Ancora l'Iran in primo piano. Dalla condanna a otto anni di carcere per la giornalista americana Roxana Saberi alla prossima impiccagione della pittrice Delara Darabi, di 23 anni. Riportiamo dal CORRIERE della SERA la cronaca di Viviana Mazza, e la notizia rivelata dal Times che Israele sarebbe pronto a bombardare i siti atomici, non si sa quanto verificata sia l'indiscrezione. Dalla STAMPA l'analisi di Vittorio Emanuele Parsi sui risultati a rischio della politica americana verso l'Iran, e l'intervista di Francesca Paci a Azar Nafisi, le celebre autrice di " Leggere Lolita a Teheran ".
Corriere della Sera-Francesco Battistini: " Netanyahu pronto a bombardare l'Iran "
GERUSALEMME — La data si sa: una mattina della prima settimana di giugno. Alle 11 in punto, le sirene strilleranno dalla Galilea al Negev.
Tv, radio, Web avvertiranno di nascondersi nel rifugio più vicino. Scuole e uffici si svuoteranno. Il premier Bibi Netanyahu riunirà il governo in una località segreta. Quella mattina, verrà simulato un attacco missilistico dall’Iran. «La più grande esercitazione nella storia d’Israele», spiegava l’altro giorno il generale Yair Golan. Il segno che qualcosa prima o poi ci si aspetta. Più prima che poi, a leggere il Times. Che ieri mattina ha citato un anonimo funzionario della Difesa, secondo il quale Tsahal sarebbe pronto a lanciare anche a breve un attacco ai siti nucleari di Teheran. L’ufficiale per la verità si limita a dire che «stiamo effettuando preparativi a tutti i livelli per quest’eventualità» e alla fine formula quasi un’ovvietà: «Israele vuole contare sul fatto che, se alle sue forze armate fosse dato il via libera, potrebbe colpire l’Iran nel giro di giorni, perfino di ore».
Giorni. Ore. Con la stessa domanda sempre lì: Netanyahu, che ritiene gli ayatollah «il più grande pericolo per l’umanità», è pronto a dare quel via libera? I segnali sono contraddittori: per un ministro Sylvan Shalom che non «tollera un Iran dotato della Bomba», c’è un Shimon Peres che esclude «soluzioni militari » (anche se il capo dello Stato aveva detto la stessa cosa pochi giorni prima delle bombe su Gaza). Il Times sostiene che l’attacco è studiato nei dettagli: F-15 e F-16, assistiti da aerei radar Awac, aerei cisterna ed elicotteri, pronti a volare fino a 1.400 km, per colpire le centrifughe d’uranio arricchito a Natanz, le 250 tonnellate di gas stipate sotto Isfahan, il reattore ad acqua pesante che produce plutonio ad Arak. Non è chiaro quale vicino concederebbe lo spazio aereo: perfino Bush ha sempre negato agl’israeliani il cielo dell’Iraq. Anche se il blitz antiraniano nel deserto del Sudan, durante Gaza, dimostra che i sorvoli proibiti non sono impossibili.
Fantaguerra o no, la rivelazione sull’attacco esce nel giorno della festa delle forze armate a Teheran. Con una parata sottotono, rispetto al solito. E secondo un altro giornale, il Financial Times, dovuta al «dialogo sensato» promesso da Hillary Clinton e al piano mediorientale che la Casa Bianca starebbe per presentare. I toni Usa-Israele sono ancora freddini. Obama, interrompendo una lunga tradizione d’accoglienza al primo squillo di telefono, avrebbe fatto sapere a Netanyahu d’«essere fuori città » in maggio, mese che il premier aveva programmato per un viaggio a Washington. Forse questa, più di altre, è la spia che Israele nel dossier iraniano si sta giocando il Grande Amico. A giugno, con le simulazioni, si cominceranno a distribuire anche 5 milioni di maschere a gas: «Con Saddam abbiamo imparato a scartarle — scrive il giornale Yedioth Ahronot —, con Ahmadinejad
impareremo a usarle».
Corriere della Sera-Viviana Mazza: " Teheran, otto anni alla giornalista arrestata"
Prevista domani l’esecuzione della pittrice Delara. Lettera dei genitori ai parenti della vittima: «Perdonatela»
Da due mesi e 19 giorni Roxana Saberi, giornalista americana- iraniana di 31 anni, è nella prigione di Evin a Teheran, un carcere dove vengono spesso rinchiusi i prigionieri politici, lo stesso in cui nel 2003 morì di emorragia celebrale la fotoreporter canadese Zahra Kazemi e lo scorso mese, in circostanze misteriose, il blogger iraniano Omidreza Mirsayafi. Ieri Teheran ha reso noto che Roxana è stata condannata a restare a Evin per 8 anni.
In un processo a porte chiuse, lunedì, una Corte rivoluzionaria (che giudica le questioni di sicurezza nazionale) ha dichiarato la giornalista colpevole di spionaggio. Avrebbe usato la sua professione come copertura per trasmettere informazioni all’intelligence Usa.
L’avvocato Abdolsamad Khorramshahi farà ricorso. In attesa del giudizio d’appello, le è stata negata la libertà su cauzione. E’ la prima volta che una giornalista americana viene condannata per spionaggio in Iran. Il presidente Usa Barack Obama e il segretario di Stato Hillary Clinton si sono detti «profondamente delusi». Dalla sua elezione, Obama ha dichiarato di voler scongelare i rapporti con Teheran, sospesi dopo la Rivoluzione Islamica nel 1979 e peggiorati per via delle ambizioni nucleari iraniane. Il caso di Saberi complica le cose. Roxana ha due passaporti, americano e iraniano. La mamma Akiko, giapponese, e il papà Reza, iraniano, vivono a Fargo, in North Dakota, dov’è cresciuta, diventando reginetta di bellezza nel 1998 e poi reporter tv, sognando di fare la corrispondente dall’estero. Nel 2002 l’agenzia «Feature Story News» che confeziona «storie » per le tv Usa l’ha scoperta e inviata in Iran. Tv, radio, online: sapeva fare tutto. E parlava il farsi. La Bbc inglese, la tv Fox e la radio Npr negli Usa l’hanno mandata in onda. Ma nel 2006 il ministero della «Cultura e della Guida Islamica» non le ha rinnovato l’accredito stampa. E’ rimasta a Teheran. Scriveva un libro. Mandava ancora servizi a Npr (secondo la radio, col permesso alle autorità). Dal 31 gennaio non sono arrivate più telefonate né email a Fargo. Il 10 febbraio, una chiamata di 3-4 minuti da un luogo ignoto: «Mi hanno arrestata perché ho comprato una bottiglia di vino». Lo disse «con voce strana» al papà, raccomandò di non parlare alla stampa, perché sarebbe uscita presto. A marzo il ministero degli Esteri iraniano l’ha accusata di aver lavorato come giornalista senza autorizzazione. Reza e Akiko sono volati a Teheran, l’hanno vista una volta per 30 minuti, nel solo giorno della settimana concesso ai parenti: non era più in isolamento, stava abbastanza bene. L’8 aprile le autorità hanno cambiato versione: «Dicendo d’essere una reporter, conduceva attività di spionaggio». Il viceprocuratore della Corte ha detto che la ragazza si è dichiarata colpevole, il padre che l’hanno convinta a confessare in cambio della libertà, ignorando le successive dichiarazioni di innocenza.
La condanna arriva in un momento delicatissimo. Alcuni esperti la leggono come un tentativo degli ultraconservatori in Iran di sabotare il dialogo con gli Usa: l’avversario del presidente Mahmoud Ahmadinejad alle elezioni di giugno, Mir Hossein Mousavi, vuole un avvicinamento. Altri osservano che Ahmadinejad si è recentemente mostrato più disponibile al dialogo. Negli ultimi anni ricercatori universitari con doppia nazionalità come Roxana sono stati incarcerati per mesi con l’accusa di spionaggio, ma poi liberati senza processo.
Domani rischia di finire sul patibolo un’altra ragazza iraniana, la pittrice Delara Darabi, 23 anni, rinchiusa da 6 anni in un carcere di Rasht, nel nord del Paese. Delara è stata condannata a morte per l’omicidio di una cugina. Inizialmente si era detta colpevole, ritrattando in seguito. Il suo avvocato, Khorramshahi, lo stesso di Roxana Saberi, dichiara che le prove la scagionano ma i tribunali hanno rifiutato di esaminarle. Esaurite le vie legali, i genitori hanno inviato una lettera aperta a Hayedeh Amir-Eftekhari, una dei 5 figli della vittima, l’unica che finora ha rifiutato di concedere il perdono. Infatti i parenti della vittima possono salvare la vita della condannata. «Nostra figlia... ha fatto un errore», hanno ammesso i genitori della ragazza, ribadendo però la sua innocenza. Una manifestazione di artisti e attivisti è prevista per lei domani a Rasht.
La Stampa-Vittorio Emanuele Parsi: " Fare la corte all'Iran mette a rischio le alleanze nel golfo "
A che gioco sta giocando l’Iran? È solo una coincidenza che le dichiarazioni concilianti del presidente Ahmadinejad circa la disponibilità ad accogliere le offerte di dialogo provenienti da Washington siano contemporanee alla condanna per spionaggio della giornalista americana di origine iraniana Roxana Saberi? In Medio Oriente, prendere qualche ostaggio prima di iniziare una trattativa è una tattica consolidata da secoli, ma l'incredibile condanna a 8 anni di reclusione di Saberi rischia di costituire un ostacolo forse insormontabile per un'amministrazione come quella di Obama, che è sì a caccia di qualche successo concreto, ma non a qualunque costo.
È infatti imbarazzante, dopo tanta retorica benintenzionata nei confronti dei propri avversari e degli ex Stati-canaglia, far finta di niente e continuare su una linea conciliante mentre una cittadina americana viene condannata a una pena tanto severa per un’accusa molto verosimilmente inventata di sana pianta. Il presidente Ahmadinejad ha dato in questi anni ampie prove di un’abilità politica che va ben oltre il venerato concetto politico iraniano della «dissimulazione» estrema delle proprie reali intenzioni. Che sia spregiudicatezza portata al parossismo o che invece si tratti di una schizofrenia imputabile alle consuete lotte intestine al regime degli ayatollah (esacerbate dalle prossime elezioni presidenziali) lo scopriremo presto. Certo è che mentre si avvicina la scadenza dei «cento giorni», la politica estera non ha fin qui dato all'inquilino del 1600 di Pennsylvania Avenue soddisfazioni paragonabili agli sforzi intrapresi e agli azzardi accettati.
«Vivere pericolosamente» non è il titolo di una ballade di Bruce Springsteen (o di Vasco Rossi), ma potrebbe ben essere lo slogan della politica estera obamiana. In particolar modo in Medio Oriente, Obama sta prendendo seri rischi di scontentare amici consolidati (Israele e i sauditi, innanzitutto,) a fronte di pochi segnali positivi concreti dagli Stati che fino a ieri rappresentavano la residua componente mediorientale dell’«asse del male» (la Siria e l'Iran). Certo, la partita sulla proliferazione nucleare e sull'equilibrio regionale che si gioca con l'Iran è importantissima. Il presidente americano sa bene che se gli riuscisse il duplice colpo di ottenere l’apertura di un dialogo effettivo ed efficace con l’Iran sulla questione del controverso programma atomico e di far stemperare i toni del virulento anti-sionismo del regime teocratico, potrebbe imporre una svolta storica alle prospettive di pace in tutta la regione.
A Washington, nel frattempo - e non solo tra i repubblicani o al Congresso, ma probabilmente anche ai vertici del Dipartimento di Stato - in molti si chiedono quanto possa essere affidabile la sponda iraniana, a prescindere da chi la rappresenti. Ma la domanda cruciale è probabilmente diversa, e cioè come giocheranno le proprie carte gli altri attori regionali rilevanti e, tra questi, Israele e Arabia Saudita appunto. Che gli israeliani si fidino piuttosto poco del «nuovo corso» americano era noto ed evidente già durante la campagna elettorale, e le mosse successive del presidente Obama non hanno fatto che accrescere il nervosismo di Gerusalemme. Ma è Riad che teme particolarmente di essere lasciata col cerino in mano dagli americani, e di vedere rapidamente svalutata la carta più importante di quelle tradizionalmente a disposizione dai sauditi nella loro strategia mediorientale: ovvero il fatto che il sostegno americano al ruolo saudita nel Golfo non solo fosse indiscutibile (soprattutto da quando la monarchia meccana si era di fatto sfilata dal fronte anti-israeliano), ma venisse a essere oggettivamente e ulteriormente rafforzato dalla comune avversione all’Iran.
L'unico modo per rassicurare Riad, e saggiare la sincerità dei buoni propositi iraniani, sarebbe quello, tutt’altro che semplice, di coinvolgere l’Arabia Saudita (magari insieme a Egitto e Giordania) come «parte terza» nel lungo, delicato e incerto processo di approccio tra Washington e Teheran (come suggerisce un recente paper pubblicato dalla Rand Corporation), così da farne una prima tappa per la costruzione di un sistema multilaterale di sicurezza collettiva nel Golfo, in grado successivamente di includere l’intero Levante, Israele, Libano, Siria e Palestina compresi.
La Stampa-Francesca Paci: " Donne e blogger hanno più futuro di Ahmadinejad "
Le cose che Azar Nafisi ha taciuto dei suoi 18 anni nell’Iran khomeinista sono elencate nei diari che teneva quando, prima d’emigrare negli Stati Uniti, insegnava all’università Allameh Tabatabai: innamorarsi a Teheran, andare a una festa a Teheran, mangiare il gelato a Teheran, guardare i Fratelli Marx a Teheran. Bisogni privati negati dalla politica come leggere, «Leggere Lolita a Teheran», il libro che l’ha resa celebre in tutto il mondo. «Scrivo per tener vivo il Paese che la dittatura ha congelato», dice sprofondata nella poltrona chester di un caffè di South Kensington, il cuore opulento di Londra. Jeans, pullover azzurro, scarpe basse, ha appena presentato al festival «Free the World!» il suo secondo romanzo edito da Random House, «Things I’ve Been Silent About», le cose che ho taciuto, l’autobiografia cui lavora dal 2003, dalla morte della madre nell’ospedale a lei precluso di Teheran. In Italia sarà pubblicato da Adelphi.
Sono passati cinque anni da «Leggere Lolita a Teheran». Perché ha taciuto tanto a lungo?
«Raccontare la propria vita è difficile. La dittatura rende la sfera personale un tabù, il privato diventa politico. In Iran non potevo parlare della letteratura che amavo o degli amici arrestati e uccisi. Non riuscivo a parlare neppure del rapporto conflittuale con mia madre, verso cui nutrivo amore e risentimento, esattamente come verso il mio Paese. Ho cominciato a scrivere di lei quando è morta e non potevo tornare in patria a dirle addio, e ho scritto dell’Iran quando sono partita per Washington, nel 1997».
Cos’è l'Iran per lei, sua madre, autoritaria e distante al limite dell’anaffettività, o suo padre, affascinante narratore di fiabe capace anche di mentire?
«L’Iran è la somma dei due. Mia madre, nata da una famiglia benestante e moderna di Teheran, emancipata al punto da sposarsi due volte per amore e lavorare in banca rivendicando la propria indipendenza. E mio padre, nato nella conservatrice Isfahan, erede di una dinastia di studiosi religiosi, intellettuali e puritani. Lei voleva plasmarmi a sua immagine anche a costo di leggere di nascosto i miei diari, lui mi raccontava le storie de Il libro dei Re, che oggi insegno a mia figlia, ma mi rendeva anche complice dei suoi tradimenti con altre donne».
Che Paese è oggi quello che ha lasciato? Da un lato il governo Ahmadinejad apre al dialogo con gli Stati Uniti, dall’altro incarcera con l’accusa di spionaggio la giornalista iraniano-americana Roxana Saberi e condanna a morte Delara Darabi che sarà impiccata lunedì per un reato commesso quando aveva 17 anni.
«Non mi fido della politica. Il governo parla di aperture per calmare la gente e uccide nelle galere. L’Iran è una dittatura islamica ma, attenzione, è anche il Paese dove le donne hanno lanciato la «One Million Signatures Campaign», un milione di firme contro la repressione. È il Paese dei blogger, dei giornali democratici che non si scoraggiano se vengono chiusi, del Nobel Shirin Ebadi che, estromessa dalla carriera di giudice, si mette a fare l’avvocato dei diritti umani, della poetessa Simin Behbahani che a 82 anni non ha smesso di scrivere versi sulla libertà della donna e sul potere sovversivo dell’erotismo. Ahmadinejad lo sa: tempo fa ammise che a 30 anni dalla rivoluzione islamica le università continuano a fare resistenza. Credo nella società iraniana, la politica dovrà adeguarsi. L’Iran è diverso da altri Paesi, ad esempio il Venezuela, dove la dittatura è allo zenit. La nostra dittatura si è consumata come una candela. Vent’anni fa il giornalista Akbar Ganji credeva come me nella rivoluzione islamica, oggi è in esilio negli Usa e contesta il regime citando Hannah Arendt, Spinoza».
Secondo una barzelletta raccontata a Gerusalemme, solo Obama può salvare l’Iran dalle bombe israeliane. Ha fiducia nel nuovo presidente americano?
«Ho imparato a dubitare seguendo il proverbio inglese per cui prima di giudicare il pudding bisogna mangiarlo. Obama rappresenta la speranza, al punto che all’indomani della sua elezione una rivista iraniana è uscita titolando “Perché non possiamo avere uno come lui?" ed è stata chiusa. Ma aspetto. È giusto che provi a parlare con il governo, i governi parlano tra loro. Ma l’America del primo presidente afroamericano di nome Hussein deve ascoltare la gente, gli iraniani, quelli che vengono torturati, il popolo che dà legittimità al governo. Ahmadinejad ha vinto perché ha promesso ai poveri quello che non poteva mantenere, ma soprattutto perché non ci sono elezioni democratiche in Iran né osservatori internazionali, vedremo cosa accadrà la prossima volta».
Europei e americani impazziscono per i suoi libri. Cosa si aspetta da loro, politicamente?
«La comunità internazionale può piegare il regime iraniano con le sanzioni economiche, evitando prove di forza tipo raid aerei. Ma deve crederci. Mi sembra che il vero problema dell’Occidente oggi non sia l’economia quanto la mancanza di una visione. In Iran la gente muore per la libertà che i relativisti europei negoziano in cambio di un generico rispetto delle culture altre. I diritti sono universali, come il desiderio di leggere Lolita a Teheran, Roma, New York. Il regalo che il popolo iraniano può fare al mondo occidentale è l’immagine ideale che ne conserva discutendo in segreto di Calvino, Svevo, Hemingway, Nabokov».
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