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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.04.2009 Gli inglesi minacciati da Al Qaeda, ma non se ne accorgono, devono boicottare i prodotti israeliani
ma agli esteri c'è una manina infarinata che stravolge i titoli....

Testata: Corriere della Sera
Data: 11 aprile 2009
Pagina: 14
Autore: Fabio Cavalera-Francesco Battistini
Titolo: «Manchester, il complotto degli studenti-Il caso del numero verde che boicotta gli israeliani»

Gli inglesi, invece di preoccuparsi degli attentati che il fondamentalismo islamico sta preparando sul suolo britannico ( si veda l'articolo di Fabio Cavalera ), sembrano presi dall'insana volontà di boicottare i prodotti alimentari israeliani, come scrive Francesco Battistini, sul caso della catena "Tesco". Sul CORRIERE della SERA di oggi, 11/04/2009, a pag.14.  Il titolo del pezzo di Cavalera non è esatto, il complotto non è degli studenti, ma degli studenti pakistani. Che ci sia una manina politicamente corretta, magari anche infarinata agli esteri del  Corriere ?                      Ecco gli articoli:

Fabio Cavalera-  Manchester, il complotto  degli studenti                                     

LONDRA — Non ci voleva poi molto a bucare le frontiere britanniche. La via più facile, per i pachistani, era quella di procurarsi un visto studentesco e con il timbro sul passaporto si poteva essere sicuri che a Lon­dra prima o poi si sarebbe sbar­cati. Nessuna indagi­ne. Nessuna verifi­ca. Niente di niente.
Chi andava a con­trollare come e per­ché un ventenne cre­sciuto ai confini fra Pakistan e Afghani­stan, la tana di Osa­ma Bin Laden e del­le sue bande, riuscis­se a pagare almeno 8 mila sterli­ne per iscriversi a un college universitario? E chi si prendeva in carico il dovere di certificare se i ragazzi fossero davvero im­macolati liceali con il sogno di una prestigiosa laurea? Se ne so­no presentati cinquantamila ne­gli ultimi cinque anni. Tanti.
Troppi? Quel colabrodo di si­stema è stato una pacchia per chi non aveva in testa i libri ma le bombe. Ed è proprio così che dieci dei dodici sospetti terrori­sti affiliati ad Al Qaeda, bloccati mercoledì da Scotland Yard, so­no entrati nel Regno Unito: da insospettabili secchioni. Abdul Wahab Khan, ad esempio, da
un paio d’anni si era iscritto al Manchester College of Profes­sional Studies di Manchester. «Era gentile e intelligente», giu­rano i vicini di casa. Ma la poli­zia la pensa diversamente. Gli agenti si sono precipitati ad ar­restarlo perché dopo averlo pe­dinato si sono convinti che stes­se preparando per il weekend di Pasqua un attacco al Trafford Centre di Manchester, che è uno dei centri commerciali più importanti dell’Inghilterra, e ad altri tre obiettivi. Naturalmente un conto è sospettare e un con­to è provare. E gli investigatori avranno 28 giorni di tempo per spiegare la fretta con cui hanno catturato Abdul Wahab Khan e i suoi undici compari distribui­ti fra la John Moore University di Liverpool, la campagna del­l’Essex e la stessa Manchester.
Una cosa è certa: poche ore prima che le forze della sicurez­za si muovessero con qualche ora di anticipo sui tempi pro­grammati per via della gaffe di Bob Quick, il numero uno del­l’antiterrorismo
— immortala­to in Downing Street con i det­tagli dell’operazione «Pa­thway » in bella vista fra le ma­ni — i vertici dell’intelligence avevano spiegato a Gordon Brown, il primo ministro, i det­tagli di un piano che, secondo le loro informazioni, avrebbe avuto conseguenze tragiche. Il premier ieri si è sbilanciato par­lando di prove «molto grandi», segno che l’allarme rosso non era un’invenzione di comodo e che qualcuno si preparava a tra­sformare la vacanza in un tiro al bersaglio.
Che poi a tramare fosse una cellula di giovani pachistani non è neppure un particolare di second’ordine. Il precedente del 7 luglio 2005, gli attentati al­la metropolitana e ai bus di Lon­dra, è un dato certo: i kamika­ze, pur di nascita inglese, aveva­no origini familiari nel Paki­stan. La differenza sta semmai nella nuova strategia di Al Qae­da che, anziché ricorrere a mili­tanti già residenti nel Regno Unito, privilegerebbe l’utilizzo di manovalanza esportata, gra­zie ai visti studenteschi, dai suoi campi di addestramento. Colpa di Islamabad che non col­labora? O colpa di Londra che ri­lascia i permessi senza verifica­re il background dei richieden­ti? Un balletto. Ne hanno discus­so al telefono il premier Gor­don Brown e il presidente pa­chistano. All’invito del primo — «dovete fare di più» — Asif Ali Zardari ha replicato: «Va be­ne, ma spetta a voi controllare prima di concedere i visti».


Francesco Battistini- " Il caso del numero verde che boicotta gli israeliani"

GERUSALEMME — 0800-505555, un bip: «Servizio clienti Tesco. Se state chiaman­do per informazioni sui prodot­ti da Israele, siete pregati di di­gitare 1». Il pregiudizio non si coglieva e il risponditore auto­matico aveva il tono antipatico, più che ostile. Però quella fra­setta era ronzata subito male, anche perché schiacciando l’1 si capiva subito di che informa­zioni si trattasse: quelle sulla campagna per il boicottaggio del «made in Israel», che in Gran Bretagna ha trovato spon­sor nel governo Brown e, dopo Gaza, è diventata un peso fisso sulla bilancia commerciale.
Qualcuno ha segnalato alla Fe­derazione sionista. Una verifi­ca, la protesta: «Il messaggio è chiaro — dice Jonathan Hoff­man, il vicepresidente —. I si­gnori Tesco ci stanno dicendo che, per le merci da Israele, c’è un 'canale particolare'. E che trattarle è comunque una gra­na ».
In Gran Bretagna, lo è da anni. Dall’ortofrutta all’hi-tech, mol­ta roba arriva sui banchi dei su­permercati con un’etichetta che somiglia a un avvertimen­to: «Prodotto nella West Bank», ovvero negl’insediamenti che tutta la comunità internaziona­le considera illegali e che do­vrebbero essere smantellati, in base alla Road Map e agli accor­di di Annapolis. La Palestine So­lidarity Campaign ha raccolto molte adesioni fra gl’inglesi e il boicottaggio è diventato reale.
«Non c’è dubbio, hanno acceso un semaforo rosso», riconosce Dan Katrivas, responsabile este­ro dei manifatturieri israeliani: «C’è una campagna capillare, le organizzazioni pro palestinesi bombardano i negozianti con lettere e telefonate, chiedendo di togliere le nostre merci».
È a questo che s’aggrappano i dirigenti Tesco, la più grande catena britannica di distribuzio­ne, che hanno disattivato quel tasto 1 e fatto le scuse: «Il pro­blema è che le nostre linee so­no rimaste intasate, specie nei giorni della guerra di Gaza. La gente chiamava per sapere co­me
aderire al boicottaggio, ma anche se fosse possibile acqui­stare lo stesso i prodotti israe­liani. Abbiamo pensato d’aprire una linea apposita». L’attenzio­ne non è piaciuta: se il boicot­taggio è finora un danno più d’immagine che di sostanza — l’export israeliano ha subìto una flessione del 3-5 per cento —, in ogni caso i mercati ingle­se e scandinavo stanno diven­tando un tabù. Ci vuol poco a finire nel mirino antisraeliano, come sanno alla Starbucks, la multinazionale del caffè. Qual­che mese fa, un chierico egizia­no ha osservato la donna del lo­go verdenero e ha creduto di ri­conoscervi il volto Esther, la re­gina degli Ebrei persiani cele­brata dal Vecchio Testamento. È scattata la fatwa. Starbucks ha smentito, ma è servito a po­co: dal Cairo a Beirut, il caffè s’è fatto amarissimo.

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