Barack Obama ha dichiarato ieri nel suo discorso al Parlamento turco, di essere molto favorevole all'ingresso della Turchia in Ue. Contrari a questa proposta soprattutto Sarkozy e Merkel. Tutti i quotidiani italiani trattano la notizia mettendo in rilievo come, nel suo discorso, Obama abbia glissato sul genocidio degli armeni (argomento tabù in Turchia), mentre, durante la campagna elettorale, aveva dichiarato che era una verità storica e che la Turchia doveva riconoscerlo. Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/04/2009, a pag. 1-17, l'analisi di Antonio Ferrari dal titolo " La partita di Erdogan nel bazar diplomatico", dalla STAMPA, a pag. 31, l'analisi di Enzo Bettiza dal titolo " Chi ha paura del fantasma turco ", dal FOGLIO, a pag.3, l'editoriale dal titolo " Un capo troppo ideologico ", dalla STAMPA, a pag. 15, la cronaca di Maurizio Molinari dal titolo " Usa e Islam, non c’è guerra fra noi ", dalla REPUBBLICA, a pag. 21, l'articolo di Marco Ansaldo dal titolo " " con le dichiarazioni di Orhan Pamik, dalla STAMPA, a pag. 15, due interviste, la prima, dal titolo " Energia e rapporti con l'Asia, con Ankara saremo più forti " di Marco Zatterin a Joost Lagendjik, la seconda, dal titolo " L'Europa non ha capito il nostro ruolo strategico ", di Marta Ottaviani a Gun Kut, dall'UNITA', a pag. 27, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Nawal El Saadawi dal titolo " Bene la svolta Usa. Ora Barack portila pace in Palestina " preceduta da un nostro commento, dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " L'esame Euroturco " sull'Italia e i suoi rapporti con la Turchia. Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " La partita di Erdogan nel bazar diplomatico "
Obama non accetta che si possa sminuire il ruolo della Turchia, «luogo dove Est e Ovest non si dividono ma si incontrano». Per questo motivo è pronto a sfidare di petto alcuni alleati, a cominciare da Francia e Germania, contrari all'ingresso di Ankara nella Ue. E' un passo che la Casa Bianca sostiene invece con crescente impegno, perché l'ingresso «allargherebbe e rafforzerebbe le fondamenta dell'Unione », con il cemento garantito da «diversità di etnicità, tradizione e fede». La sfida, lanciata a Praga, è stata reiterata nel parlamento turco, in realtà non particolarmente entusiasta.
E' forse quel silenzio ingombrante di numerosi deputati la ragione del convinto affondo di Obama, che teme la stanchezza dei turchi per una corsa senza la certezza del traguardo. Disaffezione affiorata anche nelle ultime elezioni, che hanno visto il premier Erdogan, convinto europeista, ricevere un altolà dagli elettori. Troppo importante per gli Usa è il legame con lo storico alleato per cedere alle resistenze della Ue. Una Turchia in Europa rafforzerebbe quell'offerta di generosa apertura con l'intero Islam, «con il quale l'America non sarà mai in guerra», che il presidente non si stanca di ripetere.
Discorso ineccepibile, condivisibile, e sicuramente gradito all'Italia, che si spende a favore dell'ingresso della Turchia nell' Ue. Ma non si può ignorare la presenza di quell' intreccio di «pazarlik», termine turco che significa contrattazione, e che ha preceduto, accompagnato e forse segnerà la tappa conclusiva del viaggio di Obama in Europa per partecipare a tre vertici (G20, Nato e Usa-Ue) e oggi a Istanbul al Forum sull'alleanza delle civiltà.
Contrattazione può voler dire che Erdogan ha sì ceduto sulla nomina a segretario generale della Nato del premier (ormai ex) danese Anders Fogh Rasmussen, perdonando il silenzio, anzi la difesa delle vignette satiriche su Maometto pubblicate da un giornale del suo paese, e ritirando il veto. Ma in cambio ha ottenuto poltrone importanti al vertice della Nato, e forse qualche silenzio di troppo sulle inadempienze della Turchia: in materia di diritti umani, di violazioni della libertà di stampa, e di cedimenti alla propria componente islamica di frontiera.
Sul genocidio (o massacro sistematico) degli armeni nel 1915 Obama non ha parlato, limitandosi a sfiorare lo scottante e delicato argomento, «per non turbare» gli sforzi diplomatici che avvicinano Ankara e Erevan. Scambio di favori, appunto. Il presidente Usa è credibile, deciso e scaltro, ma sul «pazarlik» Erdogan gli tiene testa.
La STAMPA - Enzo Bettiza : " Chi ha paura del fantasma turco "
L’ombra della Turchia si è inserita, con tutto il suo peso enigmatico, nel primo incontro del neopresidente americano con i 27 leader dell’Unione europea. Il suo fantasma erratico si è profilato come un improvviso convitato di pietra al gran banchetto di Praga, rovinando l’atmosfera di festa e di apparente concordia tra la nuova amministrazione di Washington e il nucleo duro europeo, l’asse Sarkozy-Merkel, che aveva già preso le distanze da Obama nel corso del G20 di Londra.
La contrapposizione tra una Casa Bianca che invita gli europei ad aprire le porte ad Ankara e l’Eliseo che rifiuta di schiuderle ha fatto riemergere, di colpo, un nodo tradizionale e mai chiaramente sciolto delle politiche occidentali: nello scontro sulla questione turca tra Obama e Sarkozy si è ripetuto, pari pari, lo stesso dissidio già a suo tempo acuto tra Bush e Chirac. Il presidente francese ha ribadito per l’ennesima volta, con inequivocabile chiarezza, il veto di Parigi, mentre l’americano tornava a ribattere che l’unico modo di ancorare la Turchia all’Occidente era quello di farla entrare a pieno titolo nel concerto europeo. La cancelliera Merkel, pur appoggiando nella sostanza Sarkozy, nella forma è stata più levigata ricordando che l’Ue sta valutando tempi e modi di una trattativa graduale, che potrebbe garantire ai turchi una «partnership privilegiata» in alternativa all’adesione piena. Il presidente del Consiglio italiano, che vanta un’amicizia personale con il premier turco Erdogan, si è inserito una volta di più da mediatore nel gioco dei grandi ventilando il progetto di un compromesso di non facile attuazione: accettare l’ingresso di Ankara, rinviando però a data indeterminata l’alluvione dei migranti anatolici sui mercati di lavoro europei.
Tutti discorsi a lunga gittata politica e tecnica. Basti pensare che la scadenza di una possibile affiliazione della Turchia all’Europa, come partner o di socia, potrebbe scattare appena tra il 2015 e il 2017. Comunque, a parte il calendario, il problema resta serio e spinoso. La situazione interna in area anatolica è tutt’altro che chiara. Il partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan (Akp) è uscito severamente limato dal voto delle elezioni amministrative del 29 marzo, al quale il primo ministro dava un valore di referendum sul suo operato. Non battuto dai rivali, l’Akp è però sceso al 39% dal 47 raggiunto alle elezioni politiche del 2007, con la perdita di 12 città, tra cui due importanti centri urbani curdi nel Sud-Est del Paese.
Alle spalle di questa sottrazione elettorale, di sensibile valore simbolico e psicologico, rimangono tre problemi pesanti e sempre irrisolti: il rapporto del governo con l’incombente irredentismo dei partiti curdi, il rafforzamento dei gruppi fondamentalisti più aggressivi e, in particolare, la tensione mai spenta tra il partito dominante e il contropotere rappresentato dalle forze armate che si ritengono garanti del laicismo kemalista e non vedono di buon occhio né il capo del governo Erdogan né il presidente della Repubblica Abdullah Gul. I generali antireligiosi continuano in sostanza a diffidare dell’uno e dell’altro, sospettati di voler imporre con manovre morbide la legge della sharia e del velo banditi dal fondatore della Repubblica secolare, Atatürk.
Sul piano economico la Turchia di Erdogan, importante piattaforma di passaggio energetico per l’Europa, aperta all’economia di mercato, intenta agli scambi commerciali anche in questo periodo di crisi, è un Paese in sviluppo che merita attenzione e collaborazione dall’Ue. Ma la sua schizofrenia d’identità, oscillante tra costumi islamici di ritorno e codici democratici non sempre rispettati, suscita nella metà degli Stati europei impulsi di precauzione profilattica se non di rigetto. Si aggiunga la polveriera di Cipro, col divieto turco di aprire porti e scali a navi e aerei ciprioti greci, e si avrà un quadro d’insieme quanto mai problematico. Ecco perché i negoziati per l’associazione turca all’Europa, avviati tra mille cavilli e perplessità nel 2005, tendono ad allungarsi all’infinito.
In verità Erdogan e Gul, pur imponendo il velo alle rispettive mogli, hanno appianato diversi ostacoli per sgombrare la strada che un giorno potrebbe condurre 70 milioni di musulmani nell’ambito di Bruxelles. Purtroppo, sull’argomento che permane scottante, non c’è più oggi in Turchia l’unanimità d’una volta. Almeno un terzo di turchi, delusi dalle lungaggini del negoziato, urtati dai persistenti monitoraggi europei sui diritti civili delle minoranze etniche e religiose, non considerano più l’approdo comunitario come qualcosa d’inevitabile. Altresì mezza Europa non considera auspicabile l’aggregazione della Turchia, e il fronte del rifiuto assomma al «no» secco della Francia il «ni» ambiguo della Germania, le due locomotive di punta del recalcitrante convoglio europeo. Insomma, nonostante le molte e clamorose affermazioni di Erdogan, un tempo lodato come efficiente liberista dalla grande stampa anglosassone, il dubbio dopo le recenti elezioni amministrative è tornato a dilagare di là e di qua dai Dardanelli.
Intanto il dilemma che, da Bush a Obama, continua ad assillare gli americani, resta essenzialmente strategico e connesso all’incubo del terrorismo. Washington teme che la Turchia, abbandonata dall’Europa, possa sprofondare interamente nell’Asia minacciando di diventare con il suo notevole peso demografico e militare una delle più importanti e insidiose componenti dell’Islam contemporaneo. Già l’islamologo americano Daniel Pipes ammoniva: «Il fatto che un pezzetto del territorio turco sia in Europa non rende completamente europea la Turchia».
Il FOGLIO - " Un capo troppo ideologico "
Un fenomeno politico e culturale novissimo, un eccellente candidato, un talento nel guidare la macchina del consenso e un superbo oratore: sono già molte e belle, queste qualità. Ma per guidare il paese più potente del mondo in un mondo pieno di pericoli, oltre che di possibilità, ne manca una, la più importante: perizia nell’arte del comando. Puntare contro Obama è insano, e solo un gigante del potere e del cinismo come Dick Cheney se lo può permettere e se lo permette; ma qualcosa non ha funzionato come doveva nel recente viaggio europeo degli Obamas. A guardare oltre la cortina di seta dell’approvazione personale e di coppia, dello charme di conversazione, di quello specifico appeal che una famiglia presidenziale ben assortita può esibire e vendere, soprattutto se assistita dal simbolismo subliminale di una negritudine che infine si emancipa e si impone, emancipando noi tutti dal peggio della nostra storia, si intravede uno spazio vuoto in fatto di credibilità e di autorevolezza. Il successore di George W. Bush ha successo, intendiamoci. Piace, ispira, riunisce folle considerevoli nei town hall meeting e nelle piazze della vecchia Europa, e il mondo giovanile ecologista, pacifista, genericamente progressista in lui ha trovato un superguru Anche nel campo più esteso dell’opinione pubblica occidentale forgiata dai mass media gli Obamas sono oggi vincenti, persino imbattibili. E nella cerchia dei potenti del mondo, dove quel che decide è il gioco degli interessi, il nuovo presidente americano è meno temuto ma anche più rispettato del precedente. Però parlare di arroganza dell’America ai francesi e ai tedeschi aveva il sapore amaro di una demagogia pro domo sua, una forte caduta di stile, e per certi aspetti senza precedenti (Charles Krauthammer ha ricordato che John F. Kennedy non andò a Berlino a parlare male di Dwight D. Eisenhower). E recepire con tutta la coolness possibile lo schiaffo balistico- nucleare arrivato dal nordcoreano Kim Jong Il non basta a cancellarne gli effetti. Obama si è presentato come un leader troppo ideologico, troppo compreso nel ruolo di piacione globale, eppure non sono i pacifisti quelli da convincere. La deterrenza esercitata da un’autorità capace di mostrarsi conseguente nell’analisi e nell’azione è il primo strumento di stabilizzazione politica mondiale e di contenimento dei rischi a disposizione di un presidente americano. Obama deve imparare a usare quest’arma e a non renderla risibile per eccesso di retorica e di ideologia.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Usa e Islam, non c’è guerra fra noi "
«L’America non è e non sarà mai in guerra con l’Islam». Barack Obama parla ad Ankara per 25 minuti di fronte al Parlamento turco pronunciando un discorso mirato a diventare un pilastro della proiezione degli Stati Uniti nel mondo. Se nel giorno dell’insediamento a Washington il presidente si era rivolto ai musulmani augurandosi un dialogo basato su «comuni interessi e mutuo rispetto» ora ripete quell’espressione e poi va oltre, affronta il capitolo del conflitto contro Al Qaeda e dice: «La nostra partnership con i musulmani è importante non solo per opporsi al terrorismo, cerchiamo un coinvolgimento più ampio per superare le incomprensioni e cercare intese, saremo rispettosi anche quando ci saranno dei disaccordi».
La frase «gli Stati Uniti non sono e non saranno mai in guerra con l’Islam» è il frutto di oltre due mesi di riflessioni da parte del team di stretti consiglieri della Casa Bianca e punta a spiegare ai musulmani che la campagna militare contro Al Qaeda non implica un conflitto contro tutti i musulmani. Per sottolinearlo il presidente parla di sé: «Molti americani hanno dei parenti musulmani o sono vissuti in Paesi musulmani, lo so perché sono uno di questi». Se Obama ha scelto Ankara per lanciare questo messaggio è perché «in Turchia Occidente ed Oriente non si scontrano ma si incontrano».
Da qui la scelta di porre le basi per un’intesa di ampia portata con la Turchia del presidente Gul e del premier Erdogan, entrambi presenti in aula. I riferimenti alla «democrazia laica» creata dal fondatore Ataturk, al sultano ottomano Abdulmecid che contribuì a realizzare l’obelisco in memoria di George Washington e ai giocatori della Nba Hedo Turkoglu e Mehmet Okur, servono per far capire ai milioni di turchi di fronte al teleschermo che lo spessore dei legami bilaterali va ben oltre l’alleanza militare maturata durante la Guerra Fredda e che continua oggi dal Kosovo a Kabul.
È in ragione di questi valori comuni che Obama conferma il sostegno all’«entrata della Turchia nell’Unione Europea» perché «siete stati un alleato responsabile nelle istituzioni europee e transatlantiche» e anche per puntellare la strategia di apertura all’Islam: «La vostra entrata rafforzerebbe la diversità di etnie, fedi e tradizioni dell’Europa».
Obama plaude alle recenti leggi turche che garantiscono maggiori diritti alla minoranza curda e assicura il «pieno sostegno dell’America contro il terrorismo del Pkk come contro quello di Al Qaeda perché nessun tipo di terrorismo piò essere condonato». La frase contro il Pkk era stata concordata con Gul nell’ambito della trattativa per ottenere l’avallo alla nomina del danese Rasmussen alla guida della Nato e Obama mantiene la promessa perché vede in Ankara un «partner strategico» garante della stabilità regionale: nel Caucaso in quanto «ha pacifiche relazioni con tutte le nazioni», in Medio Oriente perché «condivide la soluzione dei due Stati, Israele e Palestina, in pace e sicurezza», a Cipro per una «riunificazione» basata sulla «federazione fra due comunità» e in Afghanistan-Pakistan «contro i terroristi» come anche sulla stabilizzazione dell’Iraq «inseparabile dal resto della regione» e sul no all’Iran dotato di armi nucleari, al quale chiede di scegliere fra «costruire la bomba e costruire la pace».
Il Parlamento lo applaude solo sei volte, e timidamente, perché aspetta le sue parole sul genocidio armeno, che durante la campagna elettorale condannò con vigore ma che in Turchia è tabù. Obama sceglie di essere assai prudente, limitandosi ad auspicare una «piena normalizzazione dei rapporti fra Turchia e Armenia» passando attraverso un «onesto esame del passato». La decisione di non parlare di «genocidio» solleva dubbi fra i media Usa ma trova il consenso turco e Gul lo esplicita ribadendo che si tratta di «una questione storica» che non deve entrare nella politica.
La REPUBBLICA - Marco Ansaldo : " Aria nuova alla Casa Bianca la Turchia si merita la Ue "
Orhan Pamuk, ha sentito che cosa ha detto il presidente americano Barack Obama: che la Turchia è unita all´Europa da più ponti, oltre a quelli sul Bosforo. Per caso lei rappresenta uno di questi legami? Nella sua bella casa di Istanbul, con la libreria zeppa di libri e la scrivania lunga colma di penne e fogli, il Nobel turco per la letteratura è, come tanti oggi, davanti alla tv. Le immagini scrutano passo dopo passo il leader americano, in visita ufficiale in Turchia nel suo primo viaggio in un Paese islamico, senza perdersi una parola. Ma Obama non pronuncia il temuto termine "genocidio" sui massacri armeni di inizio Novecento, e per la seconda volta in due giorni ribadisce il suo «pieno appoggio alla candidatura di Ankara nella Ue».
Pamuk tiene lo sguardo fisso sul video, ed è consapevole di essere guardato come la personalità turca oggi di maggiore rilievo nel mondo. Scrive della Turchia come di un paese ricco di intrecci storici e culturalmente all´incrocio fra Oriente e Occidente. E parlando pesa ogni parola. «Sì, sto seguendo il discorso del leader americano in Parlamento - dice - non voglio commentare nel merito, ma mi fa piacere riferirmi a Obama. Sono molto contento che gli Stati Uniti lo abbiano eletto come presidente. La notte delle elezioni mi trovavo proprio in America. Ho trascorso quelle ore a New York insieme con alcuni professori della Columbia University, dove insegno ogni anno per un quadrimestre. Tutta gente di orientamento liberale, un gruppo di amici. Ora sarà interessante».
Ad Ankara Obama guarda il premier Erdogan, dice di «voler essere chiaro», e afferma: «Non siamo in guerra con l´Islam». Lo scrittore de �Il libro nero´, �Il castello bianco´ e ora di �Altri colori´, osserva lo schermo terminate le consuete sette ore di scrittura quotidiana. Non ha mai nascosto la sua opposizione alla presidenza di George W. Bush, nonostante la moglie Laura avesse rivelato di tenere i suoi libri sul comodino. E più volte si è espresso «contro l´intervento dei soldati in Iraq». Ma Pamuk ama molto l´America. Lì ha cambiato, a un certo punto del suo percorso, il suo approccio alla scrittura. Lì ha ricevuto la notizia della vittoria al Nobel. Adesso ci trascorre tre-quattro mesi all´anno. Ovviamente ha la sua visione di scrittore, sulle questioni politiche. Difatti a un certo punto esclama: «Sono contento di Obama. Ma io non investo le mie speranze per il futuro, le mie speranze per l´umanità, sui presidenti americani». Attenzione dunque, avverte, a non confondere le legittime pulsioni per un mondo migliore puntando solo sulla politica, persino quella che al momento appare più innovativa. Pamuk torna anzi a battere su un tasto per lui fondamentale, un´iperbole cara: solo i libri possono salvare il mondo.
La Turchia e il tema del suo contrastato ingresso in Europa, soprattutto da parte di Francia e Germania, sono tuttavia l´argomento ripreso domenica da Nicolas Sarkozy e Angela Merkel con il loro ripetuto �no´. Un tema ben noto all´autore di �Istanbul´, e tante volte affrontato in passato. Con un giudizio da cui non si discosta: «Se l´Europa è esclusivamente un club cristiano, allora la Turchia non ha nulla a che fare con l´Europa. Ma se l´Europa è basata sui criteri del Rinascimento, e la Francia sui principi di libertè, fraternitè, egalitè, allora la Turchia deve trovare qui il suo posto».
Lo scrittore è appena rientrato dall´ennesimo giro all´estero. Conferenze e letture lo hanno portato ancora una volta lontano. Questa volta da New Delhi fino a Rouen, città natale di Gustave Flaubert, dov´è stato premiato. «In India ho trascorso un mese intero e sono stato felice. Ho anche cominciato un nuovo romanzo. Ho scritto molto e il lavoro procede davvero bene». Alcuni giornali turchi hanno avanzato l´ipotesi che la prossima opera del loro autore più celebrato riguardi da vicino l´India. «Quando ero a Bombay-Mumbai - continua Pamuk tornando all´attualità - durante una conferenza stampa c´erano tanti giornalisti locali che insistevano per conoscere la mia opinione sul nuovo presidente americano. Oggi posso dire che sono contento che ci sia lui alla Casa Bianca».
La STAMPA - Marco Zatterin : " Energia e rapporti con l'Asia, con Ankara saremo più forti "
«Può richiamare più tardi? Sto visitando un alloggio a Istanbul». Joost Lagendjik ha deciso di cambiare vita. Non si ricandiderà per la quarta volta all’Europarlamento e andrà a vivere sul Bosforo. «Ho guidato per sette anni la delegazione Ue-Turchia, abbiamo fatto un buon lavoro, però i meccanismi istituzionali non consentono di approfondire gli argomenti», confessa il 51enne deputato verde di Roosendaal.
C’è un nuovo scontro Usa-Francia sull’adesione della Turchia all’Ue. Sorpreso?
«La posizione di Obama è in perfetta continuità con Bush e Clinton. Eppure ha usato un argomento inedito: la necessità di un segnale forte all’Islam. Un cruciale passo avanti per l’America».
Come convincere gli europei?
«L’argomento più forte è quello strategico: l’Europa sarebbe molto più forte se includesse la Turchia».
Perché?
«Tre questioni di equilibrio. La prima è che lo stesso Sarkozy è stato impressionato dalla rapidità e dalla qualità del ruolo di Ankara nel conflitto in Georgia. La seconda è energetica: per diminuire la dipendenza dalla Russia bisogna far passare il gas dalla Turchia. Infine, se l’Ue vuole avere relazioni più forti col Medio oriente, l’Iran e l’Asia centrale, Ankara è essenziale».
Lei dice che si può fare. Quando?
«Quando saranno risolte questioni come quella curda e armena e dei diritti fondamentali. Non lo faranno solo perché lo chiede l’Europa, c’è spinta dall’interno».
In anni quanto fa?
«8-10 a essere ottimisti. I problemi sono complessi e c’è una robusta minoranza contraria all’adesione».
La STAMPA - Marta Ottaviani : " L'Europa non ha capito il nostro ruolo strategico "
ISTANBUL
Un nuovo asse geopolitico che l'Europa non ha ancora capito. Questo il risultato della visita di Obama al parlamento di Ankara ieri visto da Gun Kut, docente di Relazioni Internazionali all’Università del Bosforo di Istanbul.
Obama ha sostenuto l'ingresso della Turchia nell’Ue. Crede che nazioni ostili come Francia e Germania abbiano recepito il messaggio?
«Sì ma serve a poco perché la loro è un opposizione meramente ideologica. Finché politici come Sarkozy e la Merkel staranno al loro posto l'ingresso della Turchia non è possibile».
Obama è stato molto positivo anche sulla questione armena, anche più delle aspettative: la riconciliazione ora è possibile?
«No finché non si risolverà il conflitto fra Armenia e Azerbaigian, da anni in lotta per il Nagorno-Karabakh. Credo che i colloqui fra Gul e Obama si siano concentrati proprio sull’appoggio americano all'Azerbaigian per porre le fondamenta alla pacificazione dell’area».
Gli Usa hanno investito la Turchia di una nuova e grande importanza, l’Europa stenta a riconoscerla, come mai?
«L’Europa non ha una politica estera che programma sul lungo termine. Non ha una visione strategica delle relazioni internazionali ma solo in chiave regionale. Altrimenti avrebbe dato più peso a questo Paese da tempo».
Crede che questo nuovo peso equivarrà anche a nuove condizioni come per la nomina di Rasmussen a capo della Nato?
«La Turchia si è opposta inizialmente a Rasmussen per le sue posizioni sul mondo musulmano. Che poi fra lui ed Erdogan i rapporti potranno rimanere freddi per fatto personale è altro discorso».
L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Bene la svolta Usa. Ora Barack porti la pace in Palestina "
La scrittrice egiziana Nawal El Saadawi afferma, riguardo le dichiarazioni di Obama sulla pace in Medio Oriente, che " Questa deve essere la priorità assoluta nella sua politica estera. La nascita di uno Stato indipendente in Palestina: questo è il banco di prova per Barack Obama agli occhi di milioni di arabi e musulmani. Qui va consumata la rottura con i suoi predecessori che hanno sempre coperto ogni crimine di Israele. Questa impunità deve finire. Obama parla di Muri da abbattere, di Prigioni da aprire...Ebbene, inizi dalla Cisgiordania, dal muro dell’apartheid realizzato da Israele, e ponga fine alla prigionia dei palestinesi di Gaza. Se lo farà, Obama passerà alla storia, e resterà nei cuori di milioni di arabi. Che chiedono giustizia per i fratelli palestinesi, e non certo la distruzione d’Israele". L'idea che Israele non commetta un crimine quando si difende dalle aggressioni subite dagli Stati arabi che la circondano non sfiora nemmeno la mente di Nawal El Saadawi che si scaglia contro il muro in Cisgiordania (innalzato per difendere la popolazioni civile dagli attentati terroristici palestinesi) e le prigioni (nelle quali sono detenuti criminali, non innocenti). Le dichiarazioni della scrittrice assomigliano a quelle dei leader di Hamas.
Ecco l'intervista:
Barack Hussein Obama «ha parlato di dialogo, della necessità di ascoltare. Ha sottolineato che gli Stati Uniti non sono in guerra con l’Islam. Parole importanti, tanto più significative perché rappresentano una svolta, credo non solo lessicale, rispetto al vocabolario della diffidenza e dell’odio del suo predecessore, George W.Bush». A parlare Nawal El Saadawi, l’autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo arabo, la scrittrice egiziana, 78 anni, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. «Obama - afferma Nawal El Saadawi - è il primo leader di un mondo globalizzato. Lui parla di un mondo più giusto, senza più muri...Il suo primo banco di prova sarà in Palestina, doveunpopolo ingabbiato, oppresso, martoriato, invoca libertà e diritti. Questa istanza di libertà va raccolta». Da Istanbul, Obama ha lanciato un messaggio di dialogo e di cooperazione al mondo islamico. «Quel messaggio va raccolto e sviluppato. Le parole sono importanti, e Obama ha usato quelle giuste. Parole impegnative, pesanti: dialogo, ascolto, parità...Quella che ha lanciato è anche una doppia sfida...». Chi ne sono i destinatari? «I fondamentalisti oscurantisti, quelli che odiano le donne, che pretendono di imporreuna società sessuofobica, chiusa, violentemente teocratica.Mal’altra sfida che le parole di Obama sottendono è perme non meno importante e risolutiva. È la sfida alle élite politiche, militari, familistiche da sempre al potere nel mondo arabo e musulmano. La sfida a quei regimi che hanno dilapidato ricchezze, fiducia, che hanno fatto scempio dei diritti individuali e collettivi. Un futuro di libertà e di riscatto per l’Islam secolarizzato passa inevitabilmente per la sconfitto di un potere che ha come unico interesse il suo perpetuarsi all’infinito ». Neldiscorsodi Istanbul,Obamaharilanciato ilsuoimpegnoper la pace in Medio Oriente. «Questa deve essere la priorità assoluta nella sua politica estera. La nascita di uno Stato indipendente in Palestina: questo è il banco di prova per Barack Obama agli occhi di milioni di arabi e musulmani. Qui va consumata la rottura con i suoi predecessori che hanno sempre coperto ogni crimine di Israele. Questa impunità deve finire. Obama parla di Muri da abbattere, di Prigioni da aprire...Ebbene, inizi dalla Cisgiordania, dal muro dell’apartheid realizzato da Israele, e ponga fine alla prigionia dei palestinesi di Gaza. Se lo farà, Obama passerà alla storia, e resterà nei cuori di milioni di arabi. Che chiedono giustizia per i fratelli palestinesi, e non certo la distruzione d’Israele». Obama dovrà fare i conti con il nuovo ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman. «Holetto le sue dichiarazioni. Sono quelle di un falco che ha in odio i palestinesi, che se fosse per lui deporterebbe in massa dalla Cisgiordania. Il vocabolario dei Liebermannoncontempla parole comerispetto, dignità, compromesso... Spero che Obama non faccia sconti a questo governo di falchi, se davvero vuole realizzare la pace di cui parla e porre fine a quella odiosa politica dei due pesi e due misure che nel garantire totale impunità a Israele ha finito anche per portare tanta acqua al mulino dei gruppi fondamentalisti nel mondo arabo »
Il FOGLIO - " L’esame euroturco"
La questione dell’integrazione della Turchia nell’Unione europea, per i suoi profili non solo economici, ma simbolici, giuridici e persino religiosi, rappresenta un test politico di prima grandezza. L’insistenza del presidente americano su questo tema, le reazioni polemiche che ha suscitato nei governi francese e tedesco, rendono la posizione dell’Italia particolarmente importante e delicata. I governi di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi hanno sempre confermato il sostegno all’adesione turca, mentre quello di Massimo D’Alema è inciampato immediatamente nella vicenda dell’asilo concesso e poi ritirato al leader del Partito comunista curdo. Prodi e Berlusconi hanno insistito, pur consapevoli delle fratture che questa scelta determinava nella loro maggioranza, nei confronti di Rifondazione il primo, della Lega il secondo. Ora che il problema si ripresenta in termini parzialmente nuovi sarebbe utile che le forze politiche si esprimessero con chiarezza. La Lega insiste nella sua obiezione all’ingresso di un grande paese islamico nell’Ue, ma dovrebbe far capire se su questo tema, oltre che un lucro propagandistico, intende ottenere un risultato effettivo. Il Partito democratico, dopo aver giocherellato con le polemiche sulla presunta gaffe di Berlusconi in collegamento telefonico col premier turco, dovrebbe dire se sta con Obama (e quindi col Cav.) o con l’asse superscettico francotedesco. Si tratta di decidere se, integrando la Turchia, l’Unione accresce il suo peso internazionale e può esercitare una funzione più attiva in direzione dei paesi islamici per evitare che cadano uno dopo l’altro nella rete del fondamentalismo estremista, oppure se, al contrario, perderebbe la compattezza culturale su cui si può costruire un’effettiva comunità politica. Non è una scelta semplice e anche chi propende per l’integrazione non nasconde i pericoli e le difficoltà. Chi lamenta, a ragione o a torto, una scarsa autorevolezza della politica estera italiana ha il dovere morale di parlare chiaro su un tema così rilevante.
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