Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Sulla scelta di Barak di entrare a far parte del governo Netanyahu L'analisi di R. A. Segre, l'editoriale di Franco Venturini, gli approfondimenti di Francesco Battistini e Umberto De Giovannangeli
Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - L'Unità Autore: R. A. Segre - Franco Venturini - Umberto De Giovannangeli Titolo: «Israele, i pericolosi equilibrismi di Netanyahu e Barak -L'alchimia al potere - Ascesa e caduta del Labour, partito dei padri di Israele»
Sulla scelta di Ehud Barak di entrare a far parte del governo di Israele, riportiamo dal GIORNALE di oggi, 26/03/2009, a pag. 14, l'analisi di R. A. Segre dal titolo " Israele, i pericolosi equilibrismi di Netanyahu e Barak ", dal CORRIERE della SERA l'editoriale di Franco Venturini dal titolo " Alchimia al potere " e, a pag. 11, l'approfondimento di Francesco Battistini dal titolo " Trent'anni dopo l'Egitto congela la pace con Israele ", dall'UNITA', a pag. 24, quello di Umberto De Giovannangeli dal titolo " Ascesa e caduta del Labour, partito dei padri di Israele " ,sul partito laburista.
IL GIORNALE - R. A. Segre : " Israele, i pericolosi equilibrismi di Netanyahu e Barak "
La vittoria che Ehud Barak, leader del partito laburista, ha ottenuto con il 58% dei voti dell'assemblea del partito, in favore dell'entrata nella coalizione di destra che Netanyahu da sei settimane sta faticosamente cercando di creare, appare come una marcia di Gerusalemme verso due pericolosi malintesi. Il primo è rappresentato dalla formazione di un governo instabile per le contraddizioni ideologiche e economiche dei suoi membri, obbligato a mendicare quelli del partito laburista, suo avversario storico per tener in piedi una coalizione sostenuta da 65 deputati sui 120 della Knesset. Sostegno non sicuro perché la promessa di Netanyahu di dare ai laburisti cinque ministeri chiave, la presidenza della Commissioni Esteri e Difesa, senza garantire l'unità dei laburisti rischia di creare tempesta all'interno del Likud, espropriato di poltrone ministeriali in favore di un partito ideologicamente nemico e screditato nell'elettorato israeliano. Il leader del Likud si è però reso conto che senza i laburisti non avrebbe potuto tenere a bada gli ortodossi di Shas e le loro richieste di quattrini e quelle ideologiche altrettanto pesanti dei nazionalisti - laici e religiosi - ostili all'idea di uno Stato palestinese. Un equilibrismo che rischia di danneggiare il Likud, di creare scissioni fra i laburisti e di portare rapidamente a nuove crisi di governo. Situazione che in tempi di crisi economica globale e politica regionale lascia interdetto il Paese e fa sperare la signora Livni, leader di Kadima, in nuove elezioni e nel riconoscimento da parte dell'elettorato del suo rifiuto di prestarsi alle manovre di Netanyahu. Manovre per nascondere la sua necessità di piegarsi alla pressione «nazional religiosa» di abbandonare il principio di «pace in cambio di territori» base da 30 anni di tutti i tentativi di soluzioni della crisi mediorientale. Principio in cui Washington e la schiera degli esperti americani, guidati dall'ex ambasciatore in Israele Indik, fortemente crede e che si scontra con la realtà tanto araba quanto israeliana sul terreno. L'evacuazione di 8.000 coloni da Gaza imposta da Sharon e la trasformazione di quella zona non in principio di Stato palestinese ma in base di attacco contro Israele renderebbe impossibile anche ad un nuovo Sharon l'evacuazione di altre migliaia di coloni e il trasferimento dei territori ad una Autorità palestinese che non c'è e che se ci fosse grazie alla ritrovata unione fra al Fatah e Hamas, si trasformerebbe in una base di attacchi dalla Cisgiordania. D'altra parte il dinamismo della colonizzazione anche solo attraverso la crescita naturale dei coloni è inarrestabile. E il tentativo di Netanyahu di evitare uno scontro con Washington promettendo di «onorare tutti gli impegni presi dai precedenti governi» garantito dalla presenza dei laburisti nell’esecutivo sta creando un pericoloso malinteso con il presidente Obama che non può essere a lungo ignorato. Questo spiega l’«incredulità» della Signora Livni - e di buona parte dell'establishment israeliano - per la disponibilità di Ehud Barak a trasformare il partito di Ben Gurion in «foglia di fico» per coprire le contraddizioni interne ed estere del nuovo esecutivo.
CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " L'alchimia al potere "
Fino a pochi giorni addietro si diceva che quello in gestazione sotto la guida di Benjamin Netanyahu sarebbe stato il governo più a destra della storia di Israele. Ora occorre rivedere quel giudizio: a Gerusalemme sta per nascere il governo più singolare della storia di Israele. Non sarà una grande coalizione perché Tzipi Livni l'ha rifiutata tenendo il suo Kadima fuori dai giochi e di ciò potranno compiacersi quanti ritengono che le maggioranze troppo larghe siano una ricetta per la paralisi. Non sarà nemmeno un governo tutto di destra, perché il laburista Ehud Barak ha sorpreso il suo stesso partito accettando le offerte di Netanyahu e dimenticando la presenza nel governo degli oltranzisti di Avigdor Lieberman. Nel partito che gestì la nascita e la crescita dello Stato di Israele molti hanno storto la bocca davanti alla spregiudicatezza di Barak, ma dopo la batosta rimediata alle ultime elezioni il ministro della Difesa sembra aver messo da parte ogni prudenza politica. Cosa sarà, allora, il prossimo governo israeliano? La sua debolezza, ma anche la sua potenziale forza vengono dal fatto che a questa domanda non esiste una risposta certa. La cooptazione di Ehud Barak non basta a modificare il profilo fortemente di destra della compagine che Netanyahu sta mettendo insieme. Il Likud, Israel Beiteinou e i religiosi dello Shas formano un blocco che sulla carta non si presta all'ambiguità. Ma proprio per questo risulta utile (e, questa sì, ambigua) la presenza dei laburisti: saranno loro a rendere più agevole l'indispensabile dialogo di Israele con Obama ed è anche per accontentare loro che il primo ministro designato va garantendo con particolare enfasi che il negoziato di pace israelo-palestinese continuerà. Ora, completate le alchimie parlamentari e politiche, il nascente governo israeliano è pronto ad affrontare il difficile tempo delle verifiche. All'interno, perché gli strascichi crudeli della guerra di Gaza disorientano e turbano l'opinione pubblica. E soprattutto all'esterno, perché Israele, sottoposto a minacce in continua crescita, resta orfano di una strategia di sicurezza che sappia andare oltre il ricorso alla forza. Le posizioni di partenza non inducono all'ottimismo. Netanyahu è sempre stato contrario alla politica dei «due Stati» e concepisce al massimo una accentuata autonomia della Cisgiordania. Lieberman vorrebbe sbarazzarsi anche degli arabi israeliani. Entrambi (ma anche Barak su questo fronte ha fatto ben poco) non intendono smantellare gli insediamenti che gli stessi tribunali israeliani considerano illegali e sono semmai propensi a costruirne di nuovi. Su ognuno di questi fronti ci sarà dissenso con gli Usa e con l'Europa, per non parlare della mano tesa di Obama all'Iran e della richiesta di tenere aperti i varchi di Gaza per rendere possibile l'opera di ricostruzione. Eppure la memoria ci suggerisce un dubbio, che è anche una speranza. Fu il «falco» Menachem Begin a ospitare Sadat e a fare la pace con l'Egitto. Sono di solito i governi di destra a poter concedere di più senza scoprirsi le spalle. Un accordo con la Siria potrebbe essere il primo passo, poi dovrà essere Netanyahu a scegliere il suo posto nella storia. Con Tzipi Livni alla finestra.
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Trent'anni dopo l'Egitto congela la pace con Israele "
GERUSALEMME — «Arriva o non arriva?». Fiati sospesi, nell'aula magna dell' Università ebraica. «Dov'è l'egiziano?». Forse non viene. «Cominciamo lo stesso? ». Aspettiamo ancora, chissà, magari... «Eccolo!». Benvenuto, mister Reda, prego, s'accomodi: «Signori, buongiorno e benvenuti a questa giornata per il trentesimo anniversario degli accordi di Camp David...». Il benvenuto è soprattutto lui, Yasser Reda, ambasciatore egiziano in Israele. Fino all'ultimo, dal Cairo non gli hanno dato il via libera. Perché ieri mattina a Gerusalemme si celebrava la storica stretta di mano fra Sadat e Begin, 26 marzo 1979, ma il problema galleggiava da settimane: come festeggiare quella pace, se il nuovo ministro degli Esteri israeliano si chiamerà Avigdor Lieberman? Come far finta di nulla, con uno che qualche mese fa ha mandato Mubarak all'inferno? I tempi della politica sono più lunghi di quelli della diplomazia, però. E siccome Lieberman non è ancora al governo, via gli imbarazzi. E via coi brindisi, le foto a colori da sovrapporre a quel bianconero della Casa Bianca che stupì mezzo mondo, facendo infuriare l'altro mezzo. «Nessuno credeva sarebbe durata — ricorda Abdel Said Aly, politologo egiziano —. Invece, quel giorno, finivano 30 anni di guerre e ne cominciavano 30 di pace». Una pace che generò euforia e fu benedetta anche da Amos Oz, già fieramente a sinistra, come si legge da una lettera che scrisse al premier e che oggi spunta dagli archivi: «Non è questo il momento di dirti che cosa ci divide. Grazie e che tu sia benedetto, signor Begin. Penso al dolore che hai provato, firmando l'eliminazione degli insediamenti. Io che sono sempre stato contrario, so che hai fatto la più difficile delle battaglie: quella d'un uomo contro il proprio spirito più profondo. E' giusto che ti diano il Nobel». I costi non mancarono — Sadat ci rimise la pelle, la Lega araba espulse l'Egitto, 18 Paesi ritirarono i loro ambasciatori dal Cairo, sulle bellezze del Sinai riconquistato calò il cemento selvaggio stile Sharm-el-Sheikh —, ma i vantaggi politici furono maggiori: 15 anni dopo, anche la Giordania capì che fare pace con gli ebrei non era un tabù, e oggi per Israele l'alleato egiziano è garanzia di stabilità e opportunità economica. Eppure. Quell'accordo, come intuì Moshe Dayan, resta una pace fredda. Sugli atlanti egiziani, Israele ancora oggi non esiste. «Non facciamo che umiliare l'unico vicino che ci è alleato», sbottò qualche settimana fa il negoziatore israeliano Amos Gilad, durante le trattative su Gaza. E quando un Lieberman ricorda che «in trent'anni Mubarak non ha mai fatto una visita di Stato in Israele, che vada all'inferno», o butta lì che «se l'Egitto fa troppe storie, possiamo sempre bombardargli Assuan», è vero che urta la sensibilità del Faraone, è chiaro che non si presenti come il migliore dei ministri degli Esteri (dice l'ambasciatore Reda: «Ci sono tre cose che rappresentano l'orgoglio egiziano: le piramidi, Assuan e Mubarak. Lieberman ne ha colpite due su tre»), ma intanto dimostra l'evidenza d'una relazione senza amore. Nessuna celebrazione, al Cairo: «Gli egiziani continuano a diffidare — scrive Haaretz —. Se andate su una spiaggia di Tel Aviv, non trovate un egiziano ». «Questa pace è fredda e schizofrenica — dice l'analista arabo Emad Gad —. I piani alti dei due Paesi dialogano, fanno affari. Ai piani bassi ci s'ignora, se non peggio». «La fonte di tante tensioni — rammenta l'ambasciatore Reda — è sempre e solo la questione palestinese». Ieri, il Jerusalem Post ha invitato Mubarak a venire in Israele. Il Faraone, muto ed enigmatico come una sfinge. In fondo, aveva già risposto un mese fa, quando gl'iraniani l'attaccavano per l'immobilismo su Gaza: «Non accettiamo lezioni. A Israele, noi abbiamo fatto quattro guerre».
L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Ascesa e caduta del Labour, partito dei padri de Israele "
Il crepuscolo del partito che «fece» Israele. Il malinconico tramonto di una sinistra che plasmò lo Stato ebraico, innervandolo del proprio credo, del proprio modello sociale, di una ideologia che seppe tenere insieme l’anelito socialista con l’irredentismo nazionalista che portò David Ben Gurion, il padre del pionierismo sionista, ad affermare: «Siamo venuti qui per creare una casa e un luogo di lavoro per il popolo ebraico». «Il sionismo - rimarca lo storico Zeev Sternhell - trovò la sua giustificazione morale in una necessità esistenziale». «La sua missione dichiarata - aggiunge Sternhell - fu quella di liberare una popolazione in pericolo di estinzione, un’estinzione sia di natura culturale che fisica. D’altro canto, lo sviluppo del movimento sionista non fu dovuto al conseguimento di risultati sociali ma alla capacità da esso dimostrata di sostenere sulle proprie spalle la costruzione della nazione». Una costruzione che ha avuto tra i suoi realizzatori figure che hanno fatto la storia d’Israele: David Ben Gurion, Levi Eshkol, Chiam Weizmann, Golda Meir, Yitzhak Rabin, Shimon Peres. Ora tornerà al governo, il Labour di Ehud Barak ma nel farlo consuma una rottura irreversibile con il proprio passato. Un passato glorioso che per decenni si è identificato con quello dello Stato ebraico. Ridotto ad appena 13 deputati, il minimo storico, il Labour - che nei suoi momenti di maggior fortuna era arrivato a occupare (con la vecchia denominazione di Mapai) 47 seggi sui 120 della Knesset - ha una storia che, attraverso fusioni e scissioni con altri partiti, ha le sue origini nei lontani anni Trenta, prima della nascita di Israele (1948). Nel 1930 infatti nasce come Mapai, partito a sua volta frutto della fusione di due formazioni di sinistra, Hapoel Hatziar e Ahdut HaAvodà. Il Mapai è stato il partito dominante e di maggioranza relativa nella vita politica di Israele, prima della sua costituzione e nei trent’anni successivi. Al potere in tutti i governi e in tutti le posizioni chiave dal 1948 al 1977 il Mapai nel 1968 si trasforma in Schieramento laburista, frutto del raggruppamento con altri due partiti, Mapam e Ahdut HaAvodà. Il 23 gennaio 1968 si costituisce il Partito Laburista, un mega raggruppamento formato dal Mapai, Ahdut HaAvodà e Rafi, al quale successivamente aderisce il Mapam. Nel 1977 la vittoria della destra, guidata da Menachem Begin, vede per la prima volta i laburisti passare ai banchi dell’opposizione. Torneranno brevemente a guidare per due anni il governo di unità nazionale nato nel 1984 dall’alleanza con il Likud di Yitzhak Shamir, nel 1992 quando, guidati da Yitzhak Rabin, vinceranno le elezioni, e di nuovo nel 1999 col governo di Ehud Barak. Ma si tratta di successi temporanei. La tendenza al declino del partito si conferma nel corso degli anni. Il Labour si sposta su posizioni di centro e si allontana dall’ethos collettivista che era stato dominante. Al declino inoltre contribuiscono fattori demografici, il crescere di peso della componente sefardita della popolazione e degli immigrati di origine russa, la delusione per l’insuccesso del processo di pace con i palestinesi. A questo declino Ehud Barak, il soldato più decorato d’Israele, ha provato a rispondere esaltando le sue capacità di pianificatore militare vantando i «successi» della guerra di Gaza. La destra ha riconosciuto il suo valore, l’elettorato di sinistra, no. «È naturale per lui entrare in un governo di destra», è l’impietoso commento del quotidiano progressista di Tel Aviv, Haaretz. «Naturale» come rilanciare la colonizzazione ebraica nei Territori (gli insediamenti non sono mia cresciuti tanto quanto sotto il «piccolo Napoleone»). «Naturale» come dichiarare che nelle «emozioni mi sento affine a loro», dove quel «loro» è la destra radicale fautrice del Grande Israele. Una deriva che non sorprende Sternhell: «A ben vedere - riflette lo storico israeliano - sotto molti aspetti, la storia del movimento laburista può essere vista come uno spostamento progressivo verso la destra, un processo nel quale i principi più radicali, quelli più vicini all’aspirazione di creare una società più egualitaria, furono progressivamente erosi». «Il nuovo governo sarà di destra - rileva il segretario organizzativo del Labour Eitan Cabel, tra gli oppositori di Barak - Netanyahu e Lieberman (Israel Beitenu) daranno gli ordini e Barak li eseguirà. Al pensiero mi vengono i brividi». A restare in vita - e ciò accomuna Barak e a Netanyahu - è la convinzione che politica è usare le le leve del potere. E il potere coincide con il governo. L’opposizione, in definitiva, è roba per giovani. O per idealisti. E lui, «Ehud il guerriero»non né l’uno né l’altro. Lui non «sogna» più.
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