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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
05.04.2009 E' un terrorista, ma vorrebbe esserlo di più
L'analisi di Guido Olimpio e la cronaca di Ennio Caretto

Testata: Corriere della Sera
Data: 05 aprile 2009
Pagina: 19
Autore: Guido Olimpio-Ennio Caretto
Titolo: «Il leader che rivendica tutto per sentirsi Osama»

Sulla strategia mediatica del terrorismo, il CORRIERE della SERA di oggi, 05/04/2009, a pag. 19, pubblica una interessante analisi di Guido Olimpio, alla quale facciamo seguire la cronaca di Ennio Caretto.

Guido Olimpio- " Il leader che rivendica tutto per sentirsi Osama"

WASHINGTON — Baitullah Meh­sud è un uomo che non va sottovalu­tato. È sospettato per l’attentato alla Bhutto, sulla sua testa c’è una taglia di 5 milioni di dollari, gli aerei senza pilota americani lo braccano senza sosta.

Da pochi mesi è diventato il lea­der della nuova santa alleanza taleba­na. Una coalizione di estremisti pa­chistani, afghani, qaedisti. Dunque davvero un personaggio temibile che, malgrado diversi problemi di salute, è in grado di orchestrare le azioni kamikaze. O, ancora, di usare militanti, magari con passaporto eu­ropeo, per colpire in Occidente. I se­gnali ci sono. E forse il presidente Obama pensava a lui quando, in un recente discorso, ha avvertito: «Stan­no preparando in Pakistan attacchi contro Usa e Europa».

Per Mehsud si è trattato di un’ulte­riore consacrazione del suo ruolo di cattivo. In questi giorni il suo nome oscura il fantasma Bin Laden. Anche su un campo dove Osama ha sem­pre primeggiato: quello della propa­ganda. Pochi giorni fa Baitullah ha minacciato imminenti azioni sul ter­ritorio americano: colpiremo anche la Casa Bianca. Nel 2007, davanti al­le telecamere di Al Jazeera, aveva an­nunciato «i miracoli della Jihad», os­sia attentati a New York, Washin­gton e Londra. Ieri lo ha fatto di nuo­vo assumendosi la responsabilità della strage a Binghamton sostenen­do che sono stati i suoi «uomini» a sparare. Un’uscita che gli ha guada­gnato titoli e news dall’Asia all’Euro­pa.

La fanfaronata conferma che Meh­sud, non contento di essere nella li­sta dei Most Wanted, vuole più co­pertura mediatica. Il sangue che sparge tra Afghanistan e Pakistan,
evidentemente, non è sufficiente. E dunque imita Osama e Ayman Al Zawahiri, diventa un professionista della rivendicazione, mette cappello su quello che è avvenuto o su quello che verrà. È successo tante volte nel post-11 settembre. Le bombe di Lon­dra, il famoso blackout di New York, i devastanti incendi in Austra­lia sono divenute occasioni buone per dire «siamo stati noi».

Per anni i talebani hanno visto i mass media, la tv e le radio come qualcosa di demoniaco. Poi hanno capito che per farsi sentire le bombe non bastano, specie se scoppiano in
zone dove la violenza è endemica. Serve la parola, la propaganda, il messaggio portato dai Tg, tutte le se­re, nelle case dei nemici. E la tecnolo­gia — dai telefoni satellitari a Inter­net — permettono anche ad un lati­tante di rubare la scena.

Bin Laden lo aveva compreso da un pezzo. Il suo «ufficio stampa» la­vorava già a pieno ritmo con compu­ter e telecamere nel 1996. E il leader rilasciava interviste, tracciava scena­ri, annunciava guerre. Pochi gli da­vano retta.

C’è voluto l’attacco alle Torri Ge­melle per far cambiare idea a chi lo guardava con sufficienza. Poi è se­guito un diluvio di discorsi di Bin La­den, di apparizioni in video, di mes­saggi registrati. Ma si sa che la trop­pa esposizione ti brucia. E Osama parlando tanto e facendo poco — in termini di attacchi — è divenuto me­no credibile. «Persino irrilevante» af­fermano alcuni esperti. Mehsud aspira a WASHINGTON — Ha fatto irruzione nella sede dell’Ame­rican civic association di Bin­ghamton come un terrorista, con due pistole in pugno, il giubbotto antiproiettile ad­dosso, e ha aperto il fuoco al­l’impazzata, senza pronuncia­re parola.

Ma Jiverly Wong, il vietna­mita naturalizzato america­no che ha assassinato 13 per­sone nel centro d’accoglien­za immigrati della pacifica cittadina dello Stato di New York, e si è poi suicidato, non era collegato ai tabeba­ni, come invece rivendicato da un loro leader in Paki­stan, Baitullah Mehsud. «Era un folle e un codardo — ha dichiarato il capo della poli­zia Joseph Zikusky —:aveva preparato la strage, ma quan­do ha sentito le sirene, si è tolto la vita. Smentisco che sia stato terrorismo».

Che cosa abbia spinto all’ec­cidio Wong, 41 anni, da 14 in America, non è ancora chiaro. Forse il crollo del suo «Ameri­can dream», dovuto alla scarsa conoscenza dell’inglese, al suo crescente isolamento, alla per­dita negli ultimi anni di tre po­sti di lavoro, il primo all’Ibm (ma non è certo), il secondo co­me camionista in California, il terzo al SopVac, una ditta di elettrodomestici, alla ossessio­ne che gli americani gli man­cassero di rispetto.

Due ex colleghi, Kevin Gre­en e Donald Ackley, hanno det­to al
Daily News che «era un solitario che ce l’aveva con il nostro Paese, che parlava solo di armi e ogni sabato andava al tiro a segno, e che una volta mi­nacciò di uccidere il presiden­te ». «Ci chiedevamo — hanno aggiunto — se sarebbe stato ca­pace di compiere un massa­cro ». Zikuski non ha fatto ipo­tesi sui motivi della furia omi­cida di Wong, che riscuoteva 200 dollari settimanali di disoc­cupazione e viveva con il pa­dre e la sorella, ma ha spiegato che l’Fbi ne sta tracciando il ri­tratto psicologico. Ha confer­mato che possedeva le due pi­stole da una dozzina di anni, e che fino a marzo aveva fre­quentato l’American civic asso­ciation.

Potrebbe essere stata un’atroce vendetta la sua, tan­to più assurda in quanto perpe­trata contro i suoi pari, che avrebbe fatto molte più vitti­me se una volontaria del cen­tro, l’italo-americana Shirley DeLucia, ferita al ventre, non avesse simulato la morte e chiamato la polizia. La donna e altri tre feriti gravi ora sono fuori pericolo.

Il centro non chiuderà i bat­tenti. Per l’America e per il mondo degli immigrati — i morti provenivano da 9 Paesi
diversi — il trauma è intollera­bile. Il mese scorso, in analo­ghe stragi erano morte 44 per­sone, 11 in Alabama. A Oak­land in California, il 21 marzo, erano già caduti in uno scon­tro a fuoco con un criminale 4 agenti. Bagni di sangue che stanno costringendo l’America del tempo della crisi finanzia­ria a interrogarsi sulla sua la­tente ed esplosiva violenza, e la libertà di circolare armati.
seguire le orme del Mae­stro, ma per farlo ha bisogno del suo 11 settembre. Intanto uccide nel suo «cortile di casa» e pratica la Jihad della parola.

Ennio Caretto- " Nostra la strage negli Usa, ma l'Fbi non crede ai talebani"

WASHINGTON — Ha fatto irruzione nella sede dell’Ame­rican civic association di Bin­ghamton come un terrorista, con due pistole in pugno, il giubbotto antiproiettile ad­dosso, e ha aperto il fuoco al­l’impazzata, senza pronuncia­re parola.

Ma Jiverly Wong, il vietna­mita naturalizzato america­no che ha assassinato 13 per­sone nel centro d’accoglien­za immigrati della pacifica cittadina dello Stato di New York, e si è poi suicidato, non era collegato ai tabeba­ni, come invece rivendicato da un loro leader in Paki­stan, Baitullah Mehsud. «Era un folle e un codardo — ha dichiarato il capo della poli­zia Joseph Zikusky —:aveva preparato la strage, ma quan­do ha sentito le sirene, si è tolto la vita. Smentisco che sia stato terrorismo».

Che cosa abbia spinto all’ec­cidio Wong, 41 anni, da 14 in America, non è ancora chiaro. Forse il crollo del suo «Ameri­can dream», dovuto alla scarsa conoscenza dell’inglese, al suo crescente isolamento, alla per­dita negli ultimi anni di tre po­sti di lavoro, il primo all’Ibm (ma non è certo), il secondo co­me camionista in California, il terzo al SopVac, una ditta di elettrodomestici, alla ossessio­ne che gli americani gli man­cassero di rispetto.

Due ex colleghi, Kevin Gre­en e Donald Ackley, hanno det­to al
Daily News che «era un solitario che ce l’aveva con il nostro Paese, che parlava solo di armi e ogni sabato andava al tiro a segno, e che una volta mi­nacciò di uccidere il presiden­te ». «Ci chiedevamo — hanno aggiunto — se sarebbe stato ca­pace di compiere un massa­cro ». Zikuski non ha fatto ipo­tesi sui motivi della furia omi­cida di Wong, che riscuoteva 200 dollari settimanali di disoc­cupazione e viveva con il pa­dre e la sorella, ma ha spiegato che l’Fbi ne sta tracciando il ri­tratto psicologico. Ha confer­mato che possedeva le due pi­stole da una dozzina di anni, e che fino a marzo aveva fre­quentato l’American civic asso­ciation.

Potrebbe essere stata un’atroce vendetta la sua, tan­to più assurda in quanto perpe­trata contro i suoi pari, che avrebbe fatto molte più vitti­me se una volontaria del cen­tro, l’italo-americana Shirley DeLucia, ferita al ventre, non avesse simulato la morte e chiamato la polizia. La donna e altri tre feriti gravi ora sono fuori pericolo.

Il centro non chiuderà i bat­tenti. Per l’America e per il mondo degli immigrati — i morti provenivano da 9 Paesi
diversi — il trauma è intollera­bile. Il mese scorso, in analo­ghe stragi erano morte 44 per­sone, 11 in Alabama. A Oak­land in California, il 21 marzo, erano già caduti in uno scon­tro a fuoco con un criminale 4 agenti. Bagni di sangue che stanno costringendo l’America del tempo della crisi finanzia­ria a interrogarsi sulla sua la­tente ed esplosiva violenza, e la libertà di circolare armati.

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