Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
L'Iran continua il suo programma nucleare con il consenso di Obama Roxana Saberi ancora in carcere e la cronaca sugli ultimi giorni di vita del blogger 'suicida'
Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio Autore: Guido Olimpio - Francesco Semprini - Giulio Meotti Titolo: «Iran, Obama offre di più: 'negoziato senza condizioni' - Gli Usa: nessuna prova contro la giornalista - Gli ultimi giorni di vita del blogger che sulla rete sfidò Ahmadinejad»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/04/2009, a pag. 13, la cronaca di Guido Olimpio dal titolo " Iran, Obama offre di più: 'negoziato senza condizioni' " sulla decisione di Obama di permettere all'Iran di continuare il suo programma nucleare durante la prima fase dei negoziati. Dalla STAMPA, a pag. 16, la cronaca di Francesco Semprini dal titolo " Gli Usa: nessuna prova contro la giornalista " su Roxana Saberi, giornalista statunitense accusata di spionaggio dall'Iran (se il tribunale la giudicherà colpevole rischia la pena di morte). Dal FOGLIO, a pag. 2, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Gli ultimi giorni di vita del blogger che sulla rete sfidò Ahmadinejad " su Omidreza Mirsayafi, il giovane iraniano incarcerato per aver scritto contro Ahmadinejad sul suo blog . Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: " Iran, Obama offre di più: 'negoziato senza condizioni "
WASHINGTON — A Israele e conservatori americani questa notizia non piacerà. La Casa Bianca è pronta ad accettare che, almeno nella prima fase di negoziati, gli iraniani non sospendano l’attività nei loro impianti nucleari. Una posizione ben diversa da quella dell’amministrazione di George W. Bush — che poneva come pre-condizione lo stop immediato — ma già emersa durante la campagna elettorale di Barack Obama. Quindi non una sorpresa, ma una conferma. La possibile concessione— rivelata dal New York Times, poi definita «inesatta», ma non smentita dalla Casa Bianca — verrebbe formulata, insieme ai partner europei, nei prossimi contatti con l’Iran. Dopo lunghe consultazioni i diplomatici hanno concluso che la vecchia strada non era più percorribile in quanto Teheran non era disposta a fermarsi. Una posizione più volte ribadita dal presidente conservatore Ahmadinejad ma condivisa da Mir Hussein Moussawi, il candidato riformista che lo sfiderà alle elezioni del 12 giugno. Nel difendere la scelta dei piccoli passi, i funzionari statunitensi avvertono che l’obiettivo finale resta quello della «sospensione» (lo ha ribadito in serata anche Robert Gibbs, il portavoce di Obama) e che i mullah devono compiere gesti concreti. Il primo tra tutti, invocato a gran voce anche dall’Agenzia atomica internazionale (Aiea), è il sì a nuove ispezioni. In particolare a un grande impianto dove sono realizzate le centrifughe destinate al centro di Natanz. Si tratta di un’ex fabbrica di orologi a Teheran dove gli ispettori internazionali non mettono piedi dalla scorsa estate. Le visite, se accurate e approfondite, potrebbero placare in parte i timori di quanti paventano l’esistenza di un programma segreto iraniano. Ai gesti distensivi da parte americana si accompagna la ricerca di soluzioni «creative» quanto pragmatiche. Qualcosa che permetta alle due parti di salvare la faccia ed evitare lo scontro. Tra queste vi sarebbe quella ipotizzata dal ricercatore Matthew Bunn della Harvard University: la sospensione «calda». Ossia le centrifughe iraniane continuano a girare ma senza produrre uranio arricchito. In questo modo l’Iran può sostenere di non essersi fermata e gli Stati Uniti possono affermare che la ricerca non procede. Sottigliezze che non convincono gli israeliani e la loro sponda americana. Gerusalemme, con messaggi diretti e della sua intelligence, fa sapere che il tempo stringe. Entro la fine dell’anno — è la previsione — l’Iran raggiungerà il punto di non ritorno e la strada verso la Bomba sarà irreversibile. Se le trattative non porteranno frutti — è il corollario — dovranno essere usati altri mezzi. Ed è significativo che, a cadenza quotidiana, appaiano sulla stampa statunitense articoli sull’inevitabilità di un attacco israeliano. Ma per raggiungere gli obiettivi i jet israeliani dovrebbero attraversare uno spazio aereo sorvegliato dagli Stati Uniti e sarebbe indispensabile la luce verde di Washington. Un sì che l’amico George W. Bush ha negato nell’ultimo anno di Casa Bianca e che neppure il suo successore è orientato a dare. Ma un recente rapporto ha indicato che Israele ha una seconda opzione: uno strike con 42 missili Gerico per neutralizzare una parte dei centri di ricerca.
La STAMPA - Francesco Semprini : " Gli Usa: nessuna prova contro la giornalista "
Ha deposto ieri dinanzi alla Corte per la sicurezza nazionale di Teheran, Roxana Saberi, la giornalista iraniano-americana accusata di spionaggio per conto degli Stati Uniti e per questo giudicata a porte chiuse da un tribunale rivoluzionario della Repubblica islamica. La prima udienza si era svolta lunedì ma solo ieri la donna ha potuto raccontare la propria versione dei fatti ai giudici. «Il tribunale emetterà il verdetto entro due o tre settimane», spiega Ali Reza Jamshidi, portavoce della Giustizia del governo iraniano. E’ un’accusa «priva di fondamento», dice Washington che chiede spiegazioni sui motivi di un procedimento tanto veloce, specie per un’incriminazione così grave per cui la legge della Repubblica islamica prevede sino a dieci anni di reclusione. La vicenda rischia inoltre di compromettere le prime prove di dialogo tra i due Paesi giunte, dopo tre decenni di gelo diplomatico. Roxana Saberi, 31 anni, è nata negli Stati Uniti da padre iraniano e madre giapponese ed è cresciuta a Fargo, in Dakota del Nord, dove ancora vive la sua famiglia. Da sei anni la donna risiedeva in Iran con un passaporto iraniano tanto da essere considerata dalle autorità di Teheran esclusivamente cittadina Repubblica islamica. Ha lavorato come free-lance per National Public Radio, Bbc e Fox News, e stava completando la stesura di un libro sull’Iran al termine della quale sarebbe ritornata negli Usa. Secondo Teheran tuttavia da due anni le era stato revocato l’accredito da giornalista, e quindi Roxana non era autorizzata più a svolgere le sue attività professionali. Arrestata lo scorso 31 gennaio è stata accusata in un secondo momento di spionaggio per gli Stati Uniti. Sulla vicenda è intervenuto il segretario di Stato, Hillary Clinton, che ha chiesto il rilascio della Saberi mentre il portavoce di Foggy Bottom, Robert Wood, ha definito le accuse «senza fondamento». «E’ strano che qualcuno commenti senza nemmeno aver visto il dossier», ha risposto il portavoce Jamshidi. Ma intanto il dossier viene tenuto segreto. Il legale della giornalista, Abdolsamad Khorramshahi, l’unico ammesso in tribunale, preferisce non rilasciare dichiarazioni per non compromettere la posizione della sua assistita: «Parlerò solo dopo il verdetto», spiega. I genitori di Roxana, a Teheran dal 6 aprile, hanno potuto vederla due volte e il padre ha detto che è in buone condizioni di salute. Ma restano ancora molti aspetti da chiarire come le circostanze dell’arresto, avvenuto dopo che la donna aveva acquistato una bottiglia di vino in un bazar. Secondo gli esperti non è un caso che il processo arrivi in coincidenza degli sforzi diplomatici dell’amministrazione Obama. «Ci sono fazioni radicali che fanno di tutto per sabotare il dialogo Usa-Iran perché rischiano di perdere all’interno del Paese importanza politica e finanziaria, specie in vista delle elezioni presidenziali di giugno», spiega Karim Sadjadpour, analista del Carnegie Endownment for International Peace. A confermare la tesi del complotto è la notizia della condanna di un’altra donna, Silvia Harutunian, appartenente alla minoranza cristiana armena e anche lei con doppia cittadinanza iraniana e americana. Per Silvia il verdetto è di tre anni per aver partecipato a un complotto volto a promuovere una «soft-revolution». La donna lavorava a progetti di cooperazione in campo medico.
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Gli ultimi giorni di vita del blogger che sulla rete sfidò Ahmadinejad "
Roma. E’ cominciato ieri davanti alla Corte rivoluzionaria di Teheran il processo a Roxana Saberi, la giornalista americana in carcere dalla fine di gennaio con l’accusa di spionaggio, reato che nella Repubblica islamica può comportare la condanna a morte. Saberi lavorava come free lance per National public radio e Fox News. Intanto emergono nuovi dettagli sulla fine di Omidreza Mirsayafi, il blogger di 29 anni “suicidatosi” due settimane fa nello stesso carcere di Evin. “Dedicava la maggior parte dei suoi articoli alla musica tradizionale persiana e alla cultura”, fa sapere Information Safety and Freedom. Mirsayafi non era un politico, ma a costargli la vita è stata la critica dei leader iraniani. Omidreza soffriva di un’acuta forma di depressione e avrebbe abusato dei farmaci. Questa la versione ufficiale. La famiglia esclude che si sia tolto la vita, anche perché la sua condanna era soltanto a trenta mesi di reclusione. Ipotesi sostenuta anche da Bret Stephens del Wall Street Journal. Il dottor Hesam Firouzi, attivista per i diritti umani in carcere, aveva sollecitato le autorità ad autorizzare il trasferimento di Mirsayafi in ospedale al di fuori del carcere, in quanto era in uno stato medico molto grave. Ma i medici della prigione del regime si sono opposti e non hanno nemmeno effettuato accertamenti. Poche ore dopo era morto. Dalle finestre della cella, Mirsayafi poteva vedere l’area dove ancora, nel 2009, uomini e donne vengono seppelliti fino al collo e presi a sassate finché non muoiono. Su Facebook è partita una campagna perché “l’Iran si assuma le responsabilità della morte in carcere di Mirsayafi”. Il blogger “è stato” suicidato nella famigerata prigione di Evin per queste due righe: “Vivere nel paese di Khomeini è nauseante, vivere in un paese il cui presidente è Ahmadinejad è una grande vergogna”. Il suo primo post su Internet era del settembre 2006: “Cos’è la libertà? Non lo so, ma so che un giorno vedrò la sua ombra scendere sulla mia terra”. Due anni e mezzo dopo telefona alla madre dal carcere. Parlano della depressione, lei chiede se ha preso le medicine per il cuore che gli ha prescritto il medico. Omidreza era morto di lì a poco. Dozzine di blogger sono nella sua stessa condizione, come Hussein Derakhshan, accusato di spionaggio a favore di Israele per un’intervista al Jerusalem Post, in cui dice di voler “costruire un ponte fra il popolo israeliano e iraniano”. O come la giornalista iraniana Parvin Ardalan, in galera per “propaganda contro il sistema”. Di sé dice di provenire dalla “generazione distrutta dalla Rivoluzione” e che per questo “la resistenza è il nostro solo modo di vivere”. L’ayatollah Seyyed Hossein Kazeimini Borujerdi, principale spina nel fianco teologica dei khomeinisti, è costretto a parlare al mondo per mezzo di lettere clandestine che fa uscire da Evin. “Omidreza era un blogger ordinario e questo causa allarme”, dice da Tel Aviv Farad Moradian, amico del giovane morto in carcere. Il suo blog, in farsi “Rouznegar”, significa “il diario dello scrittore”. Tutto per lui cambia il 22 giugno del 2007, quando Omidreza fa nomi e cognomi dei responsabili della tortura del suo popolo. “Vivere nel paese di Khomeini è nauseante, vivere in un paese il cui presidente è Ahmadinejad è una grande vergogna. Vivere in un paese che si fa chiamare Repubblica Islamica è una disgrazia”. Ufficialmente, dei tremila detenuti di Evin nessuno figura come “prigioniero politico”. La formula è “moharebeh”, che indica i “nemici di Allah”. Mirsayafi sapeva di essere entrato in un territorio pericoloso, ma sapeva anche di essere un semplice blogger senza rinomanza. Invece, per quelle poche righe, è finito nella cellula numero sette, sezione cinque, di Evin. Al fianco del suo amico, l’economista Abbas Khorsandi, in cella per aver fondato il Partito democratico dell’Iran. Mirsayafi ha fatto la stessa fine di Zahra Kazemi, morta in quello stesso carcere dopo essere stata arrestata di fronte a Evin mentre documentava la protesta dei parenti di alcuni studenti arrestati pochi giorni prima. La sorella di Mirsayafi, Masoumeh, pochi giorni prima della morte del fratello aveva implorato il perdono del leader supremo Ali Khamenei. Non l’aveva degnata neppure di una risposta.
Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera, Stampa e Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante