Ahmadinejad non ha risposto al discorso di Obama.
Ieri il presidente Obama ha dichiarato in un video di voler dialogare con l'Iran. Tutti i quotidiani italiani trattano la notizia. Di seguito riportiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 21/03/2009, a pag. 4 il testo del suo discorso (" Superiamo trent'anni di divisioni "), dal GIORNALE, a pag. 19, il commento di Paolo Guzzanti dal titolo " Obama offre pace all’Iran Una svolta storica? Sì, ma sembra un ultimatum ", dal CORRIERE della SERA, a pag. 3, l'articolo di Andrea Nicastro dal titolo " Ma così si rafforzano gli ayatollah " con le dichiarazioni di Ahmad Batebi, studente in prigione perchè a capo del movimento studentesco contro il regime di Ahmadinejad, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo " No, serve subito un ultimatum" con le dichiarazioni di Yuval Steinitz, portavoce di Benjamin Netanyahu e l'articolo di Alessandra Coppola dal titolo " Intenzione buona, ma poco tempo " con le dichiarazioni di Dan Gillerman, ex rappresentante all'Onu, e, dalla STAMPA, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " I tre consiglieri dietro la svolta alla Casa Bianca ".
Ecco gli articoli:
LA REPUBBLICA - Barack Obama : " Superiamo trent'anni di divisioni "
Questo è il testo del discorso rivolto dal presidente degli Stati Uniti ai leader e al popolo iraniani in occasione del capodanno iraniano celebrato ieri:
Voglio fare i miei migliori auguri a tutti coloro che nel mondo festeggiano Nowruz. Questa festa è un antico rituale e un momento di rinascita. Spero che stiate celebrando questo speciale momento con gli amici e la famiglia.
Voglio rivolgermi direttamente al popolo e ai leader della Repubblica Islamica dell´Iran. Nowruz è solo una parte della vostra grande e celebrata cultura. Nel corso di molti secoli, la vostra arte, la musica, la letteratura e le scoperte hanno reso il mondo un posto migliore e più bello. Qui negli Stati Uniti le nostre comunità sono state rafforzate dal contributo degli iraniani-americani.
Sappiamo che siete una grande civiltà, e i vostri traguardi raggiunti hanno guadagnato il rispetto degli Stati Uniti e di tutto il mondo. Per quasi tre decenni, le relazioni tra le nostre nazioni sono state tese. Ma questa festa ci ricorda la nostra comune umanità che ci unisce. Infatti, le vostre celebrazioni per il nuovo anno saranno simili a quelle di noi americani: unirsi alla famiglia e agli amici, scambiarsi doni e regali, guardare al futuro con un rinnovato senso di speranza.
Nell´ambito di queste celebrazioni c´è la promessa di un nuovo giorno: la promessa di opportunità per i nostri figli; di sicurezza per le nostre famiglie; il progresso per la nostra comunità; la pace tra le nazioni. Sono speranze condivise, sogni comuni.
Quindi, in questa stagione di nuovi inizi, vorrei parlare con chiarezza ai leader dell´Iran. Ci sono profonde differenze che si sono sviluppate nel corso del tempo. La mia amministrazione vuole condurre una diplomazia che tratti i problemi nel loro insieme e tenti di stabilire relazioni costruttive tra gli Stati Uniti, l´Iran e la comunità internazionale. Questo processo non farà passi avanti con le minacce. Noi cerchiamo, invece, un approccio che sia onesto e fondato sul rispetto reciproco.
Anche voi avete una scelta. Gli Stati Uniti vogliono che l´Iran assuma il posto che gli spetta in seno alla comunità delle nazioni. Voi avete questo diritto, ma esso comporta reali responsabilità e quel posto non può essere raggiunto con il terrore o le armi, quanto piuttosto attraverso azioni pacifiche che dimostrino la vera grandezza del popolo iraniano e della sua civiltà. La misura della grandezza non è nella capacità di distruggere, è nella vostra dimostrata abilità di costruire e creare.
Così, in occasione del nuovo anno, voglio che voi, popolo e leader iraniani, capiate il futuro che noi cerchiamo. E´ un futuro con rinnovati scambi tra la nostra gente, e maggiori opportunità di partnership e commercio. E´ un futuro in cui le vecchie divisioni sono superate, in cui voi ed i vostri vicini ed il resto del mondo possano vivere in pace e sicurezza.
So che tutto ciò non è raggiungibile facilmente. Ci sono coloro che insisteranno sul fatto che noi siamo definiti dalle nostre differenze. Ma fatemi ricordare le parole che sono state scritte dal poeta Saadi (uno dei maggiori poeti persiani, ndr) tanti anni fa: «I figli di Adamo sono membra gli uni degli altri, essendo stati creati di un´essenza».
Con l´arrivo di una nuova stagione, ci viene ricordata questa preziosa umanità che noi tutti condividiamo. E possiamo ancora una volta appellarci a questo spirito quando cerchiamo la promessa di un nuovo inizio.
Grazie e Eid-eh Shoma Mobarak (buon anno, ndr).
IL GIORNALE - Paolo Guzzanti : " Obama offre pace all’Iran Una svolta storica? Sì, ma sembra un ultimatum "
Obama l'aveva detto: sarebbe ripartito da zero con tutti i dossier, cioè con tutti i Paesi con cui gli americani hanno vita difficile, a cominciare dalla Russia e passando per l'Iran. E l'apertura all'Iran è arrivata: «Azzeriamo trent'anni di vita difficile insieme e ripartiamo da zero». Ha risposto subito l'Iran: «Va bene, a patto che alle parole seguano i fatti». Di qui un certo panico europeo: che fa, Obama? Scherza col fuoco? Si arrende davanti ai mullah e agli ayatollah? Oppure ha qualcosa in serbo? Ma gli europei per la gran parte hanno gioito scambiando evidentemente l'apertura di Obama per una garanzia del fatto che l'America rinuncia definitivamente a usare la forza con l'Iran. Sbagliano. Il fatto è che questa apparente apertura è in realtà una sfida micidiale che potrebbe portare la pace definitiva (poco credibile) o, più probabilmente, a un regolamento finale di conti.
Io mi baso su quel che ho sentito dire da Obama nell'agosto scorso quando, parlando dell'Iran, fu chiaro e quasi brutale dicendo più o meno così (ricostruisco a memoria): «Noi non vogliamo incomprensioni, non vogliamo tirarci dietro il bagaglio di trent'anni di tensione e sfide: vogliamo sedere a un tavolo con l'Iran e discutere apertamente di tutto. E a quel punto faremo sapere all'Iran che loro devono rinunciare al loro programma nucleare che consideriamo incompatibile con la coesistenza pacifica con noi».
Ora, si sa bene che gli iraniani non vogliono cedere su due temi per loro fondamentali: il primo è la libertà di repressione interna con cui il governo di Mahmoud Ahmadinejad intende tenere sotto la pressione del terrore i propri sudditi e il secondo è proprio la questione nucleare. Gli iraniani non ne vogliono sapere di rinunciare a un programma nucleare "civile" che possa però essere facilmente convertito alla produzione militare di armi atomiche. E su questo non mollano. D'altra parte gli iraniani sanno che senza il loro consenso gli Stati Uniti non hanno accesso all'Afghanistan e al Pakistan e per Obama l'Afghanistan è importantissimo avendo intenzione di chiudere la partita militare in quel paese dove ha trasportato nuove truppe.
La risposta iraniana all'apertura americana è stata immediata e apparentemente pragmatica: Teheran dice di voler vedere «i fatti» dopo le parole e i fatti possono essere soltanto quelli della fine della politica di interdizione sulle armi nucleari. Ma è proprio lì che gli iraniani si illudono di poter vincere la partita. Obama ha interesse a dimostrare di aver fatto tutto il possibile prima di arrivare al punto di non ritorno e ne ha bisogno per motivi prima di tutto di politica interna: deve dimostrare al suo elettorato di non essere un nuovo Bush e di dare sempre la precedenza ai processi di pace.
Inoltre Obama ha bisogno di tempo per la riconversione dell’apparato militare in Afghanistan e vuole tenere aperta la porta iraniana per non compromettere le sorti della guerra. Si tratta di una partita molto complicata sia sul piano diplomatico che su quello militare e il nuovo presidente americano ha interesse a non sbagliare un colpo e a non forzare i tempi.
Ma contemporaneamente si sa che il Dipartimento di Stato e il Pentagono mantengono tutti i comportamenti della linea dura in modo che diplomazia e apparato militare procedano con lo stesso passo.
Che cosa accadrà? Lo scenario più prevedibile è quello di una serie di colloqui fra sordi, in cui gli americani diranno di essere disposti a ogni concessione in cambio della rinuncia nucleare e gli iraniani diranno che a tutto possono rinunciare ma non al nucleare. Obama vuole contemporaneamente alleggerire la pressione sulla Russia con una serie di concessioni formali e di poco conto sui sistemi antimissile, per poter ostacolare un gioco iraniano da parte di Mosca e uno moscovita da parte di Teheran. Ma al termine di questa partita, come dicevamo all'inizio, a meno che non ci sia una imprevista resa iraniana, assisteremo a uno show down e probabilmente a un’azione militare americana prima che l'Iran arrivi al punto di non ritorno nella produzione di armi nucleari e possa minacciare Israele.
Israele è ovviamente parte del gioco: Gerusalemme guarda la sabbia che cade nella clessidra e non vuole che Teheran arrivi a produrre bomba e missile con cui raggiungere Israele. I servizi segreti israeliani hanno espresso l'opinione che, se si andasse troppo in là, bisognerebbe colpire l'Iran con armi nucleari tattiche per contaminare tutta la zona destinata alla produzione di armi atomiche e renderla inaccessibile per decenni.
Il gioco è aperto e il nuovo giocatore Obama si è presentato con un mazzo nuovo di carte per mostrare e dimostrare che parte da zero. Ma tutti sanno che non si parte da zero, dal momento che il processo di arricchimento dell'uranio iraniano ha i giorni contati.
CORRIERE della SERA - Andrea Nicastro : "Ma così si rafforzano gli ayatollah "
«Un errore. Gli ayatollah si sentiranno più forti, avranno ancora meno scrupoli a picchiare e manipolare le schede alle elezioni presidenziali di giugno. Barack Obama ha dato l'impressione di voler barattare i diritti umani degli iraniani con il business e la protezione dall'atomica sciita. L'Iran sta per fare la stessa fine della Libia: rinunciando al suo programma nucleare il colonnello Gheddafi ha salvato se stesso e condannato il suo popolo alla dittatura. Washington vuol ripetere quel giochetto con gli iraniani? Per favore, non siamo in vendita».
Ahmad Batebi è un'icona della dissidenza iraniana. La sua faccia da ragazzo sfrontato sulla copertina di un Economist di dieci anni fa gli costò anni di carcere. Mostrava il sangue della repressione delle proteste studentesche. Venne torturato, rischiò di morire, ma niente ha cambiato il suo istinto ribelle. Oggi è a Washington, rifugiato politico dopo una rocambolesca fuga attraverso le grotte al confine tra Iran e Iraq. Per lui, non c'è dialogo possibile con gli ayatollah al potere. «Obama deve stare attento, non può fidarsi di questa teocrazia. I mullah sono capaci di promettere una cosa oggi e dimenticarsene domani. Usano il popolo come ostaggio. Si nutrono di petrolio e lo sfruttano per influenzare gli altri Paesi. Sono guidati dal furore ideologico di una religione che si sono costruiti su misura. Nell'Islam è proibito mentire, bere alcol e mangiare maiale? Se serve, nel loro personalissimo credo, è lecito invece ingozzarsi di prosciutto, ubriacarsi e dire balle a ripetizione».
I fallimenti della politica di George W. Bush non hanno demoralizzato l'ex studente Batebi. «Non basta questo discorso per capire dove vuole andare la Casa Bianca. Non si può credere che la democrazia americana possa reggere in un mondo di totalitarismi. La democrazia va esportata. D'altra parte è positivo che Obama abbia distinto tra popolo e governo, parlato direttamente alla gente, lodato l'ingegno persiano e festeggiato il nuovo anno, ma per recuperare la fiducia degli iraniani ci vuole ben altro. Noi ricordiamo bene l'appoggio Usa alla dittatura dello scià e al colpo di Stato del 1953 contro Mossadeq. E le trattative segrete con l'ayatollah Khomeini ancora in esilio o i finanziamenti all'Iraq di Saddam Hussein durante otto anni di guerra. Ora Washington vuole accordarsi con i mullah alle spalle della gente? No, spero di no».
Da quando, l'estate scorsa, è scappato in America, Batebi è diventato ospite fisso di tv e radio satellitari che trasmettono in persiano da Usa e Gran Bretagna verso l'Iran. Per lui solo la rivolta popolare potrà sconfiggere la teocrazia. «I Paesi ricchi devono cancellare i contratti, porre condizioni come fecero con il Sudafrica delle discriminazioni razziali. Allora gli iraniani andranno in piazza e il regime cadrà. Altrimenti i mullah useranno qualunque mezzo per imporre al mondo la loro fede».
CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " No, serve subito un ultimatum "
GERUSALEMME — Obama propone agli iraniani un dialogo basato sul mutuo rispetto. «Non ne sono contento: non credo che si dovrebbe rispettare l'Iran, è un regime terrorista e totalitario», replica Yuval Steinitz, 50 anni, da 10 alla Knesset, uno dei deputati del Likud più vicini al premier designato Benjamin Netanyahu.
«Ahmadinejad dovrebbe essere boicottato.
Non si dovrebbe parlare con un leader che vuole eliminare Israele dal Medio Oriente come Hitler con gli ebrei in Europa».
Steinitz aveva sostenuto che con l'Iran il dialogo ha senso solo se serve a imporre un ultimatum «con la pistola puntata» e che Obama in questo può essere più efficace di Bush. «Non voglio dare consigli a Obama — dice adesso —. Ma credo che il regime iraniano dovrebbe ricevere una scadenza molto chiara da parte dell'America e dal resto del mondo libero, che lo costringa a fermare le attività nucleari. È il momento di stabilire con urgenza un ultimatum. Gli iraniani si stanno avvicinando alle armi mucleari e approfittano della disponibilità a negoziare per guadagnare tempo». Anche se Obama dice ora di non volere un approccio basato sulle minacce, Steinitz assicura che «la politica Usa nei confronti dell'Iran è ancora in fase di revisione». Pochi giorni fa, il presidente americano ha rinnovato le sanzioni contro Teheran, perché «continua a rappresentare un pericolo» per la sicurezza Usa. Una contraddizione? Non necessariamente, per Steinitz. «Dipende dalla strategia Usa. È possibile che usino il dialogo per stabilire un ultimatum chiaro».
Il deputato garantisce «ottimi rapporti» tra il democratico Obama e il falco Netanyahu.
Ma se Obama non l'appoggiasse, Israele sarebbe pronto ad attaccare l'Iran da solo?
Steinitz non risponde, dice solo che l'opzione militare non è esclusa.
CORRIERE della SERA - Alessandra Coppola : " Intenzione buona, ma poco tempo "
L'intenzione è buona, valuta Dan Gillerman, è il tempo che manca: «Entro l'anno l'Iran avrà l'atomica». Diplomatico con una lunga esperienza da mediatore (anche con il Libano nel 2006), già rappresentante permanente di Israele all'Onu, Gillerman ha ascoltato ieri il messaggio del presidente Usa che offre «un nuovo inizio» a Teheran. «Apprezzo la volontà di Obama di voler dare una chance alla diplomazia — dice —. È quello che vogliamo tutti e che tentiamo di fare da anni. Mi chiedo, però, se abbia tenuto conto dell'elemento più importante: l'urgenza». I rapporti dell'intelligence ai quali ha avuto accesso Gillerman dicono che la Repubblica islamica «è molto vicina al punto di non ritorno: entro la fine del 2009 avrà il know-how e la capacità tecnica per costruire la bomba atomica». Un rischio per l'interna comunità internazionale, sottolinea: il regime iraniano «non è solo disposto a premere il bottone contro Israele, ma è anche abbastanza folle da consegnare l'atomica a gruppi di terroristi come Al Qaeda». «Obama ha fatto bene a rivolgersi alla popolazione — continua— che ha un'alta percentuale di giovani, molti con un'istruzione universitaria. Se ci fosse il tempo, non si potrebbe escludere un rovesciamento di regime. Ma il tempo non c'è. Bisogna fissare una scadenza». Il consiglio che l'ambasciatore dà a Washington è, in prima battuta, «coinvolgere al tavolo delle trattative Russia e Cina, cruciali per fare pressione su Teheran». Subito dopo, «stabilire una
deadline, altrimenti assisteremo al solito copione: l'Iran è maestro nel tirare per le lunghe i negoziati continuando nei suoi piani». Gillerman immagina una scadenza «a sei mesi», per esempio, superati i quali «se Teheran non onora gli impegni presi, entrano in gioco tutte le altre opzioni.
Inclusa quella militare».
La STAMPA - Maurizio Molinari : " I tre consiglieri dietro la svolta alla Casa Bianca "
I tre consiglieri scelti da Obama sono Juan Cole, professore di storia del Medio Oriente all'università del Michigan, sostenitore del " diritto al nucleare civile iraniano " , Emile Nakhle analista fino al 2006 del desk Islam della Cia e Fareed Zakaria, direttore del Newsweek e grande sostenitore del "dialogo" con i regimi fondamentalisti mediorientali ( anche se, in essi, non c'è libertà d'espressione, non sono tutelati i diritti umani e anche se chiamano gli Usa "Grande Satana" e predicano la distruzione di Israele dalla sua fondazione).
Ecco l'articolo:
Sul comodino di Barack Obama nella camera da letto al secondo piano della West Wing vi sono due libri che gli consigliano l’«engagement» (impegno diretto) con il mondo dell’Islam. Si tratta di «Engaging the Muslim World», firmato dall’arabista dell’Università del Michigan Juan Cole, e «A Necessary Engagement» di Emile Nakhle, fino al 2006 analista di punta del desk Islam della Cia nella centrale di Langley.
Le tesi dei due autori sono convergenti. Entrambi partono dai «problemi di linguaggio» chiedendo di azzerare il vocabolario ereditato dal predecessore George W. Bush per proiettare una nuova immagine dell’America nel mondo islamico. Per Cole «bisogna rinunciare alla dottrina della guerra preventiva» abolendo tanto il termine quanto la «politica percepita come aggressiva» mentre per Nakhle «Obama già non parla più di guerra al terrore ma deve cessare anche di parlare di guerra in Iraq o in Afghanistan» preferendo termini come «ricostruzione».
Al posto delle varie declinazioni, politiche o lessicali, di «war» Cole e Nakhle suggeriscono al presidente di sviluppare il tema dell’«engagement» sin dal discorso che farà in Turchia all’inizio di aprile. Per «impegno diretto» o «coinvolgimento» Cole suggerisce di cercare interlocutori fra «chi si batte per la libertà e la democrazia in Afghanistan, Iraq e altrove» mentre Nakhle fa un passo in più chiedendo al presidente di «parlare apertamente con i gruppi fondamentalisti legittimamente eletti nei rispettivi Paesi» come nel caso del partito islamico del premier Erdogan in Turchia, dei Fratelli musulmani in Egitto e anche dei palestinesi di Hamas nella Striscia di Gaza.
E’ in tale cornice che si inserisce l’articolo scritto da Fareed Zakharia, direttore del magazine Newsweek, il cui titolo «Imparare a vivere con l’Islam radicale» riflette la convinzione che «non tutti i fondamentalisti sono terroristi» e «il chador non equivale alla cintura esplosiva dei kamikaze»: dal Pakistan all’Iran all’Afghanistan possono essere gli «islamici radicali che non vogliono la violenza» i nuovi interlocutori degli Stati Uniti. Cole, Nakhle e Zakharia sono convinti che debba cadere il «tabù che circonda il fondamentalismo islamico» dall’indomani degli attacchi dell’11 settembre. «L’America deve essere neutrale di fronte alla religione islamica» scrive l’arabista della Michigan University. «Dobbiamo far nascere nel nostro Paese un’accademia di studi religiosi per formare imam capaci di girare il mondo» aggiunge l’ex analista della Cia, secondo il quale «la comunità musulmana degli Stati Uniti dovrebbe essere maggiormente coinvolta» e magari uno dei suoi esponenti di spicco dovrebbe «avere un ufficio alla Casa Bianca come consulente del presidente per i rapporti con l’Islam». Sul piano delle iniziative diplomatiche da intraprendere a sbilanciarsi di più è Cole, secondo il quale «bisogna far nascere lo Stato di Palestina nel tempo più breve possibile» mentre la «dottrina dell’engagement potrebbe funzionare molto bene con l’Iran» perché «rafforzerebbe i moderati indebolendo l’ala destra della teocrazia».
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