Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Iraq: arrestato capo di Al Qaeda. Pakistan: continua l'avanzata dei talebani Cronaca di Guido Olimpio, analisi di Carlo Panella e Daniele Raineri, intervista di Maurizio Molinari
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa Autore: Guido Olimpio - Gianandrea Gaiani - Carlo Panella - Daniele Raineri - Maurizio Molinari Titolo: «Iraq, preso capo di Al Qaeda Ma il terrore non si ferma - Il fronte di Kipling è fuori controllo - Gli ultimi sei mesi del Pakistan - Washington rischia di ritrovarsi come alleato uno Stato fallito»
Riportiamo da pag. 12 del CORRIERE della SERA di oggi, 24/04/2009, la cronaca di Guido Olimpio dal titolo " Iraq, preso capo di Al Qaeda Ma il terrore non si ferma ". Dalla prima pagina de Il FOGLIO, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Il fronte di Kipling è fuori controllo " e, da pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Gli ultimi sei mesi del Pakistan ". Da pagina 8 de La STAMPA, l'intervista di Maurizio Molinari a Robert Kaplan dal titolo " Washington rischia di ritrovarsi come alleato uno Stato fallito ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Iraq, preso capo di Al Qaeda Ma il terrore non si ferma "
WASHINGTON — Le autorità irachene hanno annunciato la cattura del presunto capo di Al Qaeda in Iraq, Abu Omar Al Bagdadi, ma i suoi seguaci non se ne sono accorti. Con una coppia di bombe umane hanno ucciso, in distinti attacchi kamikaze, 87 persone confermando una ritrovata capacità terroristica. Le due notizie sono lo specchio della situazione in Iraq: da un lato progressi significativi, dall’altro una minaccia che non svanisce. Partiamo da Al Bagdadi. Il comando militare, con l’assistenza dell’intelligence, lo avrebbe individuato e catturato. Un successo accolto con grande prudenza da fonti indipendenti e non confermato dal Pentagono. È c’è più di un motivo per essere cauti. Intanto il leader è stato dato per catturato o morto in almeno tre occasioni. Un’incertezza resa ancora più intrigante dal suo profilo. La «tradizione» qaedista lo pone nel 2006 al vertice dello Stato Islamico dell’Iraq, il cartello che riunisce diverse formazioni integraliste, dopo l’uccisione di Al Zarqawi. Curiosamente, in un messaggio audio, Osama Bin Laden riconosce però come leader l’egiziano Abu Ayub Al Masri. Altro colpo di scena: Al Masri si sottomette all’autorità di Al Bagdadi che riempie il vuoto mediatico con raffiche di messaggi audio. E nascono le leggende. Gli americani, sollevando una reazione furiosa degli ambienti jihadisti, affermano: non esiste, è solo un nome di copertura, hanno ingaggiato un attore iracheno per registrare i suoi proclami. Un esperto aggiunge: la dichiarazione di fedeltà di Al Masri è un trucco. Una manovra per rispondere alle critiche nei confronti dello stragismo e all’accusa di essere un’entità straniera. Nominando come capo Al Bagdadi si fa passare il messaggio che c’è finalmente un iracheno a guidare il movimento mentre Al Masri resta il ruolo di «ministro della Guerra». Le autorità locali hanno la loro verità. Al Bagdadi, ribattono, esiste. Nel 2006 dicono che si tratti di Khaled Al Mashadani, alias Abu Zayd. Non tutti sono convinti e ipotizzano un errore di persona. Nel maggio del 2007 raccontano che suo nome è Hamid Al Zawi. Sarebbe un ex ufficiale di Saddam o forse un ex insegnante. Quanto alle conseguenze gli analisti occidentali non si fanno illusioni. I gruppi qaedisti, anche se debilitati, sono abituati a sopravvivere alla caduta del loro emiro. Gli attacchi che ieri hanno insanguinato Bagdad e Muqdadya lo provano. Nel mirino poliziotti, civili e un folto gruppo di pellegrini iraniani. Vittime del «Buon raccolto», una nuova offensiva che la voce di Al Bagdadi aveva annunciato il 17 marzo con un messaggio audio. Forse l’ultimo del fantasma.
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Il fronte di Kipling è fuori controllo "
Un’inquietante linea di continuità lega l’affermazione dei talebani in Afghanistan a partire dal 1996 e la loro recente marcia trionfale in Pakistan. Inquietante soprattutto da parte degli Stati Uniti che nell’uno come nell’altro caso hanno lasciato che il fenomeno si sviluppasse indisturbato. Peggio ancora: hanno delegato in toto la gestione delle operazioni politiche e militari al Pakistan, che invece ha favorito la destabilizzazione. E’ una delega suicida che lega nell’errore di analisi e di comportamento le Amministrazioni Carter, Reagan, Clinton, Bush e Obama. E’ una delega che si concluse in Afghanistan con l’11 settembre e che ora rischia – come ha compreso, troppo tardi, Barack Obama – di consegnare il Pakistan a una fase “cancerosa” terminale. Da una trentina d’anni Washington commette una mole d’errori sulla questione “AfPak” che ha come risultato quello di favorire i talebani. Errori che si basano sull’ignoranza dell’enorme spessore storico del movimento islamico nell’area che comprende Afghanistan, Pakistan e India, le cui radici – straordinariamente attuali, quanto ignorate – risalgono al regno Moghul e all’islam fondamentalista che lo caratterizzò dal 1500 al 1800. Per ridurre la questione ai suoi termini primi, bisogna comprendere che per un fondamentalista islamico tutta quell’enorme area è terra musulmana, Dar al islam, ed è un insulto da riparare che su di essa eserciti sovranità uno stato come l’India democratica e a maggioranza indù. Il conflitto del Kashmir è soltanto la punta dell’iceberg di una pulsione jihadista e “irredentista” che non riconosce i confini post coloniali del 1948. Questa logica “irredentista” ha mosso l’operazione terroristica di Mumbai nel novembre dello scorso anno. Questa è la ragione per cui dal 1977 i vertici militari pachistani (formatisi nella guerra civile con il Bangladesh del 1970-71, combattendo e perdendo contro le truppe indiane) hanno sposato largamente il fondamentalismo, hanno introdotto la sharia nel paese e sono stati la “levatrice” dei talebani, prima in Afghanistan e oggi in Pakistan. L’ex presidente Perwez Musharraf è il perfetto prototipo di questa tipologia di generale pachistano: nato a Delhi e fuggito bambino a Islamabad nel 1948, eroe – e macellaio – nel Bangladesh, fa carriera nell’élite militare fondamentalista di Zia ul Haq (autore del golpe del 1977 contro Ali Bhutto) e – diventato capo di stato maggiore – usa i talebani come detonatore per scatenare, nel luglio del 1999, una guerra con l’India che rischia di deflagrare in modo rovinoso. Bloccato in extremis questo suo progetto, il 12 ottobre del 1999 organizza un golpe e rafforza i legami che già aveva coltivato con i talebani afghani negli anni precedenti. Dopo l’11 settembre il presidente americano, George W. Bush, si illude che la minaccia di combattere il suo Pakistan quale complice dei terroristi e l’offerta di due miliardi di dollari l’anno (in parte intascati dallo stesso Musharraf, in parte usati per comperare consenso tra i generali) abbiano compiuto il miracolo e che quindi il presidentegenerale abbia davvero deciso di cambiare campo. E’ un’illusione. Innanzitutto perché la forza del movimento fondamentalista in AfPak non è soltanto nell’irredentismo islamico. I talebani sanno conquistarsi fasce consistenti di consenso dal basso – in paesi sfiancati dalla corruzione – perché segnano una piena continuità con la scuola coranica di Deoband, fondata nel 1865 per contrastare l’opera riformatrice della scuola coranica di Aligarth (che ha formato i musulmani modernisti che oggi sono al governo in India). Se si vuole comprendere come sia potuto accadere che a duecento metri di distanza dalla sede dell’Isi (il servizio segreto pachistano) diretto da Ashfaq Perwez Kayani, poi promosso e diventato capo di stato maggiore, abbia potuto funzionare per anni la “moschea rossa” dei talebani, che fu sgomberata nel luglio del 2007 con una battaglia urbana, bisogna usare questo schema interpretativo: uno storico radicamento dell’ideologia shariatica più conservatrice dal basso si interseca con un altrettanto forte sentimento irredentista nei confronti di tutto il subcontinente indiano dei vertici militari. Parte dell’élite militare pachistana unisce la sua vocazione “strategica” nazionale – combattere l’India – a quella della riconquista jihadista del Dar al Islam, per reintrodurvi la sharia. Il tutto in un contesto di corruzione e in presenza di una componente “modernista” (che si riconosce nel clan Bhutto, ampiamente corrotto) estremamente ridotta. Caduto Musharraf, per le sue stesse contraddizioni, eliminata l’ex premier Benazir Bhutto da un complotto che vide alleati talebani e parte dell’Isi, il Pakistan è ora sull’orlo del baratro. Ma non desta stupore che i vertici militari continuino a “premiare” i talebani regalando a loro e alla loro sharia aree crescenti del paese. Resta soltanto lo sconcerto di un approccio occidentale – innanzitutto americano – a questo groviglio, dominato da una logica geopolitica inerziale. L’appoggio al Pakistan (dotato di bomba atomica) era considerato obbligato dagli Stati Uniti sino al 1989 a fronte di un colosso come l’India, alleata con l’Unione sovietica. Finita la Guerra fredda, iniziata quella al terrorismo, l’allora presidente americano George W. Bush ha ottenuto il clamoroso successo – forse il suo più grande – di stringere una ferrea alleanza con Nuova Delhi, ma i capi della sua diplomazia al Dipartimento di stato, prima Colin Powell e poi Condoleezza Rice allo stesso modo, non hanno abbandonato le linee direttrici di un’astratta geopolitica datata che li portava a considerare il Pakistan atomico (adesso in funzione antiraniana) come alleato obbligato, rifiutando sempre ogni forma di ingerenza o attuandola troppo tardi – come quando tentarono di imporre a un Musharraf ormai traballante quella alleanza con Benazir Bhutto che avrebbero dovuto imporre sin dal 2001. Soltanto ora gli Stati Uniti comprendono di dovere troncare il nodo gordiano dell’alleanza dell’Isi e dei generali pachistani con i talebani. Ma hanno perso otto anni e probabilmente ora è troppo tardi.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Gli ultimi sei mesi del Pakistan "
Ache punto ci dovremo preoccupare per la marcia fluida dei talebani dentro il Pakistan? Oggi sono a soli centodieci chilometri dalla capitale Islamabad: la distanza della strada a scorrimento veloce Roma-L’Aquila. La loro espansione procede a pause e scatti nervosi, distretto per distretto, provincia dopo provincia, ma non incontra resistenza, non è nemmeno rallentata. Anche gli osservatori indiani, dalla vicina frontiera, cominciano a preoccuparsi: che intenzioni hanno questi? Si stanno dirigendo a sud, verso i centri del potere, la capitale Islamabad e la capitale militare, la città-guarnigione Rawalpindi? O eviteranno i settori di maggiore resistenza e devieranno a est, verso noi, verso l’India, per portare la guerra agli odiati politeisti hindu? L’esercito pachistano ha montato tre “grandi offensive” consecutive per spazzarli via – anche per compiacere le pressanti richieste di Washington – ma è stato sconfitto tutte e tre le volte, l’ultima a febbraio, e ora appare pericolosamente rassegnato. Dieci giorni fa i talebani hanno obbligato prima i soldati e poi il governo centrale a un accordo umiliante che cede loro il controllo sulla bellissima valle dello Swat. Fino a un anno fa era la destinazione preferita dalle coppie moderne della capitale in luna di miele. “Stando qui capisco perché scrivete tante poesie”, disse negli anni Venti il giovane Winston Churchill, ufficiale dell’esercito britannico in visita. Oggi chissà che cosa capirebbe. Islamabad tenta di minimizzare. E’ vero, i guerriglieri pashtun sono usciti dalle aree tribali della frontiera nordorientale, stanno ingoiando bocconi progressivamente più grossi del paese e sciamano verso il centro, ma la spartizione del potere è ancora possibile, si tratta di compromessi amministrativo- religiosi locali che, anzi, fanno tornare subito la situazione alla normalità . Tre giorni fa il primo ministro Yousuf Raza Gilani, chiuso dentro il suo palazzo blindato nel centro di Islamabad, ha detto proprio questo: “La situazione nello Swat è già tornata alla normalità”. Come a un segnale, il portavoce dei talebani Muslim Khan ha replicato con un invito raggelante diretto ad al Qaida, perché prenda casa nella zona appena sottomessa: “Osama bin Laden può venire da noi, e sarà trattato come un fratello. Lo aiuteremo e lo proteggeremo”. Resta da capire anche che cosa stanno per fare i militari, ora che le prime basi dell’aeronautica dov’è conservato l’arsenale atomico – Kohat, Peshawar, Risalpur – sono progressivamente circondate dal fronte mobile dei talebani. Le bombe per cautela sono disassemblate, “screwdriver level”, “a livello cacciavite”. Poco rassicurante, e gli americani hanno scritto un piano d’intervento eccezionale per metterle al sicuro con l’uso della forza. E gli elementi moderati, “light”, riveriti, su cui già in Iraq si è fatto leva per battere le fazioni guerrigliere più “hardline”? Il mullah che ha appena finito di mediare a Swat per conto dei talebani l’accordo di pace con il governo ha fatto sentire la propria voce: ora il governo è “illegittimo” e la legge islamica deve essere imposta su tutta la nazione. Nella regione i guerriglieri stabiliscono posti di blocco, occupano gli ospedali e le sedi del governo, hanno costretto i giudici locali a una “vacanza a tempo indeterminato”, pregano in pubblico nelle moschee e reclutano i giovani per spedirli a combattere in Afghanistan. In tre giorni di “normalità” hanno anche fatto sparire quattro agenti di polizia, sei soldati e quattro civili. Khamran Shafi è un giornalista locale di Dawn che descrive così, incredulo, l’avanzata indisturbata dei talebani mentre gli passano accanto in carovane motorizzate sulle autostrade: “Sabato 11 marzo un convoglio di dieci pick-up su quattro ruote con cabina doppia, carico di talebani equipaggiati di ogni arma portatile possibile – kalashnikov, lanciarazzi, mitragliatrici pesanti – ha viaggiato da Daggar al palazzo del governo del distretto di Buner … Il convoglio è entrato nel distretto di Swabi all’altezza del villaggio di Jhanda, ha attraversato il centro del distretto (la città di Swabi), è passato sull’autostrada, è uscito a Mardan, ha attraversato i campi di Mardan e, mettendo in mostra le armi perché tutti le potessero vedere, ha proseguito per Malakand”, seconda città della regione dopo Peshawar. Shafi va avanti: “Così facendo i talebani hanno infranto molte leggi dello stato pachistano, non ultime quelle che proibiscono il possesso delle armi pesanti, il mostrare armi in pubblico e così via. Hanno attraversato il quartier generale di un distretto che non hanno ancora occupato (ma che occuperanno, più prima che poi, dato il non governo del territorio e il non presidio della frontiera da parte dell’esercito nazionale); su un’autostrada pattugliata dalla polizia federale; attraverso un accampamento militare – proprio dietro il centro commerciale Punjab Regimental Centre, al cui interno c’è la solita panetteria-pasticceria gestita dai soldati in servizio – e di là attraverso il resto dell’affollata città di Mardan, sede anche del ministro in capo della provincia.” Il dettaglio impagabile è quello della panetteria gestita dai soldati. In Pakistan l’esercito è profondamente inserito e controlla molte attività commerciali, compresi i negozi di alimentari – “Tutti i paesi hanno un esercito, da noi un esercito ha un paese”, dice la battuta amara dei pachistani – ma non riesce a fermare la guerriglia. David Kilcullen dice: “Il Pakistan rischia il collasso nei prossimi sei mesi”. Kilcullen è il giovane e geniale ufficiale dell’esercito australiano che il generale americano David Petraeus chiamò nel 2007 a Baghdad, per avere il migliore consulente di counterinsurgency a portata di mano. Faccia rosea e pienotta, appassionato di antropologia, ma con esperienza di combattimento (e cicatrici) contro la guerriglia indonesiana. Contrario alla guerra in Iraq, “perché venendo qui voi americani avete fatto proprio un bel favore ad al Qaida”, ma assoldato lo stesso per vincerla. Kilcullen è un outsider naturale, ma è ascoltato con attenzione dagli ambienti militari americani anche se – o forse proprio perché – dice ad alta voce le cose che quelli non vorrebbero sentire. E ora dice che il Pakistan è a rischio “collasso entro sei mesi”. Ieri il segretario di stato americano, Hillary Clinton, ha fatto una dichiarazione (poco) meno a effetto, ma sulla stessa linea: “I think that the Pakistani government is basically abdicating to the Taliban and to the extremists”. Penso che il governo pachistano stia sostanzialmente abdicando a favore di talebani ed estremisti. Dicono alcuni: il Pakistan non sta collassando perché è già collassato da tempo e ora tira avanti barcamenandosi con le emergenze giornaliere senza potersi opporre con reale efficacia. Dicono altri: il Pakistan non è al collasso, c’è soltanto un effetto distorsivo dei media. Proprio come succede nel vicino Afghanistan, che non è una nazione intera in guerra e dove in fondo l’80 per cento degli attacchi dei talebani si concentra soltanto sul disgraziatissimo dieci per cento della popolazione. Il Pakistan non è così vicino al collasso soprattutto perché dall’esterno non glielo permetteranno. Venerdì scorso a Tokyo una conferenza internazionale di paesi donatori – c’erano anche Cina, Iran e Stati Uniti – ha garantito l’arrivo in fretta di 5,5 miliardi di dollari. L’Amministrazione americana già dal 2001 mette cento milioni di dollari ogni mese nelle casse di Islamabad, per reggerla in piedi nelle fatiche della guerra al terrore. Ma lo stesso, nonostante gli aiuti, i jet da combattimento e i dollari, si vedono nel paese enormi crepe che si allargano e promettono guai. Oltre a quella dell’espansione da nord-ovest, le prossime e più evidenti sono quattro. L’immenso porto di Karachi, nel sud del paese, fino a oggi creduto al sicuro dalla violenza talebana, sta per diventare il prossimo epicentro degli scontri. La metropoli da quindici milioni di abitanti è popolata da una enclave agguerrita di pashtun, gli stessi clan etnici del nord che fanno la guerra in Afghanistan contro gli americani e la Nato e in Pakistan contro l’esercito governativo. I talebani, dice un rapporto del commissario capo della città, sono in modalità “dormiente”: hanno occupato case, negozi, interi quartieri e tutta la periferia della città, ma stanno buoni, perché Karachi è troppo importante per loro come snodo dei traffici. Lo è anche per la Nato: il 75 per cento dei rifornimenti passa in entrata dall’imboccatura del porto, dove gli americani hanno installato senza farsi troppo vedere due enormi rivelatori di materiale radioattivo, per scoprire se qualcosa è invece in uscita. I talebani non vogliono ancora scatenare la violenza. Ma due settimane fa un Predator americano ha colpito con i suoi missili un convoglio del comandante dei talebani pachistani, Baitullah Mehsud, dalla parte opposta del paese, lassù nel Waziristan, senza però riuscire a ucciderlo. Ora Mehsud avrebbe deciso di rompere per rappresaglia la tregua non scritta di Karachi. La provincia più importante e popolosa delle quattro che formano il Pachistan è il centrale Punjab, relativamente immune all’estremismo rozzo delle aree tribali. Ora però i terroristi punjabi, più colti, più difficili da scoprire e tecnologicamente più avanzati dei pashtun, si sono uniti alla guerra. Sono i terroristi agili con zainetti e scarpe da tennis che hanno attaccato l’Accademia di polizia di Lahore, e prima hanno teso un’imboscata alla Nazionale di cricket del Bangladesh. La loro specialità è la guerriglia urbana in stile Mumbai, e sono in cima alle preoccupazioni dei soldati e del governo. E anche della Nato, che sente il loro accento nelle intercettazioni radio sopra l’Afghanistan. Quetta, capoluogo del Baluchistan a ovest, è una zona dichiarata “off limits” dal governo, dove giornalisti e curiosi non possono andare. Secondo gli ufficiali della Nato e secondo il governo afghano Quetta ospita i comandanti dei talebani afghani, che fanno comodamente la guerra al sicuro dietro il confine. Il presidente Hamid Karzai si è spinto fino a dare la posizione Gps, l’indirizzo e i numeri di telefono del Mullah Omar, il comandante supremo dei talebani. Islamabad fa finta di non sentire, la Cia morde il freno e secondo il New York Times ha proposto all’Amministrazione Obama di bombardare. Infine, l’ultima linea di frattura da tenere d’occhio è la politica pachistana. Il presidente Asif Ali Zardari, che avrebbe dovuto assicurare al paese il recupero democratico dopo gli otto anni di potere del generale Musharraf, sta facendo rimpiangere il suo predecessore. Dopo che i terroristi hanno sbriciolato con un camion-bomba la facciata dell’Hotel Marriott di Islamabad durante un ricevimento a cui lui non ha presenziato soltanto per caso, il presidente ha trasformato la zona governativa della capitale in una Zona verde fortificata sul modello iracheno – non ha tutti i torti. Non esce nemmeno più per festeggiare le celebrazioni religiose, come almeno faceva Musharraf e passa il tempo, secondo indiscrezioni, a insultare il suo staff. Il suo rivale, Nawaz Sharif, è molto più forte e minaccia entro l’estate di prendergli il posto. La differenza tra Zardari e Sharif è che il secondo, fortemente sponsorizzato dai sauditi, vuole sfilarsi dalla guerra contro i talebani – forse prima che bussino alla porta del palazzo – e troncare bruscamente “qualsiasi ingerenza americana nel paese”.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Washington rischia di ritrovarsi come alleato uno Stato fallito "
Il Pakistan sta diventando uno Stato fallito». Robert Kaplan, stratega militare del «Center for New American Security» di Washington e autore di «Imperial Grunts» è uno dei maggiori conoscitori della regione afghano-pakistana, dove si reca spesso in visita alle truppe americane che vi operano, e vede nella cattura della provincia di Buner da parte dei taleban i sintomi della possibile caduta del governo di Ali Zardari che sta dando ripetuti segnali di estrema debolezza. Perché i taleban sono riusciti a prendere il distretto di Buner? «Il motivo è un combinato fra la debolezza delle forze governative e gli errori che sono stati commessi dal presidente Ali Zardari». Quali errori? «Siglare accordi di tregua con i taleban consentendogli di prendere il controllo della provincia di Swat ha permesso loro di usare il territorio come una base per prendere il Buner. Fare passi indietro di fronte ai taleban significa consentirgli di rafforzarsi. Il governo precedente fece lo stesso errore patteggiando la tregua con i gruppi taleban in Waziristan. Il risultato è stato, allora come adesso, premiare le ambizioni dei taleban». Che disegno strategico hanno i taleban pakistani? «Conquistare, passo dopo passo, il controllo di diverse aree di territorio per creare uno Stato islamico dentro i confini pakistani e dimostrare che il governo non è sovrano, non rappresenta la nazione». Lanceranno un attacco contro la capitale? «Il Buner non è molto lontano da Islamabad ma i taleban non hanno la forza militare per condurre una simile operazione. Non cercheranno un assalto che non possono vincere, continueranno a rosicchiare terreno al governo grazie al fatto che le loro cellule, aggressive e ben armate, sono più efficaci delle truppe, poco motivate». Che cosa accomuna i taleban pakistani? «L’ideologia. Vogliono creare uno Stato islamico». C’è una regia comune con i taleban afghani? «Non siamo in grado di dirlo ma c’è un’alleanza sul territorio dovuta al fatto che le regioni di operazioni confinano, oltre alla condivisione del progetto di Stato islamico». Washington può impedire lo sgretolamento del Pakistan? «L’amministrazione Obama, al pari della precedente guidata da Bush, ha chiesto a Islamabad di non fare accordi con i taleban ma in entrambi i casi il governo pakistano non ha ascoltato. Fare intese con la guerriglia concedendole spazi di territorio è la strategia che in Colombia portò alla fine degli anni Novanta il presidente Andres Pastrana a cedere alla guerriglia delle Farc con il risultato di indebolire lo Stato». Perché Zardari ripete l’errore compiuto da Pastrana? «Per il motivo che è un leader debole. La popolarità del presidente è all’8 per cento mentre il leader dell’opposizione Sharif è all’85. Zardari è prigioniero della sua debolezza». Sarà l’esercito guidato dal generale Pervez Kayani a prendere l’iniziativa sul terreno? «Credo di sì». Ci sarà un golpe? «Lo scenario è di un colpo di Stato non violento, morbido. Se è vero che l’esercito è parte integrante della debolezza dello Stato resta l’unico a poter evitare la disgregazione del Pakistan». Molti si chiedono dove sia finito A. Q. Kahn, il padre della bomba pakistana da qualche tempo non più agli arresti domiciliari. Lei che idea si è fatto? «È scomparso nel nulla. E la cosa non promette bene visto che fu lui a creare il network clandestino di armamenti nucleari del quale si sono giovati Paesi come Iran e Corea del Nord». In Iraq le truppe della coalizione hanno catturato Al Baghdadi, il locale leader di Al Qaeda. Quale saranno le conseguenze? «La coalizione gli stava dando la caccia perché negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una ripresa degli attacchi suicidi da parte dei gruppi legati ad Al Qaeda a Baghdad e in tutto il paese. Saranno le prossime settimane a dirci se la cattura avrà effetto».
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