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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
15.04.2009 Dossier Obama, Ram Emanuel, se ci sei batti un colpo !
analisi di Franco Venturini, Maurizio Molinari, Christian Rocca, redazione del Foglio

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio
Autore: Franco Venturini - Maurizio Molinari - Christian Rocca - La redazione del Foglio
Titolo: «Obama e la mano troppo tesa - Anche la Corea sfida Obama - Bagram è la nuova Guantanamo. Liberal vs Barack - Chi ha incastrato Dennis Ross»

Dossier Obama: riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/04/2009, l'editoriale di Franco Venturini dal titolo " Obama e la mano troppo tesa ", dalla STAMPA, a pag. 5, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Anche la Corea sfida Obama " e dal FOGLIO, a pag. 4, l'articolo di Christian Rocca dal titolo "  Bagram è la nuova Guantanamo. Liberal vs Barack" e, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Chi ha incastrato Dennis Ross ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Obama e la mano troppo tesa "

Barack Obama l’ave­va detto: la mia sarà la politica della ma­no tesa. Bene, per­ché l’approccio ideologico e non dialogante di George Bu­sh aveva creato più problemi di quanti ne avesse risolti. Ma anche la politica della ma­no tesa ha un punto debole: occorre che la controparte l’accetti davvero, che esista­no tra i contraenti traguardi condivisi e flessibilità sul mo­do di raggiungerli. Altrimen­ti, la mano tesa può diventa­re sinonimo di debolezza. Può lasciare spazio a sapienti finzioni e a trappole micidia­li. Obama corre questo tipo di rischi? La risposta è sì, an­che se occorre sperare che si tratti di rischi calcolati.
Cominciamo dall’eccezio­ne che conferma la regola. Obama non aveva teso la ma­no alla Corea del Nord. La cu­pa dittatura di Pyongyang ha allora bussato alla porta del­la Casa Bianca con il lancio di un nuovo missile, e, visto il modesto esito dell’impresa, ieri ha sollecitato l’attenzio­ne del Presidente Usa ria­prendo il contenzioso nuclea­re e dando un calcio al tavolo dei negoziati. Domanda: si sa­rebbero comportati allo stes­so modo, i nordcoreani, se non avessero calcolato che Obama deve difendere la coe­renza della sua politica del sorriso?
L’America di Obama ha fat­to del conflitto afghano la sua priorità. Entro pochi me­si arriveranno sul terreno 21 mila nuovi soldati Usa. Il raf­forzamento dello strumento militare, nella strategia di Obama, è funzionale alla di­struzione di Al Qaeda e in contemporanea alla indivi­duazione di una pragmatica exit strategy. Per facilitare le cose si è pensato di tendere la mano ai talebani «modera­ti » cercando di dividerli da quelli più intransigenti. L’idea non è inedita, il gene­rale Petraeus l’ha collaudata in Iraq con i sunniti, e in Af­ghanistan come altrove è giu­sto parlare con tutti a comin­ciare dai nemici (in modo di­retto o indiretto lo fanno, ap­punto, tutti). Peccato che l’Af­ghanistan non sia l’Iraq, e che i talebani non siano le ve­nali bande sunnite della pro­vincia di Anbar. Peccato che per le forze occidentali la guerra butti male. Peccato che i talebani non abbiano in­centivi al dialogo (semmai l’incentivo sta dalla parte del traffico di oppio). Il piano del bastone e della carota, in­somma, rischia di cadere nel vuoto. E nel frattempo il Paki­stan potrebbe andare in pez­zi.
Obama ha teso la mano, soprattutto, all’Iran. Accenti di disponibilità, coinvolgi­menti diplomatici, segnali non troppo invadenti in vista delle elezioni di giugno (con la speranza non dichiarata che Ahmadinejad le perda), e infine una proposta nego­ziale in bella forma. Teheran ha accettato. Ma nel contem­po ha precisato che i pro­grammi nucleari prosegui­ranno, al pari di quelli balisti­ci. E nulla ha detto delle sue influenze armate in Medio Oriente. Il rischio è ovvio: che l’Iran incassi le conces­sioni promesse ma non dia nulla in cambio. Secondo il
New York Times gli Usa e l’Europa potrebbero trattare con Teheran senza più esige­re la preventiva sospensione dell’arricchimento dell’ura­nio. Sarebbe una scommessa ulteriore. Forse capace di mandare in archivio l’opzio­ne militare, forse vincente malgrado gli scontati e fon­dati timori di Israele, forse in grado di orientare favorevol­mente l’esito elettorale. For­se. Ma se la scommessa inve­ce non funzionasse? Obama rischia di trovarsi alla fine senza più opzioni salvo quel­la militare che voleva seppel­lire.
Ne dobbiamo concludere che Obama sbaglia, quando tende la mano? No di certo. Ma dobbiamo, questo sì, au­gurargli moltissima fortuna, perché ne avrà e ne avremo bisogno.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Anche la Corea sfida Obama "

La Nord Corea che riprende il programma nucleare allontanando gli ispettori delle Nazioni Unite e l’Iran che vanta dei progressi sull’arricchimento dell’uranio sono i due fronti roventi della proliferazione delle armi non convenzionali con cui Barack Obama è chiamato a confrontarsi. Incalzato dalle iniziative forse coordinate di Pyongyang e Teheran, accomunate da un fitto scambio di tecnici balistici e scienziati nucleari, il presidente americano reagisce tendendo la mano agli avversari, facendo perno sulle alleanze, cercando soluzioni multilaterali ed evitando mosse brusche. Proprio come avviene sugli altri scenari di crisi dove si trova a confrontarsi con vecchi e nuovi avversari di Washington: la Siria di Assad che foraggia Hamas e Hezbollah, il Sudan di Bashir sotto accusa per le stragi in Darfur, la Somalia dei pirati, il Venezuela di Chavez che sogna la rivoluzione latinoamericana. Ovunque Obama gioca partite diplomatiche che puntano a inventare soluzioni politiche.

Il voto di lunedì notte, con cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato il test del missile intercontinentale di inizio mese, ha innescato la reazione di Pyongyang, che ha abbandonato i negoziati multilaterali sul disarmo, cacciato gli ispettori dell’Agenzia atomica dell’Onu e annunciato la ripresa del programma nucleare, azzerando di fatto tutti gli accordi siglati con l’Amministrazione Bush. La risposta di Barack Obama è stata quella di mettere più enfasi nel plauso al Consiglio di Sicurezza per il «forte accordo raggiunto» dopo otto giorni di trattative che nella condanna delle «minacce provocatorie» della Nordcorea, confermando la strategia che Susan Rice, ambasciatrice Usa all’Onu, definisce «basata sull’intesa con i partner». Consolidare le alleanze è il metodo con cui Obama affronta Pyongyang.

A pochi giorni dal «Giorno del Nucleare,» nel quale il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha inaugurato a Isfahan la prima centrale di produzione di combustibile atomico, il «New York Times» rivela che Stati Uniti e Unione europea si accingono a far cadere la principale condizione finora posta a Teheran per trattare: la sospensione del programma atomico. E’ un passo destinato a legittimare l’Iran come potenza nucleare. La risposta di Teheran è stata di processare a porte chiuse una giornalista Usa come spia, di annunciare l’imminente lancio di un satellite militare, oltre all’intervista rilasciata da Ahmadinejad allo «Spiegel» nella quale ha definito «sbagliata» la politica di Obama. Ma la Casa Bianca ignora gli schiaffi iraniani e progetta un’apertura in grande stile. Puntando a raggiungere più gli iraniani che Ahmadinejad.

Il presidente sudanese Omar al Bashir è accusato di crimini di guerra nel Darfur dal Tribunale penale internazionale e Obama durante la sua campagna presidenziale ha mantenuto la difesa delle popolazioni del Darfur in cima alla propria agenda internazionale. Ma da quando è stato eletto, il Presidente statunitense ha parlato di Sudan soltanto per lamentare la recente espulsione di alcuni gruppi umanitari. L’assenza di critiche americane ha spinto Al Bashir perfino a lodare apertamente Obama per la sua «apertura all’Islam», sollevando le critiche dei conservatori, secondo i quali l’intenzione di Barack è quella di non irritare la Cina, protettrice di Khartoum. La Casa Bianca ritiene però che quello che conta per l’America è il sostegno al Tribunale penale internazionale, al quale gli Stati Uniti potrebbero anche aderire.

Autorizzando il recente blitz dei Navy Seals che hanno liberato il capitano della nave «Maersk Alabama» Richard Phillips e ucciso i pirati-rapitori, il Presidente Obama ha firmato la dichiarazione di guerra alle gang di bucanieri che infestano il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano, minacciando la navigazione verso il Canale di Suez. I pirati hanno reagito preannunciando sequestri e uccisioni di marinai americani, il Pentagono ha presentato alla Casa Bianca i piani di blitz di terra e la Cia paventa il rischio di un patto pirati-Al Qaeda. Ma Obama parla solo di «azioni da concertare con i partner della regione per sgominare la pirateria», facendo puntualizzare ai portavoce che i bucanieri sono «criminali» e non «terroristi». Come dire, non ha in mente di lanciare blitz militari ma solo di varare operazioni di polizia internazionale.

Il Presidente Bashar Assad è il leader della Siria che ospita e finanzia i leader di Hamas, consente a Hezbollah di armarsi in Libano e mantiene un’alleanza strategica con Teheran. Ma Obama lo corteggia come non sta facendo con nessun altro leader straniero: prima il presidente della commissione Affari Esteri del Senato, John Kerry, poi due inviati di Hillary Clinton si sono recati a Damasco per tentare di convincerlo ad allontanarsi da Teheran avvicinandosi a Washington. Per capire cosa sta avvenendo bisogna ascoltare Martin Indyk, consigliere del presidente sul Medio Oriente, convinto che la pace fra Siria e Israele «sia assai più facile da raggiungere rispetto alla composizione del conflitto israelo-palestinese». Di questo Obama parlerà in maggio alla Casa Bianca con il nuovo premier israeliano Benjamin Nethanyahu.

Il presidente Hugo Chavez in passato ha definito Obama «uno stupido» ma ora sta facendo di tutto per riuscire a incontrarlo durante il «Summit delle Americhe» che si svolgerà alla fine della settimana a Trinidad e Tobago. Finora Obama non ha mai parlato in pubblico di Chavez ma, in privato, ha concordato con il primo ministro spagnolo Juan Luis Zapatero la strategia della quale stiamo vedendo i primi segnali: meno sanzioni economiche a Cuba, per impedire a Chavez di sfruttare l’avversione all’embargo Usa al fine di consolidare la sua leadership regionale. Era stato Moises Naim, direttore di «Foreign Policy», a prevedere la mossa: «Un’apertura di Obama a Cuba taglierebbe l’erba sotto i piedi a Hugo Chavez, la cui forza evocativa in Sudamerica sta nel presentarsi come l’erede di Fidel Castro contro gli yankee».

Il FOGLIO - Christian Rocca : " Bagram è la nuova Guantanamo. Liberal vs Barack "

New York. All’indomani del suo insediamento alla Casa Bianca, Barack Obama aveva ricevuto grandi elogi nazionali e internazionali per aver annunciato la chiusura del carcere di Guantanamo entro il gennaio 2010, ma le molte ambiguità di quella decisione di grande impatto mediatico e di apparente rottura rispetto alla politica di George W. Bush stanno improvvisamente cominciando a venire alla luce, anche perché da parecchi anni i detenuti della guerra al terrorismo americana non vengono più mandati a Guantanamo, ma nel carcere della base militare di Bagram, in Afghanistan. Obama non ha quasi mai parlato di Bagram, suscitando già fin dall’inizio qualche sospetto tra le organizzazioni dei diritti civili. A febbraio, nell’imbarazzo silenzioso dei media liberal, la nuova Amministrazione ha formalmente deciso di seguire la linea Bush di non garantire ai terroristi detenuti indefinitivamente a Bagram il diritto di contestare l’accusa e di poter accedere a un avvocato. Venerdì, l’Amministrazione Obama ha fatto di più: si è opposta alla decisione di un giudice federale che aveva esteso il diritto all’habeas corpus riconosciuto dalla Corte suprema ai detenuti di Guantanamo anche a quelli rinchiusi a Bagram. Obama, seguendo la linea dei sei alti funzionari bushiani ieri messi sotto accusa dal solito giudice spagnolo Baltasar Garzón, si è rifiutato e ha detto di no, costringendo il New York Times a scrivere nel suo primo editoriale di lunedì che su Bagram, “la nuova Guantanamo”, il presidente “si sta comportando molto meno nobilmente”. Il commento del principale giornale liberal è duro: a Bagram si violano le leggi internazionali e militari e l’Amministrazione Obama “non dovrebbe sprecare energie in un appello che semplicemente ricicla le stravaganti idee sul potere esecutivo e continua le politiche di detenzione dell’Amministrazione Bush”. La posizione del Times è tra le più moderate e anche un conduttore televisivo molto tifoso come Keith Olbermann dice che su questi temi Obama sta sbagliando tutto e non sta rispettando le promesse elettorali. Jack Balkin, professore di Legge a Yale, già due mesi fa aveva previsto che la politica di Obama sarebbe stata “no a Guantanamo, ma possiamo farne un altro altrove”. Jonathan Turley, professore alla George Washington University, ha ricordato che “Obama ha detto che nessun luogo dovrebbe essere al di fuori della legge, ma a Bagram ha fatto esattamente questo. Abbiamo un’Amministrazione che stabilisce continuamente dei principi come premessa per violarli subito dopo”. Gli uomini di Bush, ha detto il professore allo show di Olbermann, dovrebbero sventolare lo striscione “missione compiuta” perché ora “Obama sta adottando le stesse argomentazioni estremiste, anzi sta andando oltre l’estremismo del presidente Bush”. Glenn Greenwald, una delle voci della sinistra liberal più seguite sul Web, ha scritto su Salon che “il dipartimento di Giustizia di Obama è decisamente alla destra di un giudice estremamente conservatore nominato da Bush”. In campagna elettorale e al Senato, ha ricordato Greenwald, il presidente si era impegnato a ribaltare la linea Bush, ma ora “Obama ha depositato una memoria che condivide in pieno la posizione di Bush e Cheney e dice che il presidente ha il diritto di rapire, trasportare e imprigionare la gente a Bagram indefinitivamente e senza muovere accuse formali. Dice inoltre ai tribunali che non hanno alcuna autorità di criticare le sue decisioni sui poteri di guerra”. The Politico ha raccontato che “un crescente coro di giuristi di sinistra si sta distaccando da Obama in seguito alle recenti azioni del suo dipartimento di Giustizia che difende in modo vigoroso l’Amministrazione Bush sulla guerra al terrorismo”. Non c’è solo la decisione di mantenere il “buco nero legale” di Bagram, ma anche quella di confermare il programma segreto di intercettazioni e di continuare a invocare il segreto di stato. “La posizione di Obama sullo spionaggio illegale è peggio di quella di Bush”, si legge sulla home page di un rispettato gruppo che si batte per la libertà di Internet. Josh Marshall, la star di sinistra di TalkingPointsMemo, ha intervistato un gruppo di esperti per capire se Obama stia davvero continuando ad anteporre segretezza e potere esecutivo alla Costituzione, come faceva Bush. La risposta è stata: sì.

Il FOGLIO : " Chi ha incastrato Dennis Ross "

Washington. Quando a fine gennaio Richard Holbrooke e George Mitchell furono nominati inviati speciali – il primo per Afghanistan e Pakistan, il secondo per il medio oriente (si legge: Israele e questione palestinese) – l’annuncio al dipartimento di stato americano fu dato con la fanfara. Barack Obama, il vicepresidente Joe Biden e il segretario di stato Hillary Clinton convocarono una conferenza stampa nel salone Benjamin Franklin del dipartimento, su all’ottavo piano. L’arrivo davanti all’edificio fu un corteo governativo motorizzato, di quelli che mandano in fibrillazione il traffico e gli agenti di sicurezza. Quando a marzo Dennis Ross fu nominato inviato speciale “per il Golfo e l’Asia sudoccidentale” – si legge: Iran – l’Amministrazione Obama fece invece le cose in sordina. Niente conferenza stampa, notizia fatta circolare con una mail spedita ai giornalisti alle nove di sera. A Washington si dice che la questione Ross è “controversa”, ma si pensa che è fin troppo chiara. Dennis Ross è di madre ebrea, ha legami con Israele e sul programma nucleare dell’Iran ha posizioni dure. Ha cominciato lavorando come specialista di questioni sovietiche sotto Reagan al dipartimento di stato e alla Difesa, con altri due duri, Paul Wolfowitz – poi diventato vice del segretario alla Difesa di George Bush, Donald Rumsfeld – e Andrew Marshall. Ha fondato un think tank pro Israele, il Washington Institute for Near East Policy, che l’anno scorso ha pubblicato un rapporto in cui si definiva l’intervento armato contro i siti nucleari iraniani “un’opzione fattibile”. Ross ha seguito i negoziati in medio oriente per le Amministrazioni di Bill Clinton e di Bush secondo. A Camp David nel 2000 guidava la rappresentanza americana, anche se Yasser Arafat diffidava profondamente di lui (sentimento ricambiato). Durante un momento di tensione nei negoziati, scagliò un dossier sul tavolo tra le bottiglie e la frutta. E quando è uscita la notizia della sua nomina con Obama, Kazem Jalali, della commissione Sicurezza del Parlamento iraniano, ha commentato: “Tanto valeva scegliere Ariel Sharon come inviato speciale per l’Iran”. Oggi Ross confida ai suoi funzionari di essere poco convinto del valore dei negoziati, perché potrebbero non essere capaci di cavare da Teheran alcun risultato utile. L’inviato speciale non si incastra per niente bene nella nuova politica della Casa Bianca, fatta di clamorose aperture verso l’Iran. Prima il presidente Obama è apparso in un messaggio video di auguri “alla leadership della nazione iraniana”: “Vogliamo un impegno serio e fondato sul rispetto reciproco”. Poi un rappresentante di Teheran è stato invitato alla conferenza dell’Aja sull’Afghanistan. Ora, secondo il New York Times, Washington ha in mente anche di lasciare cadere assieme ai negoziatori europei la condizione preliminare per riprendere le trattative dirette con gli iraniani: la sospensione immediata dell’arricchimento dell’uranio. Che cosa si dice al dipartimento di stato, di Ross e di tutto questo? Ci sono due voci, pazzamente opposte. La prima vorrebbe l’inviato speciale più forte che mai. Chi sperava fosse emarginato per le sue convinzioni ora è deluso. Ross sta creando di persona il proprio staff, e con la sua capacità di cavarsi fuori dai pantani burocratici sta conquistando la fiducia dei funzionari e allargando il suo potere. “Il dossier Iran è suo. E lui si comporta come fosse l’uomo chiave. A chiunque ti rivolgi, in dipartimento, ti senti rispondere: ‘Devi prima passare da Dennis’”, dice uno specialista di questioni iraniane che non vuole essere citato. La seconda voce invece dice che Ross sarebbe stato emarginato. Da dentro Foggy Bottom sosterrebbero che l’inviato speciale di Hillary per l’Afghanistan e il Pakistan, Holbrooke, s’è preso nei fatti anche il dossier Iran: Ross è stato tenuto fuori dall’incontro tra Holbrooke e il viceministro degli Esteri iraniano Mehdi Akhundzadeh all’Aia (che comunque riguardava l’Afghanistan). L’Amministrazione ha appena inaugurato il Grande Dialogo, ma nel suo ufficio al settimo piano il neoinviato speciale Ross sarebbe già in disparte, con poco da dire.

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