La casa di vetro, Simon Mawer
Traduzione di Massimo Ortelio
Neri Pozza Euro 18
Un rettangolo sottile e bislungo, dove la luce è solida come le pareti di vetro e queste trasparenti come l’aria. Lo scrittore britannico Simon Mawer ha preso questa casa eccezionale, un capolavoro dell’architettura di Mies van der Rohe, costruito a Brno alla fine degli anni Venti, e le ha fabbricato intorno un passato immaginario attraverso sessant’anni di storia cecoslovacca. Viktor e Liesel Landauer, lui figlio di una ricca famiglia ebrea e lei tedesca, vivono nella casa che hanno commissionato al famoso architetto la vita brillante dell’alta borghesia ceca alla vigilia della seconda guerra mondiale. La casa di vetro riflette il loro sogno di un futuro luminoso dove “essere cechi, ebrei o tedeschi non faccia differenza”. Ma come sappiamo così non è, e presto i Landauer dovranno fuggire di fronte all’occupazione nazista. La casa passa di mano in mano. Testimone di ciò che è passato all’interno delle sue pareti, sopravvive agli sconquassi che sconvolgono i protagonisti. Diventa un laboratorio biometrico per uno scienziato nazista che vuol misurare “ciò che delimita l’umano dal subumano”. Poi un rifugio durante i bombardamenti. Liberata dall’Armata rossa, nell’ èra comunista viene usata come centro di riabilitazione per bambini poliomielitici. Gli abitanti l’attraversano come farfalle effimere di una notte estiva. Finito il comunismo diventa un museo, dove i fantasmi del passato possono ritrovarsi.
Vanna Vannuccini
L’Almanacco dei libri – La Repubblica
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Il villaggio del tedesco, Boualem Sansal
Traduzione di Margherita Boot
Einaudi Euro 19,50
I libri non fanno miracoli. Divertono, emozionano, scuotono, turbano, a volte. I miracoli, in fondo, non sono di questo mondo, mentre i libri sì. Allora, forse, la cosa più stupefacente che un libro possa fare, per chi legge e per chi l’ha scritto, è quella di azzerare le distanze: farti sentire dentro la storia e le parole, anche se non è così. Come dice Amos Oz, dentro un romanzo bisogna cercare se stessi, non l’autore, e anche quella parte di sé più scomoda, più difficile da ammettere. Tanto è più stupefacente, questo processo di reciproco avvicinamento fra lettore e scrittore, se si parte da una grande, apparentemente incolmabile distanza. Rachid Helmut Schiller ( da cui “ saltato fuori Rachel”) e suo fratello minore Malek Ulrich (da cui “è saltato fuori Malrich”) Schiller sono nati in un paesino sperduto dell’Algeria. Figli di un padre biondo e tedesco e di una madre bellissima, del posto: una commistione improbabile, a incominciare da quei loro soprannomi. In giovane età vengono portati via dal villaggio di Ain Deb, crescono in Francia affidati a degli zii. Rachel è una persona a posto, integrato fino al midollo: ha studiato, si è sposato con una ragazza francese, ha un buon lavoro. E’, insomma, “naturalizzato”. Malrich è più problematico, il suo mondo e soprattutto il suo linguaggio sono quelli della degradata banlieu. Il villaggio del tedesco, nuovo romanzo di Boualem Sansal, scrittore algerino di fama, si snoda attraverso le voci dei due fratelli. Nel 1994 giunge al maggiore la notizia che i genitori sono stati assassinati dagli integralisti islamici, al paese. Per prima cosa Rachel scopre che i suoi genitori sono, anagraficamente, delle specie di fantasmi. Di qui inizia la ricerca che porterà il giovane al suicidio: scoprirà che il padre è stato un ufficiale delle SS, e da ingegnere chimico si è occupato – attivamente – delle camere a gas in vari campi di sterminio. Rachel si lascia alle spalle il suo mondo, quello in cui si era “naturalizzato”, e avvia un cammino a ritroso sulle orme, vaghe, oscure, sempre più spaventose, di quel padre che non ha mai conosciuto. Va in Germania, Polonia, lo segue mentre cerca di scappare verso la fine della guerra, lo bracca a Istanbul e al Cairo, torna a casa in Francia e si dà la morte per gas. Ora tocca al piccolo, scapestrato Malrich tendere i fili della storia, cominciare a comprendere, arrabbiarsi, soffrire. Ma, di fronte alla tragedia del fratello che si dà la morte come gesto di giustizia ma anche e soprattutto di disperato amore per il padre, Malrich è rassegnato a non capire. Rachel è tormentato, invece, da quella abissale distanza: “I figli non sanno…Gelidi silenzi e ombre senza nome. La mia casa è crollata e il dolore mi opprime; e non so perché. Mio padre non mi ha detto niente”, glossa così “Se questo è un uomo” di Primo Levi. L’ultimo tratto della sua vita è un concitato percorso di conoscenza: legge, viaggia, si documenta. Eppure sa di non essere arrivato più vicino a quel passato di un solo “milionesimo di millimetro”. Questa sua consapevolezza di figlio di carnefice è tremendamente vicina a chi è nato accanto ai sopravvissuti, insieme alle loro assenze. Entrambi i fratelli, però – uno già morto, l’altro vivo e così trasformato – comprendono che la storia non è mai chiusa, che siccome è accaduto, è persino più probabile (altro che impossibile!) che accada di nuovo. Il fondamentalismo – quello che ha ucciso i loro genitori e che domina nel quartiere dove vive Malrich – non ha fattezze troppo diverse dal passato. Sansal ha scritto un romanzo sconcertante. Nella sua forza, nella sua disperata, impietosa bellezza. Bisogna essere pronti a leggerlo, e buttarcisi dentro.
Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa
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Mentre in Italia esce il nuovo romanzo di Irène Némirovsky, I doni della vita (Adelphi), la figlia, Denise Epstein racconta la storia rocambolesca di un libro divenuto un caso letterario. Dopo essere rimasto mezzo secolo in soffitta. Pubblichiamo l’intervista di Brunella Schisa a Denise Epstein intitolata “Così, in una valigia, ho custodito il capolavoro di mia madre” apparsa sul settimanale Il venerdì di Repubblica. Parigi. La casa editrice Denoël, dove è fissato l’incontro con Denise Epstein, è in rue du Cherche Midi, a trecento metri dall’Hotel Lutétia, dove alla fine della guerra venivano accolti gli ebrei ritornati dai campi di sterminio e dove la quindicenne Denise trascorse intere giornate in attesa di notizie sui genitori deportati ad Auschwitz nel ’42. Denise e la sorellina Elisabeth compulsavano speranzose le liste dei fortunati che tornavano a casa, ignorando che i loro genitori erano entrambi morti. Il destino a volte fa strani scherzi. La Denoël sarebbe diventata la casa editrice di Suite francese, il capolavoro di Irène Némirovsky riportato in vita dopo oltre quarant’anni di oblio. “Per decenni ho girato la testa per non guardare quell’albergo, incapace di dimenticare. Adesso ho smesso e mi dico: alla fine abbiamo vinto noi e mia madre è tornata”. Il successo mondiale di Suite francese, potente affresco sull’occupazione nazista in Francia scritto in presa diretta nel ’42 ha convinto molti editori, tra cui Adelphi, a pubblicare tutta l’opera della scrittrice ebrea nata a Kiev nel 1903. Ed è appena arrivato in libreria I doni della vita, il romanzo che, pur essendo ambientato durante la prima guerra mondiale, anticipa i temi di Suite francese. “E’ piuttosto un’introduzione al suo capolavoro. Forse mamma lo ha scritto contemporaneamente”. Denise Epstein assomiglia a Irène Némirovsky: piccola di statura, sguardo ironico e naso pronunciato al punto che la governante la costringeva a nasconderlo con un foulard mentre nell’autunno del ’42, insieme con la sorellina, fuggiva dai nazisti che avevano già deportato i genitori. Da cinque anni è la custode della memoria della madre. Da quando ha deciso di divulgare il contenuto della valigia che suo padre le affidò nel momento in cui i tedeschi lo vennero a prendere. “Mi disse: qui dentro ci sono i quaderni di tua madre. Devi proteggerli”. E lei si è trascinata quella valigia nella fuga e per decenni l’ha custodita senza sapere cosa contenesse? “No, l’avevo aperta diverse volte, ma il quaderno di Suite francese non lo avevo mai letto. Pensavo fosse un diario intimo e non mi sembrava educato metterci il naso”. Poi cambiò idea. “Agli inizi degli anni Novanta con mia sorella decidemmo di dare i documenti all’Institut mèmoires de l’èdition contemporaine, e pensai che non potevo lasciare andare i quaderni ignorando il contenuto”. Così scoprì Suite francese e decise di trascriverlo. “Mia madre aveva una scrittura minuta e impossibile, è stato un lavoraccio. Con una grande lente di ingrandimento ho battuto a macchina Temporale di giugno. E la seconda parte, Dolce? “Nel quaderno c’erano diverse pagine bianche e non mi ero accorta che ci fosse una seconda parte. Io amavo quel quaderno e spesso lo aprivo per carezzarlo, così ho scoperto l’esistenza di Dolce e l’ho trascritto. Poi, quando ho finito, ho rimesso tutto nel cassetto”. Ma come, nel cassetto? “Ma sì. Si trattava di un’opera incompiuta. Nelle sue lettere mamma diceva di voler scrivere una sorta di Guerra e pace in dieci parti, e quelle erano solo due. Ma, nel 2004, l’editore Denoël mi ha convinto. Mi spiace che mia sorella Elisabeth sia morta prima del successo di Suite francese. E’ vissuta nel rimpianto di non ricordare quasi nulla dei nostri genitori, perché aveva cinque anni quando li deportarono ad Auschwitz”. Lei invece ha conservato intatti i suoi ricordi. “Avevo tredici anni e ricordo tutto. Per questo la trascrizione è stata un lavoro durissimo, un coacervo di emozioni e dolore. Quel quaderno lo avevo sempre visto nelle mani di mia madre, non se ne separava mai”. Si è molto parlato di quel quaderno e delle annotazioni a margine. “Era un grande quaderno in marocchino, pesava almeno tre o quattro chili. Le pagine erano tenute da un’anima di ferro centrale. La prima parte di Suite francese era molto lavorata, evidentemente mia madre pensava di avere tempo a disposizione, la seconda, invece, è scritta di getto. Ho accettato che il libro venisse pubblicato a condizione che non fosse fatto editing, e così è stato, l’unico intervento editoriale è consistito nel togliere i puntini di sospensione che mia madre adorava. E ne abusava”. I doni della vita è in qualche modo un’anticipazione di Suite francese. “Tratta gli stessi temi, lo stesso milieu, la borghesia francese che lei criticava e invidiava, perché mangiava a ore regolari e rispettava le tradizioni. Scriveva solo di cose e persone che conosceva. Non inventava nulla, credo che in fondo fosse sprovvista di immaginazione”. Qual è il ricordo più dolce? “Ne ho tanti. Era una madre dolcissima. Ci leggeva delle storie, recitava poesie, mi portava al cinema. Era una madre a tempo pieno”. Forse avere avuto una madre tremenda e anaffettiva l’ha resa così attenta a voi figlie. “Sì, mia nonna pensava solo alla sua bellezza e si rifiutava di accettare che mia madre crescesse. Per non sentirsi vecchia. Quando siamo tornate a Parigi, la nostra governante si è presentata a casa sua e lei non ci ha neppure aperto la porta, urlando che non aveva nipoti. Ma quando è morta, nella sua cassaforte è stato trovato Jezabel, in cui mia madre fa di lei un ritratto impietoso”. Sua madre aveva previsto la tragedia, tanto che aveva fatto testamento. Perché, avendo i mezzi per andarsene, è rimasta ad aspettare la catastrofe? “Me lo sono chiesta tante volte e non riesco a perdonarla. Gli ultimi anni li abbiamo vissuti nell’angoscia, le si erano imbiancati i capelli. Sì, sapeva tutto. Aveva lasciato alla nostra governante la dieta per Elisabeth convalescente dalla scarlattina e in una lettera all’editore Albin Michel parlò dei suoi libri postumi. Perché? Mi sono data diverse risposte. La prima è che aveva cambiato tante case, tanti domicili, era scappata dalla rivoluzione russa, aveva vissuto l’esilio, e tutto questo la scoraggiava. La seconda è che fosse troppo presa dalla scrittura, dalla passione di quanto stava facendo. Soprattutto, non immaginava che i nazisti se la sarebbero presa con i bambini. Ma deve averlo capito quando è arrivata ad Auschwitz e non riesco a pensare cosa le possa essere passato per la testa”. Perché non ha mai scritto la storia sua e di sua sorella? “Ci sono migliaia di ragazzi sopravvissuti e il mio caso non è più drammatico perché mia madre era Irène Némirovsky. Anche se i suoi libri l’hanno resa eterna”