mercoledi` 14 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






La Repubblica - Corriere della Sera Rassegna Stampa
26.04.2009 La discriminazione contro le donne in Afghanistan
Perchè le femministe occidentali non protestano?

Testata:La Repubblica - Corriere della Sera
Autore: Pierluigi Battista - Viviana Mazza - Guido Rampoldi
Titolo: «Storie condivise e scomode realtà - Care femministe occidentali, lottate per le donne islamiche - Kabul, la sfida delle donne»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/04/2009, l'editoriale di Pierluigi Battista dal titolo " Storie condivise e scomode realtà " e, a pag. 29, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo " Care femministe occidentali, lottate per le donne islamiche  ". Dalla REPUBBLICA, a pag. 27, l'articolo di Guido Rampoldi dal titolo " Kabul, la sfida delle donne ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista : " Storie condivise e scomode realtà  "

E una ferita antica che si chiude. L’Italia trova final­mente le parole della riconciliazione na­zionale celebrando insie­me la «festa di libertà». Ma la libertà reale è un be­ne ancora troppo raro nel mondo che oggi, nel cuo­re del 2009, pullula di ti­ranni, di dittature, di Sta­ti di polizia, di diritti fon­damentali negati e calpe­stati. Il premier Berlusco­ni, raccogliendo l’appello del leader del Pd France­schini, ha offerto all’oppo­sizione, nel ricordo del 25 aprile, una piattafor­ma di valori comuni che non consentono più il les­sico primitivo della dele­gittimazione reciproca. Ma già oggi, all’indomani della festa della liberazio­ne e della libertà, il leader bielorusso Alexandr Lukashenko attraverserà le strade di Roma in una visita ufficiale che segne­rà il debutto dell’«ultimo dittatore europeo» nel consesso dell’Ue. Dopo aver festeggiato la libertà, il governo italiano dovrà stringere la mano a chi ne straccia quotidiana­mente la bandiera.
E’ una contraddizione che lacera l’intera comu­nità delle democrazie, un contrasto drammatico tra valori e ragion di Stato, tra princìpi e realismo po­litico, tra libertà e oppor­tunità economiche. La Bielorussia di Alexandr Lukashenko manda in pri­gione i dissidenti e imba­vaglia i giornali non alli­neati. Ma il tema delle li­bertà negate non spicca tra le priorità dell’agenda scritta dalle diplomazie del mondo occidentale, non solo dell’Italia. A Pe­chino Hillary Clinton si è quasi scusata per la pur blanda attenzione conces­sa dai governi occidentali alla condizione dei diritti umani in Cina. Ci si allar­ma più per il programma nucleare dell’Iran che per
le innumerevoli impicca­gioni inscenate sulla pub­blica piazza di Teheran. Più per i missili lanciati dalla Corea del Nord che per il dispotismo assolu­to patito dai sudditi della satrapia stalinista di Pyon­gyang. L’identità degli as­sassini di Anna Politko­vskaya non è mai all’ordi­ne del giorno nei colloqui con Putin. Né nei proficui scambi con la Libia di Gheddafi affiora mai la curiosità sui diritti civili non garantiti a Tripoli. Non è pensabile certo l’eroismo velleitario e im­potente di una rottura so­litaria con le nazioni che non conoscono né posso­no presumibilmente gu­stare nei prossimi anni il profumo di una festa di li­bertà. Ma occorre sapere che la libertà è un privile­gio di cui, nel pianeta, go­dono davvero in pochi.
In Italia arriviamo do­po tanti (troppi) anni a ri­conoscere insieme la sto­ria, culminata nel 25 apri­le, che ci ha portati alla ri­conquista della libertà. Ce ne congratuliamo. Ma sarebbe terribile se un modernissimo «patto del­l’oblio » ci impedisse di vedere che sul tema della libertà nel mondo le de­mocrazie sono divise. Che l’Europa non sa parla­re un linguaggio comu­ne. Che in Pakistan le donne sono oppresse co­me non mai dal fanati­smo fondamentalista. Che nessuno ricorda più i monaci in arancione capa­ci di sfidare la repressio­ne della giunta birmana. E se non si può chiedere all’Italia di chiudere le porte al dittatore bielorus­so in visita di Stato, è leci­to però chiedere ai gover­ni, a tutti i governi, di in­cludere in qualche pagi­na della loro agenda la pa­rola «libertà». Per festeg­giarla con più serenità e più coerenza. Per il suo presente e futuro. Non so­lo per il suo posto nel mu­seo del passato.

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Care femministe occidentali, lottate per le donne islamiche  "

«Il movimento femminista è an­dato in bancarotta», svuotato di significato dal suo stesso successo. È radicale, Ayaan Hirsi Ali, nella diagnosi, ma anche nelle aspettative. Femminista, 39 anni, nata in Somalia, ex deputata in Olanda e oggi stu­diosa dell’organizzazione conservatrice American Enterprise Institute negli Stati Uniti, dove vive sotto scorta, Hirsi Ali ha criticato duramente il trattamento delle donne nelle società islamiche. Lo ha fatto nei suoi libri Non sottomessa (Einaudi), In­fedele e Se Dio non vuole (Rizzoli). Nel 2004 il suo amico Theo van Gogh, con cui aveva girato un film sulla sottomissione delle donne nell’Islam, fu assassinato in Olanda. Sul suo petto, c’era una lettera af­fissa con un coltello: una sentenza di mor­te per Hirsi Ali, autrice della sceneggiatura del film.
Mentre le donne musulmane combatto­no in Occidente e nei Paesi d’origine una battaglia per i diritti, le femministe occi­dentali non stanno protestando con forza accanto a loro. Sul fronte italiano, Susan­na Camusso, Lidia Menapace, Assunta Sar­lo hanno sostenuto che «il movimento femminista è come un movimento carsi­co, che compare e scompare» e che vivia­mo «una stagione di silenzio», in cui le donne non hanno rilievo politico. Per que­sto, dicono, oltre che per una difficoltà a discutere di Islam, non si scende in piazza. «Non esiste un nuovo femminismo glo­bale fatto di donne immigrate, donne dei Paesi del Terzo Mondo e donne occidenta­li — dice adesso Hirsi Ali —. In ogni Paese ci sono donne come me, come Taslima Na­sreen, come Irshad Manji in Canada, Necla Kelek in Germania, ma siamo sparse per il mondo, non abbiamo un’unica organizza­zione ». All’analisi segue però l’obiettivo. «È il momento di ripensare l’intero movi­mento femminista, di dire che dopo aver ottenuto tanto in Occidente, si deve inizia­re un movimento per la liberazione delle donne non occidentali».
A 5 anni Hirsi Ali fu sottoposta all’infi­bulazione. A 22, fu costretta a sposarsi. Messa su un aereo per il Canada, approfit­tò dello scalo in Germania per fuggire. Si rifugiò in Olanda, dove è poi diventata de­putata del partito neoliberista VVD. Quan­do l’Olanda ha rifiutato di proteggerla, si è rifugiata in America. Se Hirsi Ali riesce a parlare, perché è così difficile per le fem­ministe occidentali? Una delle ragioni, di­ce lei, è la «mancanza di affinità»: «Le don­ne in Afghanistan protestano per il diritto a lavorare, a non essere stuprate nel matri­monio o costrette a sposarsi, tutte cose che le europee e americane hanno conqui­stato. Per le femministe occidentali oggi le priorità sono infrangere il 'soffitto di ve­tro' del potere, conciliare maternità e car­riera ». C’è anche una difficoltà, ammessa dallo stesso movimento, a lottare oggi per i diritti delle donne persino in patria. «In questo l’Italia non è diversa dall’Olanda, dai Paesi scandinavi e dalla Francia — dice Hirsi Ali —. La tragedia delle femministe europee è che si sono avvicinate troppo al­lo Stato. Le organizzazioni prendono sussi­di dal governo, loro sono diventate funzio­nari statali e parlamentari. In passato face­vano pressione e protestavano contro lo
Stato se non proteggeva le donne. Ma se prendi sussidi, diventi lo Stato». La ragio­ne principale del silenzio, però, è ideologi­ca, sostiene: «Le femministe hanno ab­bracciato l’ideologia del multiculturali­smo ». «In Afghanistan le donne manifesta­no contro pratiche previste dalla legge isla­mica, ma le organizzazioni femministe oc­cidentali non sono per niente critiche del­l’Islam — spiega — . Ascoltano la minoran­za di uomini che usano l’Islam come stru­mento per sottomettere le donne. Nei con­fronti dell’uomo musulmano hanno una sensibilità che non avevano per l’uomo cri­stiano ». Ed è così che la sinistra ha perso il primato nella difesa delle donne.
«L’idea in sé di liberare le donne dalle catene della tradizione e della religione è oggi negli Stati Uniti una questione soste­nuta e promossa con passione dal partito repubblicano. È un paradosso perché una volta era la missione principale della sini­stra. Idealmente dovrebbe essere una que­stione bipartisan. Ma di fatto in Europa e
in America sono i conservatori a parlare e offrire denaro e tempo per la questione delle donne musulmane».
Il movimento femminista globale teoriz­zato dalla scrittrice dovrebbe presentare petizioni, portare la gente in piazza. «Quando le donne afghane sono andate a manifestare, c’è stata una contromanifesta­zione di centinaia di uomini. L’Italia ha mandato truppe in Afghanistan: donne e uomini dovrebbero dire 'Vogliamo giusti­zia per quelle donne'. Se guardiamo al­l’esempio del Sudafrica, prima dell’aboli­zione dell’apartheid, c’era un’enorme indi­gnazione in Occidente: ai bambini veniva insegnato a scuola che la segregazione raz­ziale è un male, la gente mandava soldi, ve­stiti e risorse all’Anc, le organizzazioni per i diritti civili europee e americane faceva­no pressioni sui governi e proteste senza fine. Niente del genere sta accadendo per le donne musulmane, né per le cinesi, le indiane o le donne del Sud del mondo».
Molte attiviste musulmane però non condividono l’idea di Hirsi Ali che Islam e diritti umani siano inconciliabili (altro ostacolo alla creazione di un «movimento globale»). Lei ritiene che «il principio del­l’oppressione sia contenuto nel Corano e negli insegnamenti di Maometto». E ha ab­bandonato l’Islam, professandosi atea. Ma molte musulmane sostengono che le vio­lenze sulle donne nel nome di Dio sono
contrarie al «vero Islam». «Non devono rinnegare la loro religione — dice Hirsi Ali —. Ma per emanciparsi, devono capire una cosa: il Dio che dice che devono esse­re oppresse è lo stesso Dio che pregano per ottenere la salvezza. Le organizzazioni di donne musulmane non lo capiscono. Le occidentali possono aiutarle condividen­do la storia della propria emancipazione, che non sarebbe stata possibile senza una cornice morale laica che garantisce pari di­ritti e se non avessero contestato la Bibbia e le autorità religiose. La prima battaglia che le donne musulmane devono combat­tere non è contro gli uomini che le oppri­mono, né contro lo Stato: è contro il loro stesso Dio» .

La REPUBBLICA - Guido Rampoldi : " Kabul, la sfida delle donne "

Cantano in tv a volto scoperto, conducono programmi radio, scendono in piazza per contestare la "nuova" legge sul diritto di famiglia. Il coraggio delle ragazze afgane - nonostante le pressioni di padri e mariti, gli assassinii, gli sfregi al vetriolo - è la novità più sorprendente del Paese tornato al centro del Grande Gioco in versione anni Duemila. è una guerra senza fine in cui né una parte né l´altra da allora è riuscita ad attestarsi in una posizione salda, definitiva. Un conflitto cruento le cui vittime predestinate, donne che osano l´inosabile, non devono guardarsi soltanto dal nemico dichiarato, i Taliban, ma spesso anche da chi dovrebbe proteggere le loro spalle, innanzitutto genitori e fratelli. I Taliban hanno assassinato la direttrice di Radio Pace, nel 2007; ma sono stati i familiari a uccidere due annunciatrici colpevoli di essere andate in video truccate e senza velo, mi ricorda Tanya Kayan, conduttrice di una trasmissione radiofonica. Tanya era la prima della classe quando i Taliban chiusero le scuole. Continuò a studiare in casa, su libri di testo comprati al mercato nero e dopo la liberazione dell´Afghanistan fu nel primo gruppo di ragazze che si iscrisse alla facoltà di giornalismo. Delle dodici che si sono laureate con lei, sei sono state costrette da genitori e mariti a rinunciare al lavoro per fare le mogli. Eppure le altre sette lavorano nei media, le ragazze che compaiono in tv sono sempre più numerose, e il moltiplicarsi di queste presenze femminili sulla scena pubblica sta cambiando, dice Tanya, perfino l´arcigno tradizionalismo pashtun. Secondo la Kayan, oggi il venti per cento delle donne afgane è consapevole dei propri diritti, una percentuale altissima se consideriamo che una parte rilevante della popolazione femminile di fatto non è neppure in grado di leggere.
Quel venti per cento sta vincendo la propria guerra millenaria, sia pure al prezzo altissimo di cui raccontano le cronache. Adolescenti sfregiate con il vetriolo perché andavano a scuola, donne ammazzate perché avevano accettato un ruolo di potere, ragazze sparate per aver amato il ragazzo rifiutato dai genitori… Ogni rivoluzione ha i suoi caduti. Ma perché questa finalmente riesca, occorre che vada bene anche l´altra guerra, la guerra guerreggiata dagli uomini. In proposito, molte afgane sono dubbiose. Temono che l´Occidente e i suoi alleati afgani finiranno per svendere i diritti delle donne in cambio di un armistizio qualunque. Tanya non è tra queste. «Non credo che ci pianterete in asso», dice con un bel sorriso. Ma un mese fa, in un dibattito tra giornaliste ospitato dalla sua radio Killid, la conduttrice di una tv ha ritenuto prudente fare autocritica: mi pento di aver chiamato «selvaggi» i Taliban, ha detto. Non si sa mai.
Così la guerra delle donne si decide anche sulla cresta di una montagna, a due ore di macchina da Kabul, dove trovo quaranta soldati afgani accampati al riparo di muretti di pietra. Non sono al sicuro. L´anno scorso una granata è fischiata sulle loro teste (ma è esplosa lontano, un duecento metri) e una recluta è stata ammazzata da un cecchino appostato sulla montagna dirimpetto. Le pattuglie nemiche arrivano di notte, da una valle vicina, Ouzbine, dove si nascondono tra i centoventi e i centoquaranta Taliban, racconta Agha Jonbozi, il maggiore afgano che mi accompagna quassù. Sono gli stessi Taliban che nel 2008 hanno massacrato dieci militari francesi. Ma questa valle l´hanno persa. L´attacco decisivo è stato condotto dagli elicotteri americani. Però è stato il maggiore afgano a conquistare i cuori e le menti dei contadini. Aiutati dai consiglieri americani i suoi soldati hanno portato nei villaggi l´allaccio dell´acqua, aperto una scuola e distribuito sementi. Tre anni fa le strisce di verde scuro ai piedi dei villaggi color terra erano campi di papavero da oppio. Oggi sono campi di zafferano, e rendono di più. Altrove in Afghanistan è stato soprattutto il grano a soppiantare l´oppio. Da quando sui mercati internazionali il suo prezzo è aumentato, un acro coltivato a grano rende grossomodo quanto un acro coltivato a papavero, ma richiede meno acqua e meno lavoro. E anche per questo l´anno scorso l´estensione delle coltivazioni di papavero sul territorio afgano è diminuita di un quinto. Ma è stato un successo per gran parte casuale e, se i trafficanti di oppio aumentassero l´offerta, temporaneo.
È effimera anche la vittoria del maggiore afgano Jonbozi e dei suoi consiglieri americani? Come ci ricordano più in basso i relitti di tank sovietici affioranti dal terreno, queste valli strategiche tra Kabul e il Pakistan sono state la trappola in cui finirono massacrate le guarnigioni in fuga di due poderosi imperi. Nell´Ottocento i britannici, nel Novecento i russi. Ma quella in corso è una guerra diversa da tutti conflitti passati. «La strana guerra», la definisce Jamil Karzai, nipote del capo di Stato e influente parlamentare. Strana perché è la più asimmetrica tra le guerre asimmetriche, una somma caotica di antiche rivalità geostrategiche e stravaganti partite occulte, come quella di cui mi racconta il senatore Mohammad Arif Sarwari, fino al 2004 capo dei servizi segreti afgani (Nds). Nella provincia di Khost, proprio a ridosso del confine con il Pakistan, «c´è una base fuori dal controllo Nato in cui i servizi americani e indiani lavorano insieme ad un programma segreto, credo tuttora attivo. Non riguarda al Qaeda o bin Laden, ma il Pakistan. Da quella base elicotteri trasportano armi e pacchi di banconote ad alcune tribù pakistane nelle aree tribali». Secondo Sarwari, tra i beneficiati vi sono anche le milizie sciite di Parachinar, protagoniste nel 2007 di uno scontro feroce con tribù sunnite. E se questo è vero, probabilmente il messaggio americano ai militari pakistani suona così: finché voi aiutate i nostri nemici Taliban in Afghanistan, noi aiuteremo i vostri nemici indiani a crearvi instabilità in casa.
Come la guerra degli uomini, così la lotta delle afgane per l´emancipazione ha una prima linea tortuosa. C´è un nemico esterno, i Taliban, e uno interno, un islamismo che odia i Taliban ma non è meno bigotto di loro. Dove i due campi si intersecano, la confusione è massima. Come si è visto quando il parlamento afgano ha approvato la legge sul diritto di famiglia. A lungo perseguitata in quanto sciita, per la prima volta nella sua storia millenaria la minoranza hazara, il dieci per cento della popolazione, si vedeva riconosciuto un proprio diritto di famiglia, diverso da quello sunnita, e con quello il diritto a una propria identità. Ma a quale prezzo? In buona sostanza la legge è stata scritta dai mullah sciiti e da parlamentari di etnia hazara che per buona parte provengono dalla resistenza armata ai Taliban. Dalla ricomposizione del sodalizio tra guerrieri e sacerdoti non poteva che nascere una legge profondamente illiberale: però un po´ meno illiberale di quanto non siano i costumi tradizionali dei contadini dell´Hazarajat, presso i quali, per esempio, è normale prendere in sposa una bambina di nove anni (la nuova normativa lo vieterebbe).
Proprio questi interventi sui costumi nuziali degli Hazara avevano convinto partiti laici come Terza linea, e deputate progressiste come Sunia Barakzai, che il testo fosse un compromesso accettabile. E questa grossomodo era anche l´opinione dei giornalisti liberali, perciò sorpresi dalle proteste che arrivavano dai governi occidentali. «Quella legge non è così importante», mi diceva in quei giorni Mujahid Kakar, caporedattore di una tv, al Tolo, che pure detesta, ricambiata, ogni fondamentalismo islamico. Perfino giornaliste che i Taliban fucilerebbero volentieri, come Tanya Kayan, non capivano perché l´Occidente si scandalizzasse tanto: «La questione vera è un´altra, permettere concretamente alle donne di studiare e di lavorare. È a quel modo che le afgane apprenderanno i loro diritti e impareranno a difenderli».
Però quella legge non era affatto un problema marginale per molte ragazze sciite di Kabul, soprattutto non-hazara di credo ismailita, cui non andava giù l´idea che diventasse un obbligo legale, per esempio, concedersi al marito, se richieste, almeno una volta ogni quattro giorni (dimostrando una singolare idea della libido femminile, il testo impone lo stesso obbligo al marito, però una volta ogni quattro mesi). Così trecento ragazze vestite nell´uniforme nera delle donne sciite la scorsa settimana hanno inscenato a Kabul una clamorosa manifestazione di protesta. La reazione è stata immediata: nello spazio di una mezz´ora un migliaio di studenti sono scesi in piazza per contrastare, con urla e insulti, le svergognate che avevano osato sfidare il clero sciita, e in modo così plateale.
Adesso gli sciiti sono divisi tra chi rifiuta «ingerenze» sunnite, o peggio, occidentali, e chi invece si chiede se la legge, nel frattempo congelata, non sia un pessimo biglietto da visita per la propria fede. Probabilmente il parlamento apporterà modifiche: ma se si limitasse a qualche ritocco, per non scatenare l´ira dei mullah, come reagirebbero gli occidentali? Chiunque conosca la storia dell´invasione sovietica non può ignorare che proprio sovvertire i costumi afgani fu fatale ai russi. I liceali furono incitati ad amarsi liberamente e a ribellarsi ai matrimoni combinati dai genitori. Ma se questa rivoluzione regalò un po´ di libertà a una generazione, però convinse molti altri afgani che era in corso un attacco all´islam e soprattutto agli assetti della società patriarcale: convinzione che contribuì non poco all´adesione alla guerriglia dell´Afghanistan rurale.
Gli occidentali non ripeteranno gli errori dei sovietici. Sette anni fa, liberato l´Afghanistan, la loro parola d´ordine era: dobbiamo essere ambiziosi. Oggi è: dobbiamo essere realisti. Ma un realismo in eccesso può essere pericoloso: quali sono i limiti oltre i quali diventerebbe tradimento delle afgane? E la salvaguardia dei diritti elementari delle donne è o no una condizione tassativa a quella «soluzione politica» considerata inevitabile ormai da tutti - Karzai, americani, europei? Il problema è complicato dal fatto che agli occidentali manca un interlocutore chiaro. Quelli che chiamiamo «Taliban» sono infatti una somma di varie bande e di vari interessi. Il comando occidentale preferisce definirli «insorti» e il capo di stato maggiore Nato, il generale Marco Bertolini, valuta che i Taliban veri e propri siano una piccola minoranza. Di fatto i Taliban contro cui combatte il maggiore Jonbozi tra le montagne che circondano il lago di Naghlu, non sono davvero Taliban. Il loro capo, il comandante Sultan, va e viene dal Pakistan con una facilità che i militari afgani considerano prova inconfutabile di un legame con i servizi segreti pakistani, l´Isi. Sultan coordina sette distinti gruppi armati, che comprendono contrabbandieri (il Pakistan è vicino), criminali comuni, arabi, ceceni. Ma il grosso, valuta il maggiore Jonbozi, è composto da militanti di Hizb-i-islami, l´organizzazione di un alleato dei Taliban, Gulbuddin Hekmatyar. Quest´ultimo ha un legame storico con il servizio segreto pakistano e uno più recente con Teheran; è in relazioni con al Qaeda, e in affari con i narcotrafficanti. Ma al tempo della guerra santa contro i sovietici era un favorito dell´Occidente. Ricevette onorificenze dalle mani di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, che lo proclamarono «combattente per la libertà». Non sarebbe sorprendente scoprire che adesso egli figuri tra i «Taliban moderati» con cui Karzai e molto Occidente vogliono concludere una pace separata. Favorisce l´accordo il fatto che i due tronconi in cui si è divisa Hizb-i-islami combattono l´uno dalla parte di Karzai e l´altro con i Taliban. La fazione guerrigliera, specializzata nello sfregiare scolare con il vetriolo, tiene il quartier generale in un campo-profughi pakistano dove la polizia potrebbe facilmente neutralizzarla, se solo lo volesse. Un´altra parte di Hezb-i-islami è presente nel parlamento di Kabul con quarantacinque deputati, dispersi in vari partiti. La maggior parte appoggia Karzai, e tenta, finora senza risultato, di convincere gli ex compagni d´arme ad abbandonare la guerriglia.
Il timore di molte afgane è che questo lavorio segreto induca gli occidentali a sacrificare a una pace qualunque alcuni diritti fondamentali. Tanto più se i Taliban veri e propri diventassero un interlocutore della Nato: in quel caso otterrebbero legittimazione anche le loro idee, incluse le concezioni della forsennata setta Deobandi, per la quale le donne sono grossomodo un´umanità minore, subalterna al maschio per un disegno divino. Raddoppiando il proprio contingente in Afghanistan, Washington ha messo in chiaro che vuole negoziare da posizioni di forza, e magari non prima di un successo militare. Allo stesso tempo l´amministrazione americana cerca un accordo regionale che induca i vari protettori della guerriglia a ritirare ciascuno la propria sponsorizzazione. Questa è da tempo l´idea europea e adesso anche l´intenzione di Richard Holbrooke, l´inviato di Obama. Ma il tentativo di Holbrooke può riuscire soltanto se saranno risolte questioni confinarie che si trascinano dal Novecento (la frontiera tra Pakistan e Afghanistan, non riconosciuta da Kabul, e l´assetto definitivo del Kashmir, conteso tra Islamabad e Delhi).
In ogni caso, finché non saranno sopiti i conflitti che da un trentennio si riverberano in questa mischia complicata, i grandi o piccoli successi conseguiti dalle ragazze afgane non saranno meno precari dei muretti di pietra dietro i quali i soldati del maggiore Jonbozi attendono il prossimo attacco dei Taliban.

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti


rubrica.lettere@repubblica.it
lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT