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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
24.04.2009 Obama: non si può negare la Shoah
Analisi di R. A. Segre e cronaca di Maurizio Molinari

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: R. A. Segre - Maurizio Molinari
Titolo: «Iran, grande freddo tra Usa e Israele - Contro l'Iran ricordare la Shoah»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 24/04/2009, l'analisi di R. A Segre dal titolo " Iran, grande freddo tra Usa e Israele ", pag. 14 e dalla STAMPA,  l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Contro l'Iran ricordare la Shoah ", pag. 15. Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - R. A. Segre : " Iran, grande freddo tra Usa e Israele  "

Obama ha invitato il presidente palestinese Abu Mazen, quello l'egiziano Mubarak e il premier israeliano Netanyahu a Washington per l'inizio di giugno. È il rilancio della politica americana per il Medio Oriente. E, dopo otto anni di rapporti «molto speciali» con Gerusalemme, potrebbe essere l'inizio di un raffreddamento senza precedenti. Netanyahu non mostra fretta di andare a Washington, tanto che la riunione annuale dell’Aipec, la lobby pro israeliana accusata di influenzare troppo la politica statunitense, potrebbe tenersi per la prima volta senza la presenza di un premier israeliano.
Varie ragioni spiegano questa condotta. Anzitutto Netanyahu desidera attendere i risultati delle elezioni libanesi del 7 giugno. Se da queste elezioni uscirà una netta vittoria degli hezbollah sciiti e filo-iraniani, non solo Israele ma l'Occidente ed in primo luogo la Francia si troveranno di fronte ad un grosso problema politico e di sicurezza. Per quanto concerne Israele, Netanyahu avrà dopo queste elezioni miglior gioco nel chiedere a Obama come l’America intende reagire di fronte all’arrivo dell'Iran sulle sponde del Mediterraneo. I suoi missili - non solo più quelli a lunga gittata - mettono sotto tiro Israele e la Sesta flotta americana e di fatto cambiano gli equilibri nel Mediterraneo. Per questo il presidente americano deve tener conto delle possibili ricadute che un successo di fondamentalisti islamici anti israeliani potrebbe avere sulla politica interna americana. Nel 2010 ci saranno le elezioni per il rinnovo di parte dei seggi al senato dove i democratici vogliono conquistare la maggioranza e obbligare i repubblicani ad aderire alla strategia della «mano tesa» che Obama intende perseguire verso tutti gli avversari. Anche in considerazione della crisi economica, l'amministrazione democratica deve prepararsi sin dal prossimo novembre ad affrontare un elettorato in fibrillazione: aumenterà di conseguenza il peso specifico del voto ebraico.

La Casa Bianca - almeno così si pensa a Gerusalemme - non potrà esimersi dal dimostrare a Israele (ma anche all'Egitto e all'Arabia Saudita, avversari religiosi e politici dell'Iran) come intende contenere lo sviluppo nucleare di Teheran. Da questo impegno dipende una questione non meno importante e drammatica: l'eventuale decisione di Gerusalemme di agire, anche se necessario da solo, contro le strutture atomiche iraniane. Come ricordato su queste pagine, il capo di Stato maggiore Usa, ammiraglio Mullen, ritiene l'attacco israeliano più probabile con l'avvento al potere della destra israeliana.
Non si deve infine dimenticare che, a parte ogni altra considerazione politica, Netanyahu considera la risposta ebraica al pericolo iraniano un dovere storico, dettato dall'esperienza dell'olocausto, e la condizione «sine qua non» per collaborare a qualsiasi altra proposta americana di soluzione per la questione palestinese ( inutile parlare di due Stati quando uno è minacciato di scomparsa). Se l'appello alla distruzione di Israele continua ad essere un elemento della politica estera iraniana, come si è visto a Ginevra, esso diventa anche un fattore di forza morale.
Netanyahu non è il solo ad essere convinto, nel mondo ebraico e fuori di esso, che la ragione per la quale sei milioni di ebrei - che pure seppero mostrare la loro capacita combattiva contro i nazisti come partigiani e nel ghetto di Varsavia - si lasciarono portare quasi senza resistenza al macello, fu dovuta al fatto che essi stessi come il mondo civile non credevano che Hitler avrebbe praticato quello che predicava. Il premier israeliano spera di convincere Obama, quando lo incontrerà, che Israele, costi quello che costi, non permetterà al presidente iraniano di anestetizzare gli ebrei e il resto mondo come fece Hitler. Reagire anche contro la volontà di Washington rappresenta pertanto un interesse superiore di sopravvivenza e l’interesse politico di non deludere potenziali alleati come l'Egitto, l'Arabia Saudita e quegli Stati che temono l'affermarsi della potenza nucleare dell'Iran.
Del resto Netanyahu non è il solo capace di opporsi con successo alla politica di negoziazione a tutto campo della nuova amministrazione americana. Obama ha dimostrato alla riunione del G-20 , a quella della Nato come alla recente conferenza interamericana, di sapersi ritirare con eleganza davanti ai «no» che ha dovuto incassare. Dovrà accettare anche quelli di Israele. Per cui non lo disturba avere accanto un ministro degli Esteri che non sempre si «può presentare in società» ma che sa esprimere i «no» di Israele in maniera chiara anche se poco diplomatica. Di questa opinione è anche il ministro degli Esteri siriano, che paragona Lieberman al suo predecessore, Tzipi Livni.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Contro l'Iran ricordare la Shoah "

Barack Obama ricorda solennemente l’unicità dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti a 96 ore di distanza dalle polemiche innescate alla Conferenza dell’Onu a Ginevra dagli attacchi al «razzismo di Israele» lanciati dal presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, che ha spesso negato pubblicamente l’Olocausto.
L’evento, dentro il Campidoglio di Capitol Hill, è curato dal cerimoniale della Casa Bianca per assegnargli il massimo risalto simbolico: il presidente è circondato dai sopravvisuti ai lager, da alcuni cittadini polacchi che sfidarono la morte per salvare alcuni ebrei, dai leader del Congresso, dai rappresentanti di Israele e delle comunità ebraiche.
Alle sue spalle, i drappi di tutti i reparti delle forze armate americane che liberarono i campi di sterminio, inclusa la 89ª divisione di fanteria nella quale militava un suo prozio. Il primo a prendere la parola è il premio Nobel per la pace Elie Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz, che chiama in causa Ahmadinejad accusandolo di negare lo sterminio e di aver «insultato Israele come nessuna persona civilizzata dovrebbe fare». L’affondo di Wiesel contro Amadinejad è duro: sullo sfondo della memoria dello sterminio evoca il rischio di un secondo Olocausto che potrebbe essere causato in Israele da un’atomica lanciata da Teheran. Quando Wiesel termina, l’aula del Capitol è immersa in un silenzio di raccoglimento per celebrare il «Giorno del Ricordo» e Obama rende omaggio alla «saggezza e testimonianza» del Nobel per la pace, facendo capire di condividere quanto ha appena detto.
Se nei giorni precedenti la Casa Bianca ha condannato l’arringa anti-israeliana di Ahmadinejad a Ginevra, ora Obama fa un passo in più, facendo propria la memoria dello sterminio che viene negato da Teheran. Prima parla dell’unicità del massacro di sei milioni di ebrei: «La scienza che poteva guarire venne usata per uccidere, la burocrazia che sostiene la vita moderna venne adoperata per eseguire uccisioni di massa, l’Olocausto fu unico nel suo scopo e nel metodo, venne alimentato dagli stessi odi che hanno causato atrocità nel corso della Storia».
Poi ricorda due americani testimoni di quanto avvenne: il prozio «che partecipò alla liberazione del campo di Ohrdruf, parte di Buchenwald» rimanendone segnato al punto che al ritorno in patria «si chiuse in casa per sei mesi» e poi il presidente Dwight Eisenhower. E’ descrivendo la scelta che fece Eisenhower, nelle vesti di comandante supremo delle truppe alleate in Europa, subito dopo la liberazione di Buchenwald, che Barack Obama recapita a Mahmud Ahmadinejad il messaggio desiderato: «Eisenhower ordinò ai tedeschi delle città vicine di visitare il campo per vedere ciò che era stato perpetrato in loro nome, ordinò alle truppe americane di visitare il campo per vedere il Male contro il quale avevano combattuto, inviò giornalisti e membri del Congresso a condividere il ruolo di testimoni, ordinò di scattare fotografie e girare film perché comprese il pericolo del silenzio». Insomma, l’America si considera testimone della Shoà e rigetta ogni tipo di negazionismo.

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