Sull'oppressione della donna nei regimi islamici, riportiamo dall'UNITA' di oggi, 09/04/2009, a pag. 32, l'articolo di Rachele Gonnelli dal titolo " L'occidente non capisce. Il velo non è per noi solo simbolo di segregazione " , a pag. 26, l'intervista di Gabriel Bertinetto a Sima Samar, ministro afghano per le questioni femminili, dal titolo " Stupro coniugale, una legge contro la Costituzione " e da La REPUBBLICA, a pag. 19, l'articolo di Vanna Vannuccini dal titolo " Teheran, Roxana accusata di spionaggio la giornalista americana rischia la pena di morte ", la giornalista statunitense di origine iraniana arrestata in Iran con l'accusa di spionaggio.
Ecco gli articoli:
L'UNITA' - Rachele Gonnelli : " L'occidente non capisce. Il velo non è per noi solo simbolo di segregazione "
Leggendo questo articolo sembra quasi che le donne siano felici di portare il velo...noi non mettiamo in dubbio che a qualcuna possa piacere, contestiamo, però, che a tutte non sia permesso di scegliere se portarlo o no. Il velo è simbolo di segregazione quando è imposto. Non riteniamo, per esempio, che alle donne afghane piaccia il burqa del quale sono rese prigioniere dai fondamentalisti islamici uomini. Le domande, come quasi sempre sull'UNITA', sono prive di coraggio, si allineano con quanto sostiene l'intervistata. Ecco l'articolo:
Le chiamano «le femministe di Allah». Loro invece si chiamano «le murshidat», le guide, e usano il velo integrale come una bandiera di libertà. Alcune sono fondamentaliste come Nadia Yassine che in Marocco guida un gruppo semi-illegale al grido di «Allah è femminista». Reinterpretano parti del Corano, in particolare gli hadith ovvero le testimonianze sui detti e la vita del Profeta e delle sue mogli. Considerano la sharja una legge consuetudinaria che, nata in epoca medievale, va storicizzata. «Sono anche loro un aspetto della modernità», sostiene Ruba Salih, antropologa sociale che insegna all’Università di Exeter in Inghilterra e a Bologna e su velo, Islam e modernità ha recentemente scritto il libro «Musulmane Rivelate» edito da Carocci.
Lei che dice, sta migliorando la condizione della donna velata?
«L’interesse per le donne arabe e musulmane nasce in un contesto contaminato, ideologico. Già da prima dell’11 settembre c’era un brutto clima che puntava sull’incommensurabilità delle culture, su un’alterità totale del mondo musulmano, un approccio che è difficile da cancellare. Da allora l’ambito religioso è diventato prevalente, la vera linea di demarcazione, mentre la realtà è fatta di appartenenze multiple. Quando ero piccola a Parma nessuno mi chiedeva se ero musulmana, faceva più discutere il fatto che fossi palestinese».
Vuol dire che è troppo tardi per capirci?
«Intanto bisogna non considerare il velo come simbolo di segregazione. E sapere che nella storia mediorientale ci sono sempre stati periodi di aperture, spesso però seguiti da ritrattazioni: non c’è stato un percorso lineare di progressive acquisizioni. A volte ciò che sembra progresso sono piuttosto delle concessioni, come ultimamente la monarchia wahabita che ha concesso a una donna di ricoprire il ruolo di viceministro in Arabia Saudita. Durante la dinastia Palhevi in Iran i movimenti femminili erano orchestrati per accreditare un modello di donna occidentalizzata, che poi è diventato il modello da abbattere. Nell’Iraq di Saddam c’era stato un certo femminismo di stato con alti livelli di scolarizzazione e accesso alle professioni ma era una dittatura. Hezbollah e Hamas hanno una dinamica interna con un forte protagonismo femminile».
Ma le donne nei paesi musulmani rivendicano diritti?
«Lo hanno sempre fatto. In Egitto dagli anni Venti. In Palestina hanno partecipato in massa al primo grande sciopero sotto il Mandato britannico. In Algeria invece dopo la lotta di liberazione sono state rimandate a casa e ora stanno affrontando una fase nuova».
Le musulmane di oggi, scolarizzate, colte, rivendicano il velo.
«L’islamismo è un movimento che mescola universalismo e fede. Il velo - l’hijab - è un segno distintivo insieme estetico e identitario che accompagna la donna in uno spazio pubblico. Le donne in tutti i diversi contesti hanno sempre trovato una strategia per negoziare le dinamiche più oppressive. A me interessa individuare i meccanismi per cui ad un certo punto ad un processo che avviene dal basso si innesta un processo riformatore dei governi e dei regimi».
Quando scatta la riforma?
«In Marocco è successo con il nuovo codice di famiglia. È stato dopo i gravi attentati di Casablanca e Rabat nel 2000. Le infiltrazioni dei gruppi islamisti radicali hanno scosso il re e gli hanno fatto prendere una decisione attesta da decenni. In ballo c’era la natura dello Stato. La monarchia ha visto un pericolo e ha impresso una svolta ricollocando la sfera religiosa in un suo ambito. Sui diritti delle donne si stabilisce in effetti che tipo di modernità si vuole. È una cartina da tornasole».
Lei dice che l’islamismo guadagna popolarità con l’insicurezza economica. È come dire che le donne non sono le prime ad essere ricacciate a casa in tempi di crisi?
«C’è una traiettoria ambivalente di fronte a fenomeni come gravi crisi, guerre o shock. Alle donne viene spesso chiesto di dare un contributo ma anche di preservare l’autenticità dei valori, garantire che il sistema non sarà scosso. Così è stato in Egitto alla fine degli anni Ottanta quando dovendo uscire di casa per andare al lavoro hanno deciso di indossare il velo per rassicurare gli uomini che ciò non avrebbe minacciato la costruzione culturale della famiglia. Il velo non è allora semplice oppressione ma un simbolo, di modestia e di ordine morale, e come tale viene utilizzato. Poi fortunatamente nel vissuto della gente la realtà è molto più ibrida che nelle dichiarazioni d’identità. La speranza è questa».
L'UNITA' - Gabriel Bertinetto : " Stupro coniugale, una legge contro la Costituzione "
Il Parlamento di Kabul ha approvato una legge per la minoranza sciita, che consente di fatto lo stupro domestico, imponendo alle mogli l’obbligo di avere rapporti sessuali ogni qualvolta il marito lo voglia. Inoltre vieta loro di uscire di casa senza permesso coniugale. Il presidente Karzai ha firmato la legge ma la protesta in Afghanistan e fuori è stata così forte da indurlo a una parziale marcia indietro. Il provvedimento verrà riesaminato. Al telefono da Kabul la presidente della Commissione per i diritti umani ed ex ministra per le questioni femminili, Sima Samar.
Signora Samar, come giudica la legge per le donne sciite?
«Non è in sintonia con la Costituzione e non rispetta le Convenzioni internazionali ratificate dallo Stato afghano. Il fatto è che agli sciiti in Afghanistan fino ad epoca recente non era consentito di esercitare i diritti loro inerenti come gruppo. Per la prima volta la Costituzione del 2004 glieli ha concessi. Ma questo non può essere usato da alcuni per negare una parte dei diritti fondamentali che ciascuno ha in quanto essere umano. E in particolare non vuol dire che si possano limitare i diritti delle donne».
Si può dire che il Parlamento con l’avallo del presidente Karzai abbiano rimesso in vigore, seppure limitato al 15% della popolazione, lo stesso sistema discriminatorio instaurato a suo tempo dai talebani?
«Sì, in qualche modo è così. Ed aggiungo che la bozza iniziale della legge era ancora peggiore rispetto al testo finale».
Karzai ha fama di progressista. Come può avere firmato un provvedimento simile?
«Non lo so. La commissione per i diritti umani aveva lavorato molto sulla bozza di partenza per correggerla. A un certo punto è stata sottoposta a Karzai. Ero all’estero e non so davvero perché abbia detto sì. Spero che non sia per la pressione di una parte del clero sciita, desideroso di trasformare la propria mentalità in legge».
La spiegazione corrente è che il capo di Stato abbia bisogno del sostegno sciita per essere rieletto in agosto. Ma è così debole Karzai da dover barattare i suoi principi per qualche voto?
«In ogni paese gli appuntamenti elettorali possono comportare qualche tipo di negoziato. Probabilmente era in cerca di qualche vantaggio politico. Bisogna considerare poi che il grosso della popolazione sciita non conosce i contenuti della legge, che non sono stati resi pubblici. Oppure non li capisce. Anche perché la maggior parte degli afghani è analfabeta. Molti non conoscono i dettagli della legge. Per gli sciiti il fatto di ottenere per la prima volta nella storia il rispetto dei propri diritti come gruppo e di potere esercitare liberamente il proprio credo religioso è un fatto positivo. Ma approfittare di questo per soffocare i diritti di metà della popolazione sciita, quella di sesso femminile, è inaccettabile».
In generale come ex ministra è soddisfatta del suo lavoro?
«Non c’è dubbio che in Afghanistan ci siano stati dei miglioramenti per le donne. Nel campo dell’istruzione, della sanità, delle opportunità di lavoro, che almeno ufficialmente non sono impedite. C’è più partecipazione politica, accesso al Parlamento, al governo. Ma con molta chiarezza devo dire che come donna non sono soddisfatta. E, nelle zone rurali, la situazione per gran parte delle donne è cambiata poco. Non sono a conoscenza dei loro diritti. Le leggi che le tutelano non vengono applicate, spesso i crimini contro le donne restano impuniti. Come commissione per i diritti umani abbiamo lavorato molto. Ma la situazione è difficile. La guerra continua. Le percentuale di analfabeti è altissima. Ci vorrà del tempo perché le cose migliorino. Ma ripeto, ci diamo molto da fare. Anche rispetto a questa legge, per un anno ci siamo impegnati per emendarla. Abbiamo fatto proposte. Ma è mancata la volontà politica di cambiarla. E non mi riferisco solo a Karzai, ma in primo luogo al Parlamento nel quale alla fine la legge è stata fatta passare senza rispettare le corrette procedure».
Karzai si dice disposto a rivedere la legge, ma d’intesa con il clero sciita. Che senso ha?
«Solo il Parlamento ha facoltà di varare una legge. Nessun altra istituzione può arrogarsi quel compito. Il progetto di legge è competenza del ministero della Giustizia. L’approvazione spetta all’organo legislativo dello Stato. Perciò non capisco perché Karzai faccia un’affermazione simile. Le pressioni esterne sono possono essere accettate. Vige il potere della legge e non la legge del potere».
Spesso nei Paesi musulmani la religione è usata strumentalmente per fini politici. Cosa ne pensa?
«Non accade solo nei Paesi musulmani. In molti Paesi, compresi quelli di tradizione cristiana, si cercano pretesti per giustificare violazioni dei diritti. Non solo nei Paesi di cultura islamica, ci tengo a ripeterlo».
Un deputato sciita ha difeso la legge sostenendo che in fondo alle donne viene permesso di uscire di casa senza permesso se c’è un’emergenza ...
«Credo che questa frase abbia a che fare con la sua mentalità, non con l’Islam. Chi dice queste cose, è un insicuro, non ha fiducia in se stesso. L’Islam non c’entra».
La REPUBBLICA - Vanna Vannuccini : " Teheran, Roxana accusata di spionaggio la giornalista americana rischia la pena di morte "
L'articolo tesse le lodi dell'Iran, paese dalla grande storia e civiltà raffinata contrapponendolo agli Usa (precisamente al North Dakota, Stato dal quale proveniva Roxana Saberi, la giornalista americana che rischia la pena di morte), descritti come luogo privo di una cultura raffinata come quella iraniana. Gli Usa non hanno la storia millenaria dell'Iran, ma hanno una cosa che l'Iran (contrariamente a quanto scrive Vannuccini), al giorno d'oggi, si sogna: la democrazia . Ecco l'articolo:
Se non si temesse di mancare di rispetto a Roxana Saberi, la giovane giornalista americana di origine iraniana rinchiusa da gennaio nel carcere di Evin, si potrebbe dire che l´accusa di spionaggio pronunciata ieri contro di lei dalla Procura di Teheran (un´accusa che in Iran prevede la pena di morte) è una mossa classica del regime. Sarà che gli iraniani hanno inventato il gioco degli scacchi, sarà che il persiano ha più vocaboli per "astuzia" di quanti ne abbia l´eschimese per neve, ma ogni volta che il regime si prepara a entrare in una trattativa qualcuno finisce arrestato. Così tutti i giornali del mondo dovranno constatare: segnali contraddittori dall´Iran, sarà davvero possibile il "nuovo inizio" auspicato da Obama?
Mentre il vice procuratore di Teheran Hassan Haddad accusava Roxana Saberi e rinviava la causa al Tribunale della Rivoluzione, da Isfahan il presidente Ahmadinejad ha aperto all´offerta di dialogo americana. «Se l´offerta è sincera, e si basa sul rispetto e sulla giustizia, è benvenuta», ha detto. Per oggi, sempre da Isfahan, è previsto un suo «grande annuncio» sul programma nucleare (civile). A Washington Hillary Clinton ha detto di essere molto preoccupata dalle accuse contro Saberi (durante la conferenza sull´Afghanistan aveva già consegnato alla delegazione iraniana una lettera sollecitando informazioni sulla sorte di tre cittadini americani detenuti, tra i quali Roxana) aggiungendo che gli Stati Uniti parteciperanno «pienamente» ai colloqui a sei con l´Iran sul programma nucleare.
Roxana è una delle tante ragazze di origine iraniana arrivate in Iran durante gli anni dell´apertura voluta da Khatami. I genitori (nel caso di Roxana il padre, perché la madre è giapponese) avevano trasmesso loro la nostalgia della patria perduta, raccontato le meraviglie di un paese dalla raffinata civiltà, dalla lingua tanto affascinante da essere sopravvissuta attraverso i millenni a tutte le invasioni barbariche, dall´architettura meravigliosa; mentre loro vivevano di solito nell´America profonda che proprio raffinata non è. Come Fargo, North Dakota, dov´è cresciuta Roxana. Sono queste giovani giornaliste iraniane-americane che hanno portato per la prima volta negli Stati Uniti una visione realistica dell´Iran, criticando il regime ma anche descrivendo una società moderna invece del girone infernale che gli americani si immaginavano. Il suo arresto in gennaio era stato attribuito in un primo momento al fatto che stesse comprando alcolici (proibiti, anche se dappertutto disponibili a Teheran), poi al fatto che stesse ancora lavorando come giornalista senza avere l´accredito. In questi giorni è stata arrestata anche una attivista per i diritti della donna, Khadijieh Moqadam, insieme ad altre (poi rilasciate) accusate di disturbo della quiete pubblica perché per il Capodanno iraniano avevano fatto visita ad alcune famiglie di detenuti.
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