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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
01.04.2009 Stretta di mano fra Usa e Iran
L'analisi di Franco Venturini, la cronaca di Andrea Nicastro, l'intervista di Alessandra Farkas a Shirin Ebadi, un articolo del Foglio

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Franco Venturini - Andrea Nicastro - Alessandra Farkas
Titolo: «Stati Uniti e Iran: scommessa ad alto rischio - Stati Uniti e Iran, la prima stretta di mano - Washington e Teheran seppelliscano il passato - 'Caro Obama, tratta ora con l’Iran. Dopo sarà troppo tardi'»

Ieri c'è stata la conferenza all'Aja sull'Afghanistan. Per la prima volta da trent'anni Stati Uniti e Iran hanno avuto un contatto diretto. Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/04/2009, a pag. 1-32, l'analisi di Franco Venturini dal titolo " Stati Uniti e Iran: scommessa ad alto rischio ", a pag. 14, la cronaca di Andrea Nicastro dal titolo " Stati Uniti e Iran, la prima stretta di mano ", a pag. 15 l'intervista di Alessandra Farkas a Shirin Ebadi dal titolo " Washington e Teheran seppelliscano il passato " e dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " 'Caro Obama, tratta ora con l’Iran. Dopo sarà troppo tardi'", con le dichiarazioni di alcuni deputati democratici preoccupati per la corsa al nucleare iraniana.

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Stati Uniti e Iran: scommessa ad alto rischio "

Più dell’incontro politico avuto dall’inviato presidenziale Holbrooke con il vice-ministro Akhundzadeh, e più della lettera «umanitaria» che una prudente Hillary Clinton ha fatto pervenire al rappresentante di Teheran seduto pochi metri più in là, a rompere il silenzio che tra Usa e Iran durava da trent’anni è stata ieri la semplice presenza all’Aja di una delegazione iraniana.
L’invito pubblico a partecipare alla conferenza sull’Afghanistan, del tutto inatteso, era giunto il 5 marzo proprio dalla Clinton. E il palese imbarazzo degli iraniani, nei giorni seguenti, aveva confermato che la dirigenza di Teheran era alle prese con una scelta difficile. Occorreva proseguire sulla via del confronto duro tracciata da Ahmadinejad, oppure stringere la mano che Barack Obama tendeva per procura? Il dilemma è stato sciolto, e ieri ha portato all’incontro bilaterale di più alto livello che Usa e Iran abbiano avuto dai tempi della crisi degli ostaggi nel 1979. Tutto questo è «promettente», ha osservato Hillary Clinton. Ma se il muro dell’incomunicabilità tra America e Iran è stato abbattuto, resta da vedere quali siano le strategie a più lungo termine delle due parti. E resta da verificare, soprattutto, se Barack Obama non si stia cacciando in una trappola micidiale.
La buona volontà del Presidente Usa ha obbiettivi chiari. Distinguersi da Bush.
Ottenere l’importante collaborazione iraniana nel disimpegno dall’Iraq e nello sforzo «prioritario» della Casa Bianca per stabilizzare
Afghanistan e Pakistan. Far progredire passo dopo passo una rete di interessi comuni che dovrebbe modificare l’atteggiamento iraniano nei focolai di crisi mediorientali (Libano e Gaza). E infine, una volta costruita la cornice del dialogo, affrontare in un clima diverso la questione-chiave delle ambizioni nucleari di Teheran.
La posta complessiva è altissima, e per questo Obama ha spinto sull’acceleratore affidando le sue proposte a un video tanto rivoluzionario quanto marcatamente distensivo.
Una boccata d’ossigeno, rispetto alla politica di Bush. Ma la strategia del nuovo Presidente, pur carica di speranze, ha un punto debole che si chiama Iran.
La prima richiesta è arrivata da Teheran a stretto giro di posta: oltre alle parole vogliamo i fatti, gli Usa dimostrino in concreto di essere disposti a cambiare linea e a quel punto cambieremo anche noi. Il che equivale a sollecitare concessioni già nella fase esplorativa, prima che un eventuale confronto negoziale possa cominciare.
Cosa farà Obama? Potrà continuare a seguire, come ha fatto sinora, il doppio binario delle offerte di dialogo e del
contemporaneo rafforzamento delle sanzioni economiche contro Teheran? Se vorrà procedere nel suo tentativo è probabile che la Casa Bianca decida presto o tardi di offrire all’Iran qualche pegno concreto di disgelo.
Verosimilmente dopo le elezioni presidenziali di giugno, e nella speranza che Ahmadinejad non venga rieletto.
Gli iraniani, con o senza Ahmadinejad, avrebbero a quel punto ogni interesse ad alimentare la prima parte del disegno di Obama: collaborazione in Iraq, collaborazione in Afghanistan malgrado la «negativa presenza di truppe straniere», forse meno finanziamenti a Hezbollah e a Hamas. In cambio di sostanziosi incentivi sotto forma di riduzione delle sanzioni anche finanziarie, garanzie di sicurezza, riconoscimento dello status di potenza regionale, esplicita rinuncia ad ogni programma americano di
regime change a Teheran.
Con qualche problema di dosaggio il gioco della carota e del bastone potrebbe funzionare ancora una volta, reciprocamente.
Ma siamo sicuri che l’Iran, con o senza Ahmadinejad, con o senza incentivi economici e geopolitici, sia
disposto a rinunciare all’arricchimento dell’uranio in casa propria? Prima di acquisire una effettiva capacità nucleare, ovvero entro un anno o due?
L’ipotesi non è esclusa, ma non è nemmeno probabile. Ammesso e non concesso che il disimpegno dall’Iraq proceda come previsto, non sarà l’aiuto iraniano a rendere meno drammatica la situazione in Afghanistan. E Teheran, dopo essere stata corteggiata, dopo aver scambiato con l’America concessioni di valore ineguale nell’ambito della politica del passo dopo passo, potrebbe decidere di continuare ad alimentare le sue ambizioni nucleari con conseguenti pericoli per Israele e drammatiche ricadute in termini di proliferazione.
Questa è pura teoria, si dirà, e Obama ha ragione a tentare quel che Bush non ha mai tentato.
Concordiamo in pieno. A condizione di sapere che la mano tesa, se di fronte ci sono i sofisticati e tenaci iraniani, può portare alla pace ma anche a una guerra derivante dal fallimento delle altre opzioni. Quella di Obama, più che una strategia, è una scommessa ad alto rischio. Speriamo che la vinca, partendo da quella mano di Holbrooke finalmente stretta ieri.

CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " Stati Uniti e Iran, la prima stretta di mano "

L’AJA — Una stretta di mano e le prove di pace tra Stati Uniti e Repubblica Islamica di Iran van­no avanti. Le mani sono quella dell’americano Richard Holbroo­ke, inviato speciale di Washin­gton per Afghanistan e Pakistan, e quella del vice ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Mehdi Akhoundzadeh. I due si sono incontrati nei corridoi della Conferenza Internazionale del­l’Aja sull’Afghanistan. Non è da­to sapere chi abbia allungato il braccio per primo, ma dopo trent'anni di rottura a tutti i livel­li, le timide «cordialità» di ieri (la definizione è di Hillary Clin­ton) segnano la differenza tra l’amministrazione Obama e quel­la Bush, tra il pragmatismo di og­gi e l’ambizione globale di ieri. La Clinton parla di «segnale mol­to promettente» ed elogia Tehe­ran perché ha «idee molto chiare e gli Stati Uniti troveranno il mo­do di cooperare». Gli iraniani, con il loro vice ministro degli Esteri, sono più cauti, ma aprono la porta alla cooperazione con il «Grande Satana» su temi specifi­ci: «per combattere il traffico di droga e per lo sviluppo dell'Af­ghanistan ». La Conferenza del­l’Aja segna il trionfo della nuova strategia obamiana per la «guer­ra che non possiamo perdere» in Afghanistan. Le nuove parole d’ordine americane hanno con­vinto tutti. La soluzione non è so­lo militare, ma dev’essere anche economica, politica (attraverso la riconciliazione con i talebani moderati) e allargata all’intera re­gione, Pakistan, Iran e Russia in­clusi. La ricostruzione, ha accusa­to Hillary, non si ottiene se il go­verno afghano (cioè Karzai stes­so) non si libera della corruzione e dell’inefficienza che l’hanno ca­ratterizzato negli anni. Un tale esecutivo è, nelle parole della Clinton, «il miglior strumento di reclutamento per i terroristi». De­cisamente Karzai non è più l’in­terlocutore unico di Washin­gton. Ora il dialogo è a tutto cam­po. «Chi rompe con Al Qaeda, ri­nuncia alla violenza e accetta la Costituzione — dice Hillary — deve ottenere una onorevole for­ma di reintegrazione» nella vita politica. Quando due anni fa lo disse Piero Fassino, venne zittito all’istante.

«Si passa dal tentativo di con­quistare 'menti e cuori' a quello di conquistare 'mente, cuore e stomaco' — sostiene Ettore Se­qui, uno dei diplomatici più esperti di Kabul e dintorni, oggi speciale rappresentante dell’Ue in Afghanistan (in pratica l’Hol­brooke europeo) —. C’è un’enfa­si inedita sull’economia e in par­ticolare sull’agricoltura. Ora si ra­giona così: se il governo non for­nisce i servizi essenziali, permet­te ai talebani di farlo. Se non ci sono giudici affidabili arrivano 4 talebani in motocicletta e orga­nizzano il processo. Se non c’è la­voro, ci si arruola in qualche mili­zia. Se non c’è acqua si coltiva op­pio. Non è accettabile. Bisogna invece portare lavoro e acqua. Stessa logica nell’allargamento regionale del problema. Faccio l’esempio dell’oppio, ma vale an­che per terrorismo e commercio: tutti i Paesi vicini soffrono per la diffusione della droga afghana, dobbiamo sforzarci di trovare il modo perché collaborino alla so­luzione nel loro stesso interes­se ».

CORRIERE della SERA - Alessandra Farkas : " Washington e Teheran seppelliscano il passato "

NEW YORK — «Il ponte lanciato da Barack Obama a Teheran sta già dando i suoi frutti». All'indomani dell'incontro alla Conferenza dell’Aja tra l'inviato Usa Richard Holbrooke e il viceministro iraniano Mohammed Mehdi Akhoundzadeh (il vice mini­stro degli Esteri iraniano era seduto allo stesso tavolo del segretario di Stato Hillary Clinton), Shirin Ebadi è ottimista.
«Dalla rivoluzione islamica in poi i rapporti tra i due Paesi sono stati all'insegna dell'ostilità», spiega il Pre­mio Nobel per la Pace attraverso la sua interprete farsi Ella Mohamma­di. «Ogni volta che un presidente americano si è rivolto all'Iran, lo ha fatto in tono ostile, accompagnato da minacce. Obama è il primo a mo­strarsi genuinamente amichevole: una svolta di portata storica».
Però Obama ha anche po­sto delle condizioni dicen­do che l'Iran non potrà ot­tenere il rango internazio­nale che gli spetta «attra­verso il terrorismo o le ar­mi.
«Tali condizioni non dovreb­bero valere solo per l'Iran ma per tutti i Paesi del mondo. Gli Stati Uni­ti prima debbono rinunciare alla poli­tica del doppio standard che permet­te loro di criticare Teheran, essendo poi amici di nazioni che sostengono il terrorismo e hanno le armi nuclea­ri ».
La valenza simbolica del gesto di Obama?
«Enorme: Obama ha di fatto posto fine all'odiosa tesi 'bushiana' dell' Iran come Paese dell'asse del male».
Come giudica la risposta dei lea­der iraniani?
«Avrebbero potuto reagire con un' ottica più positiva e aperta. Poteva­no mostrarsi disponibili, invece so­no stati freddi».
Non c'è il rischio, adesso, di un interminabile ping pong di recipro­che richieste di ammenda?
«Per gettare le basi di un nuovo inizio, entrambi i Paesi devono sep­pellire il passato. Gli americani deb­bono mettere una pietra sopra la fa­migerata crisi degli ostaggi e noi ira­niani dobbiamo dimenticare il colpo di stato organizzato dalla Cia nel 1953 per rovesciare il governo del primo ministro Mohammad Mossa­deq, facendo tornare lo Scià».
E se l'Iran prosegue con i suoi piani per la controversa centrale atomica di Bushehr?
«Lo scoglio principale nei rappor­ti Usa-Iran è la loro politica estera che deve cambiare. Se Washington e Teheran si metteranno d'accordo su questo punto, la questione nucleare sarà risolvibile. Non dimentichiamo che India e Pakistan hanno armi nu­cleari e sono amiche dell’America».
Che ruolo può svolgere l'Europa a questo punto?
«L'Italia in particolare può svolge­re un importantissimo ruolo di me­diazione, cominciando subito con l'ospitare le prossime conferenze di pace».
La ripresa del dialogo raccoglie il consenso della popolazione ira­niana?
«Più di due milioni di iraniani vi­vono negli Stati Uniti. Se ognuno di loro ha almeno quattro amici o pa­renti in Iran, possiamo immaginare quanto immenso sia il consenso in patria».
Come reagirà l'Iran degli Ayatol­lah?
«Io non faccio parte del governo e come tutti gli altri ho appreso dai media che la loro reazione è stata fredda. Ma non ho elementi divina­tori più di quanto ne abbiano gli al­tri ».
Dopo trenta anni di conflitti, da dove si può partire per arrivare al disgelo?
«Da negoziati di pace che debbo­no però svolgersi senza pre-condi­zioni, in modo aperto e con un coin­volgimento su tre livelli: capi di Sta­to, parlamento e società civiltà. Non si può continuare a dare il microfo­no solo ai politici ma bisogna far par­lare anche associazioni per i diritti umani, giuristi, studenti e soprattut­to donne e femministe. E anche qui l'Italia può svolgere una parte crucia­le ».

Il FOGLIO : "  'Caro Obama, tratta ora con l’Iran. Dopo sarà troppo tardi'"

New York. All’Aia, nel corso di un vertice Nato sull’Afghanistan, americani e iraniani si sono incontrati direttamente, sia pure in modo informale. Hillary Clinton ha definito “promettente” il colloquio tra Richard Holbrooke e il viceministro degli Esteri di Teheran. Anche il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, è convinto che l’impegno promesso dall’Iran per stabilizzare l’Afghanistan costituisca “un buon inizio”. A Washington, però, un gruppo di influenti deputati del Partito democratico, guidato dal capogruppo alla Camera Steny Hoyer e dai tre presidenti delle commissioni Esteri, Forze Armate e Intelligence, ha scritto una lettera aperta al presidente Barack Obama a proposito della sua apertura politica all’Iran, il paese islamico impegnato a procurarsi la tecnologia nucleare per contare di più nella regione mediorientale. I firmatari, senza molti giri di parole, sono subito andati al dunque, spiegando di condividere “la ferma posizione ” del presidente secondo cui “all’Iran non può essere concesso di possedere armi nucleari”, specie ora che l’Agenzia atomica dell’Onu ha svelato che il regime di Teheran ha già “scorte sufficienti di uranio arricchito per generare un’arma nucleare”. Il problema degli ayatollah atomici, hanno scritto i leader democratici a Obama, è urgente e va affrontato subito. “Nell’ingaggiare un dialogo dobbiamo essere seri e credibili – si legge nella lettera – ma non possiamo farlo a tempo indeterminato. Il nostro obiettivo deve essere quello di condurre l’Iran alla sospensione del programma nucleare”, ma non si possono attendere i risultati delle elezioni presidenziali iraniane di giugno, se si vuole evitare che “l’Iran usi le discussioni diplomatiche come copertura per continuare a lavorare al suo programma nucleare”. Il consiglio a Obama è di iniziare subito questi colloqui, “in modo da avere il più presto possibile un’indicazione sulla loro efficacia”. In caso di scarsi risultati, secondo gli scettici i deputati democratici, Obama dovrebbe “applicare immediatamente gli altri strumenti a sua disposizione per aumentare la pressione economica sugli iraniani”, con sanzioni alla Banca centrale di Teheran e alle banche, compagnie energetiche e assicurative e di trasporto internazionali che continuano a fare affari con il regime iraniano. Gli alleati occidentali, continua la lettera indirizzata a Obama, devono cominciare a rendersi conto dell’urgenza e della gravità della situazione iraniana per la sicurezza e la stabilità internazionale: “Signor presidente, se davvero intendiamo non permettere all’Iran di possedere armi nucleari, è urgente agire adesso. Dobbiamo usare il tempo a nostra disposizione per cominciare il dialogo e convincere gli iraniani della serietà dei nostri obiettivi. Altrimenti in futuro dovremo affrontare decisioni molto più difficili”.Anche dentro l’Amministrazione Obama c’è chi comincia a sostenere l’urgenza di un più repentino uso delle sanzioni. Il segretario al Pentagono, Bob Gates, ha detto in televisione che l’Iran non ha ancora un’arma atomica, ma anche che è più probabile che saranno le sanzioni economiche, piuttosto che la diplomazia, ad avere successo rispetto all’Iran. Secondo il segretario alla Difesa, intervistato da FoxNews, se ci sarà una sufficiente pressione economica gli iraniani potrebbero convincersi a sedersi attorno a un tavolo e, a quel punto, la carta diplomatica potrebbe fornirgli “una via d’uscita” se davvero decidessero di cambiare politica. Anche Richard Holbrooke, il mastino scelto da Obama e da Hillary Clinton per gestire il delicato scacchiere afghano- pachistano, sembra scettico e, intervistato dalla Cnn, ha detto che non scommetterebbe su un miglioramento ravvicinato delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica.

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