stati Uniti devono considerare quando e come parlare con movimenti politici che hanno un sostegno pubblico sostanziale e hanno rinunciato alla violenza». «I Fratelli musulmani potrebbero essere in questa categoria», è scritto in un rapporto, «Changing Course», del The Project on U.S. Engagement with the Muslim World, di cui Mogahed fa parte. Assieme, tra gli altri, a Madeleine Albright, ex segretario di Stato americano. Quale sarà il suo primo consiglio al presidente Obama? «Gli dirò che il terrorismo è un nemico comune. Non è soltanto qualcosa che ha origine nel mondo musulmano, ma anche qualcosa di cui il mondo musulmano è vittima. Gli estremisti sono una piccola minoranza». Per molti, la maggioranza moderata islamica non avrebbe fatto abbastanza per denunciare gli atti di terrorismo della minoranza. «La premessa che non ci siano state critiche non è reale. Quello che abbiamo trovato lavorando sui dati è che la maggior parte dei musulmani in diversi Paesi dice no alle violenze e alla domanda: “Cosa fanno i musulmani per migliorare le relazioni con l’Occidente?”, molti hanno risposto: “Cercano di controllare l’estremismo”. Quando agli abitanti di Pakistan, Marocco, Algeria chiedi: “Di cosa hai maggiormente paura?”, la riposta è: “Di essere vittima di un attacco terroristico”. I musulmani sono le principali vittime del terrorismo islamico e di conseguenza sono i più spaventati dal terrorismo islamico». Qual è la sua opinione sul dialogo con gruppi come Hamas, Hezbollah? E con i Fratelli musulmani? «I nostri dati mostrano che molti musulmani non credono che il mio Paese sia serio quando parla di sostenere la democrazia nella loro parte di mondo. Per affrontare la questione, una commissione di cui ho fatto parte, in un rapporto, «Changing Course», ha consigliato al governo americano di parlare con qualsiasi gruppo sia pronto a rispettare pacificamente le norme del processo democratico». Hamas e Hezbollah sono gruppi armati... «Ci sono condizioni da rispettare. Non c’è dialogo senza la rinuncia alla violenza. Nel caso di Hamas il rispetto delle richieste del Quartetto - Stati Uniti, Unione europea, Russia e Onu - (rinuncia alla violenza, smantellamento degli apparati terroristici e riconoscimento d’Israele, ndr)». E i Fratelli musulmani? «Sarebbe possibile un approccio, per via della rinuncia alla violenza». Cambierà la percezione degli Stati Uniti nel mondo arabo-musulmano con Obama? «Se ci saranno miglioramenti è perché non sta delegando ad altri la questione. Ma è troppo presto per dire se ci saranno o no; forse c’è un leggero cambiamento nella natura della conversazione all’interno dello spazio pubblico islamico: non ci si chiede più se l’America sia o no in guerra con una fede, l’islam. Ora il discorso è più focalizzato sulla politica. Si tratta di un cambiamento importante». E prima, con la precedente amministrazione? «L’Amministrazione Bush aveva già iniziato a focalizzare la questione sulla politica e non sullo scontro tra religioni. Sono stati fatti errori all’inizio, nell’uso delle parole, non dal presidente ma da alcuni membri del partito».
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