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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
22.03.2009 La risposta di Ali Khamenei al discorso di Obama
Le analisi di Fiamma Nirenstein e Vittorio Emanuele Parsi, la cronache di Andrea Nicastro e Francesca Paci, l'intervista a Marina Nemat

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - Andrea Nicastro - Francesca Paci - Gian Micalessin - Vittorio Emanuele Parsi -
Titolo: «La nuova strategia Usa umilia i Paesi arabi moderati - Gli ayatollah alzano la posta: l'America ora cambi davvero - Ma il mondo nascosto nel web sogna gli Usa - Lo scandaglio di Barack»

La risposta di Ali Khamenei al discorso di Obama è su tutti i quotidiani di oggi. Khamenei ha chiesto agli Usa l'interruzione delle sanzioni e la fine dell'appoggio a Israele. Sull' argomento pubblichiamo dal GIORNALE di oggi, 22/03/2009, a pag. 13 l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo " La nuova strategia Usa umilia i Paesi arabi moderati " e l'intervista di Gian Micalessin a Marina Nemat, autrice di “Prigioniera a Teheran”, un libro tradotto in 13 lingue sugli orrori delle galere khomeiniste, dal titolo " Un'illusione voler cambiare il regime ", dal CORRIERE della SERA, a pag. 10 la cronaca di Andrea Nicastro dal titolo " Gli ayatollah alzano la posta: l'America ora cambi davvero ", dalla STAMPA a pag. 4 l'articolo di Francesca Paci dal titolo "  Ma il mondo nascosto nel web sogna gli Usa " e, a pag. 1-33, il commento di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Lo scandaglio di Barack  ". Ecco gli articoli:

IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " La nuova strategia Usa umilia i Paesi arabi moderati "

È stato molto interessante osservare il linguaggio corporeo del presidente Obama mentre mandava il suo messaggio di pace all’Iran e quello di Alì Khamenei mentre gli rispondeva. Il primo fervoroso, intento, con le mani e con gli occhi, a mostrare la maggiore simpatia possibile; il secondo ieratico, alieno dalle forme, occupato solo dal suo scopo divino. E lo ha snocciolato calmo e lento, spiegando in sostanza che gli Usa devono mostrare nei fatti, e non con le parole, rispetto.
Ciò vuol dire che Obama, per essere amico dell’Iran, deve smettere di ostacolare la costruzione della bomba atomica, ormai allo stadio ultimo dell’arricchimento o al primo di assemblamento, a seconda di fonti americane o israeliane.
Comunque ormai basta poco tempo perché tutto il mondo sia sotto la minaccia atomica degli ayatollah. Essere amico dell’Iran, dice inoltre in sostanza Khamenei, significa abbandonare l’insopportabile abitudine di difendere l’esistenza di Israele e lasciare che si compia sul popolo ebraico la soluzione finale più volte annunciata da Ahmadinejad.
Vuole anche dire abbandonare, come del resto si legge già nel discorso di Obama, ogni distinzione tra il governo teocratico e autoritario, che impicca gli omosessuali e rinchiude i dissidenti, e il nobile popolo iraniano che ha dato molte volte segno di volersi ribellare.
Obama, dunque, ha avuto un sostanziale «no», ma non lo accetterà come risposta. Per esempio, Hillary Clinton terrà probabilmente duro nel suo invito all’Iran alla conferenza per l’Afghanistan: evidentemente non turba Obama il fatto di scontentare gravemente tutti i Paesi moderati arabi su cui fino ad oggi gli Usa avevano puntato le speranze per un Medio Oriente equilibrato.
Infatti, chiamare Ahmadinejad al desco internazionale è azione che dispiace assai agli egiziani, ai sauditi, ai libanesi e ai palestinesi moderati, e tutti quanti hanno invitato più volte Ahmadinejad a starsene fuori dal campo di Gaza, del Libano e perfino dal Bahrein, che l’Iran rivendica come suo.
La profferta di pace obamiana, seguita dall’affettato «no» di Khameni, esalta alle stelle l’integralismo islamico militante, anche perché tutti gli amici e i famigli dell’Iran seguitano a ricevere segni di incoraggiamento, mentre le prime pagine dei giornali occidentali applaudono.
Nella generale amnistia ideologica in corso, infatti, Assad gioisce perché il processo per l’omicidio del leader libanese Rafik Hariri, di cui erano accusate le massime gerarchie siriane, legate all’Iran da sempre, verrà certo edulcorato contro la falsa promessa di Assad stesso di aprirsi a un processo di pace con Israele.
E mentre l’Aiea individua sul terreno siriano i resti di una struttura atomica, e si definisce chiaramente l’assistenza iraniana al progetto, si mandano due inviati americani a Damasco; inoltre, l’Inghilterra ha fatto in questi giorni profferte agli Hezbollah, longa manus iraniana e siriana, mentre Nasrallah di nuovo promette la distruzione di Israele insieme alla sua vittoria nelle prossime elezioni di giugno in Libano; Hamas, legata come è agli iraniani, rifiuta l’accordo con Fatah e chiama Abu Mazen traditore solo che accenni a un accordo con Israele, sicura che tanto l’Iran le darà conforto anche economico.
La strategia americana di questo momento, dunque, umilia i moderati perché esalta gli estremisti. E soprattutto mette Israele in una condizione di incertezza vitale così seria da poterlo spingere a un gesto estremo.
È una strategia saggia? A noi pare alquanto avventurista, anche perché ogni giorno di salamelecchi occidentali viene usato dagli ayatollah per costruire la bomba e tessere una frenetica tela diplomatica per la vittoria dell’islam. L’apertura americana può creare un’ondata di trionfalismo islamico in tutto il mondo: Obama adesso farebbe bene a trovare il modo di smorzarlo.

CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : " Gli ayatollah alzano la posta: l'America ora cambi davvero "

Non ci sono distese di tappeti persiani davanti alla nuova politica americana verso l'Iran, ma la porta è socchiusa. A Mashad, al confine con l'Afghanistan, la Guida Suprema di Teheran prega e fa gli auguri per il nuovo anno persiano in diretta tv. Ali Khamenei parla a braccio, improvvisa battute, ma quando arriva il momento di rispondere alle aperture del presidente Barack Obama dalla tunica compare un foglietto e gli occhi corrono tra le righe. Non ci devono essere sbagli o fraintendimenti. Il video-messaggio di Obama divulgato venerdì è stato un gesto importante, una proposta di «nuovo inizio» inedita in trent'anni di muro contro muro. L'ayatollah che comanda nella Repubblica Islamica dimostra di averlo compreso.
«Declamano lo slogan del "cambiamento" — legge Khamenei —, ma nessun cambio è visibile nella pratica. Hanno sbloccato i beni iraniani all'estero? Hanno sollevato le opprimenti sanzioni? Hanno cessato di gettare fango sulla grande nazione iraniana e i suoi esponenti? Hanno rinunciato all'incondizionato appoggio al regime sionista? Dicono di aver teso la mano verso l'Iran... che senso ha quando la mano è di ferro e di velluto c'è solo un guanto sottile». La folla in sala intona: «Abbasso l'America, morte all'America». Khamenei aspetta paziente. Il passaggio più significativo sta per arrivare. Se gli Usa «dovessero davvero cambiare — dice —, allora anche il nostro comportamento cambierebbe».
Le reazioni in Occidente variano di molto: da chi legge nelle parole di Khamenei una porta in faccia ad Obama, a chi scorge solo diffidenza, a chi legge semplice attendismo. Il New York Times rivela l'intenzione Usa di procedere comunque, magari con un messaggio riservato di Obama allo stesso Khamenei. Segno che la Casa Bianca potrebbe aver apprezzato il discorso della Guida. In Iran, invece, l'abitudine a decrittare le parole dei religiosi al potere rende gli osservatori più ottimisti.
«E' la prima volta che Khamenei dice che siamo pronti a invertire direzione. E' un "cambio" importante», sostiene al telefono con il Corriere Mohamed Atrianfar, il più famoso giornalista del campo riformista. Atrianfar è stato direttore dei giornali di maggior successo degli ultimi dieci anni, da
Sharq a Sharvand. Tutti chiusi dalla censura. «Khamenei ha enfatizzato la speranza che il suo discorso venga tradotto da americani in buona fede e non manipolato dai sionisti. Vuol dire che, a parte Israele, non esistono veri ostacoli tra Usa e Iran. Il sottotesto dell'intero messaggio è: liberatevi dall'influenza di Israele e i problemi si appianeranno».
«Per la prima volta in pubblico l'ayatollah Khamenei non ha definito l'America come "nemica". Significa semaforo verde al lavoro dei diplomatici» nota Masij Alinejad, editorialista di
Etemad e-Milli, quotidiano del candidato riformista alla presidenza Qarrubi. «La Guida Suprema avrebbe potuto usare un tono più amichevole — sostiene da Teheran Fariba Pajooh, tra le più famose blogger e reporter del Paese — e i cori anti americani non sono adatti ad ogni circostanza. Ma di certo è stato il discorso di maggior apertura della Guida Suprema. Si tratta di un'occasione storica per Iran e Usa. Speriamo sappiano coglierla».

La STAMPA - Francesca Paci : " Ma il mondo nascosto nel web sogna gli Usa "

«L’Iran è come un iceberg di cui vediamo solo la parte emersa, la più piccola» osserva Sima Assaran, seduta sulla scalinata del British Museum di Londra dove ha visitato la mostra dedicata a Shah’Abbas, il grande leader persiano del XVI secolo. 38 anni, avvocato, madre inglese e padre iraniano, Sima vive nella City da quando era alla scuola primaria ma torna spesso a Teheran, sua città natale. La metafora dell’iceberg, continua, descrive bene la Repubblica Islamica contemporanea divisa al limite della schizofrenia: «I politici rappresentano una fetta minima della società. Per ogni anatema antioccidentale del governo ci sono migliaia di ragazzi che sognano l’America, per un ayatollah Khamenei che sbatte la porta in faccia a Obama milioni di miei connazionali sperano nella riapertura del dialogo con Washington».
Lo specchio di questa dicotomia è l’infinita blogosfera iraniana, la galassia dei diari online, sorta di mondo parallelo che sfugge ai guardiani della rivoluzione. Secondo l’Internet&Democracy Project, le autorità religiose hanno oscurato 5 milioni di blog con l’unico effetto di aver reso più avvincente la sfida. Neppure la punizione esemplare del giovane blogger Omidreza Mirsayafy, morto due giorni fa nella prigione di Evin dove era detenuto per aver insultato la Guida Suprema dell’Iran, disarticolerà la rete. Il sito femminista Campaign4equality è stato chiuso 18 volte ed è ancora lì a denunciare la discriminazione delle donne iraniane in sei lingue più il farsi, il terzo idioma più diffuso del web.
Come le fanciulle di Teheran che ogni giorno spostano il velo d’un centimetro e mostrano qualche ciocca in più, i bloggers sondano il terreno per capire fin dove possano spingersi. «Dopo 4 anni di panchina i riformisti vogliono tornare al potere e, per mostrarsi pronti, vanno al voto con tre candidati, più divisi che mai» scrive Persia, 25 anni, studente e appassionato di Márquez. «Obama ha sbagliato a rivolgersi ai teocrati nella festa persiana più importante: i teocrati stanno distruggendo la persianità» commenta Ali Mostofi su Iran News Blog. Tanto rumore per nulla secondo Spooky Witch, 25 anni, fan di Bob Dylan: «Perché tutti credono che la nuova amministrazione americana aiuterà l’Iran? Obama si è insediato ma io non ho ancora passato i miei dannati esami...»
La politica domina l’agorà telematica iraniana, rileva uno studio del Center for Internet and Society di Harvard. Anche i Basij, la milizia islamica, hanno aperto 10 mila blog per «promuovere la rivoluzione khomeinista». Ma Internet riflette una società scissa tra la realtà chiusa, reazionaria, paranoica e l’immaginario, altro e altrove da sé, come dimostrano i titoli «cinematografici» dei blog, Minority Report, Quel che resta del giorno, Eyes wide shut. Dalla Teheran che vieta ai fidanzati di tenersi per mano Z-Logs, ingegnere 31enne, scrive le note di un Prelude du Fornication, cita film di Polanski, elenca le 54 caratteristiche maschili che fanno felice una donna contro le uniche due a lei necessarie per appagare un uomo, «spogliarsi e far da mangiare».
«C’è un Iran che ci sfugge, dove oltre il 70% della popolazione non sostiene il regime al potere» spiega Ali Reza Nourizadeh, membro del think tank Democratic Alternative. A questa parte sommersa dell’iceberg, sostengono gli analisti, era indirizzato il messaggio di Nowruz del presidente americano. L’Iran non è la Corea del Nord, nota l'editorialista del Times Catherine Philp: «La gente ha ascoltato il discorso di Obama. Le autorità tentano di bloccare le tv satellitari ma a Teheran le notizie arrivano». E circolano. Hamid Sabourian, capo della facoltà di economia dell’università di Cambridge, scorge un «cauto ottimismo» tra i connazionali: «Mi sembrano speranzosi e anche la risposta di Khamenei non è un totale rifiuto, lascia aperta una possibilità».

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Un'illusione voer cambiare il regime "

«Cosa v’aspettavate, v’illudevate che Obama cambiasse anche il regime di Teheran? Il no di Alì Khamenei, il no al dialogo, è una reazione scontata, non m’aspettavo nulla di diverso. La natura del khomeinismo non può cambiare. A Teheran regna da 30 anni un sistema oppressivo. È lo stesso che appoggia Hezbollah in Libano e il terrorismo in Palestina, per cambiarlo non basta parlargli sottovoce».
Dal lato canadese della cornetta la voce di Marina Nemat, autrice di “Prigioniera a Teheran”, un libro tradotto in 13 lingue sugli orrori delle galere khomeiniste, risuona sdegnata, sorpresa per il candore di chi le chiede se s’aspettava l’inflessibile risposta di Khamenei. «Di recente ero in Italia, invitata dalla casa editrice Spirali, per raccontare la mia storia di ragazzina cristiana che credeva a Khomeini - spiega Marina Nemat al Giornale -. Nel 1982, a 16 anni, sono stata sbattuta in galera e condannata a morte per aver criticato il regime, mi sono salvata e sono fuggita in Canada, ma in Iran non è cambiato nulla»
E allora che senso hanno i toni accomodanti di Obama?
«È politica, solo politica. Lui vuole apparire diverso dal suo predecessore e sicuramente lo è, ma questo non risolve i problemi iraniani. Non cambierà nulla neppure se andrà in Iran a parlare ai capi del regime. Loro gli chiederebbero la fine dell’appoggio a Israele e Obama non potrebbe certo acconsentire. Detto questo, una politica meno conflittuale può avere dei lati positivi. Se l’America smette di considerare l’Iran l’asse del male e non minaccia di bombardarlo ad ogni pie’ sospinto, magari l’opposizione riacquista fiducia e guarda agli Stati Uniti come qualcuno in grado di aiutarli».
Perché l’opposizione non credeva a Bush?
«Il nostro è un popolo nazionalista, non sopporta le minacce, l’idea che l’America potesse bombardare il nostro Paese non ha sicuramente giovato. Un eventuale attacco renderebbe ancora più forte Teheran e l’intero Paese si stringerebbe intorno al regime, come ai tempi della guerra con Saddam».
Ma in Iran c’è un’opposizione?
«Negli anni ’80 Khomeini ha ucciso 50mila oppositori, chi è uscito vivo dalle galere non dimentica che protestare significa rischiare la vita. Gli studenti universitari l’hanno scoperto a loro spese scendendo in piazza. Questo non significa che non esista l’opposizione, è soltanto impaurita e divisa, ma se gli Stati Uniti ne sapranno conquistare la fiducia sarà facile unificarla usando strumenti di comunicazione come internet e la televisione satellitare. Per conquistare il cuore del mio popolo basterà dimenticare i toni ideologici e favorire la nascita di un movimento nazionalista e libertario».
A giugno gli iraniani scelgono un nuovo presidente, cambierà qualcosa?
«Il vero cambiamento è lontano. Chiunque venga eletto è parte di quel regime. Ai tempi del presidente Khatami, definito da tutti riformista, è morta torturata in carcere una giornalista iraniana canadese. Certo Khatami è una brava persona: con lui si leggevano più libri, le donne mettevano il rossetto e andavano in giro un po’ meno infagottate, ma era pura cosmesi perché l’essenza del regime era la stessa. Se a giugno eleggeranno il candidato riformista Mir-Hossein Moussavi la storia non cambierà. Fino a quando l’Iran sarà governato dalla sharia, la legge islamica, nulla cambierà».
Si può fermare la corsa al nucleare del regime?
«Forse no, ma attaccare le installazioni nucleari iraniane sarebbe peggio. Un eventuale conflitto sarebbe molto più difficile di quello iracheno perché gli iraniani si schiererebbero con il regime. Per me la bomba atomica non cambia i termini del problema, anche il Pakistan e l’India la possiedono, ma si guardano bene all’usarla perché il rischio è reciproco. Lo stesso varrà per l’Iran».
Potendo parlare a Obama, cosa gli suggerirebbe?
«Alla fine gli direi di fare quanto sta facendo. L’America deve guadagnar tempo, abbassare i toni e favorire la nascita di un’opposizione. Un eventuale negoziato non porterà, probabilmente, a nessun cambiamento fondamentale, ma aiuterà forse a impedire la guerra».

La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Lo scandaglio di Barack "

In poco più di 24 ore la Guida suprema della Repubblica islamica ha gelato le profferte di apertura americane. A Washington sono subito aumentate le critiche repubblicane per l'inusuale iniziativa di Obama, con paralleli più o meni espliciti e velenosi alla naïveté di Jimmy Carter.
In realtà, la durezza e la rapidità della reazione di Khamenei lasciano supporre che, in casa iraniana, il videomessaggio qualche crepa l’abbia prodotta. Se accantoniamo le polemiche politiche di corto respiro, nelle parole di Obama possiamo rintracciare tre temi: la ricerca di interlocutori possibili all'interno del circuito politico «legale» della Repubblica islamica; l’offerta da parte di Washington di abbandonare una politica iraniana inchiodata al regime change; la rassicurazione dei dirigenti arabi che la nuova offensiva diplomatica verso l’Iran non avverrà a scapito del mondo arabo e sunnita.
Con una mossa audace, ambiziosa e non priva di rischi, Obama ha cioè deciso di provare a prendere il toro iraniano per le corna, e verificare quale sia lo spazio effettivamente a disposizione per la ricerca di un accordo regionale complessivo con la teocrazia di Teheran. Da decenni infatti l’Iran alimenta due immagini contrastanti eppure entrambe vere. Da una parte quella di un paese dal circuito politico interno estremamente articolato, per nulla monolitico e tutto sommato espressione di una società molto aperta e differenziata. Dall’altra, quella di una politica estera coerente, ma sostanzialmente incompatibile sia con gli interessi occidentali sia con il rafforzamento della stabilità regionale desiderata a Riad, al Cairo e a Gerusalemme. Per dirla in maniera molto sintetica, alla ricchezza e alla vivacità del dibattito politico interno iraniano non sembra corrispondere un’articolazione altrettanto imponente delle linee di politica estera.
Una strada non facile
Rivolgendosi direttamente agli iraniani, Obama cerca di capire se, nell’ambito del circuito politico «legale» iraniano, esistono (e quanto pesano) attori che sulla politica estera del paese possano avere posizioni diverse da quelle fin qui ostentate dal regime e offre loro una sponda. È una strada lunga e per nulla facile, che però deve essere tentata, considerate le nubi nerissime che si stanno addensando sulla regione. Da qualche tempo, ormai, i rapporti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica sembrano essere più pessimisti di quelli della National Intelligence Agency. È una curiosa inversione, che illustra la preoccupata consapevolezza americana di non avere troppe frecce al proprio arco (alternative a un pericolosissimo intervento militare israeliano o congiunto), qualora l’Iran fosse davvero in procinto di raggiungere una capacità nucleare che nessuno sinceramente crede sarà solo civile. Quella nucleare è una delle politiche che l'Iran deve essere indotto ad abbandonare, insieme con l'altra pericolosissima, riassumibile nel sistematico sabotaggio di una pace tra Israele, Palestina e mondo arabo fondata sulla formula «due popoli, due Stati».
Washington non chiede da subito l’accantonamento della più becera retorica anti-israeliana, né l’immediata e definitiva rinuncia ai progetti di grandezza nucleare, anche se, ovviamente, fa dipendere dallo scioglimento di questi due nodi il raggiungimento di un accordo complessivo con l’Iran. Vuole però capire se, nell’attuale circuito politico della Repubblica islamica, c’è qualcuno capace di raccogliere davvero il segnale inviato con il video di Obama. Un video usato come un ecoscandaglio, che prova a sondare le profondità della politica iraniana alla ricerca di forme di vita politica finora non conosciute. Questo implica - ed ecco il secondo punto - la disponibilità americana ad accettare la teocrazia per quello che è, mettendo da parte ogni velleità di cambiamento di regime indotto o favorito dall’esterno. Tutto ciò suonerà poco «liberal», ma in realtà investe sull’ipotesi che, allentando la pressione esterna, le dinamiche interne del rapporto istituzioni politiche-società possano lentamente e naturalmente evolversi nella direzione di una progressiva liberalizzazione del regime.
Infine, e non meno importante, c’è un ulteriore chiaro segnale al mondo arabo, la cui dirigenza è estremamente inquieta di fronte a un possibile riavvicinamento tra Teheran e Washington, tanto più dopo gli innegabili vantaggi ottenuti dall’Iran grazie alla guerra irachena, alle campagne israeliane di Libano e Gaza e al ventilato coinvolgimento iraniano nella soluzione del rompicapo afghano. Solo alcuni giorni fa, i sauditi avevano fatto ufficialmente sapere che il loro «piano» non sarebbe stato sul tavolo «per sempre», ricordando all’America che la ricerca di un riavvicinamento con l’Iran non avrebbe dovuto significare l’inizio di un’inaccettabile egemonia persiana e sciita sugli arabi sunniti. La partita continua a restare complicata e dall’esito tutt’altro che scontato. Ma almeno, per ricorrere a una metafora rugbistica in omaggio al «Torneo delle 6 Nazioni», per la prima volta dopo tanti anni siamo tornati a giocare «nei loro 22».

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