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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Repubblica - Il Manifesto - L'Unità Rassegna Stampa
12.02.2009 Elezioni israeliane: i commenti dei catastrofisti
gli articoli di Tom Segev, Alberto Flores D'Arcais, Zvi Schuldiner, Michele Giorgio, Umberto De Giovannangeli

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica - Il Manifesto - L'Unità
Autore: Tom Segev - Alberto Flores D'Arcais - Zvi Schuldiner - Michele Giorgio - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «L'uomo forte che non serve - Il voto preoccupa gli Usa e Obama chiama Peres - L'ANP nell'angolo, ora Ramallah lancia l'sos a Barack Obama - Grazie alla guerra - Ramallah pessimista: hanno scelto un razzista che vuole distruggerci»

Di seguito riportiamo i commenti sulle elezioni di Tom Segev dal CORRIERE della SERA, di Alberto Flores D'Arcais da REPUBBLICA e alcune brevi da  MANIFESTO  e UNITA'.

CORRIERE della SERA - Tom Segev : " L'uomo forte che non serve ", prima pagina e pagina 2.

Nel febbraio del 2000 Israele richiamò il suo ambasciatore dall'Austria dopo la formazione di un nuovo governo di cui faceva parte anche un partito di estrema destra, quello guidato da Jörg Haider.
Il governo israeliano sosteneva di non poter restare a guardare davanti all'ascesa di formazioni di estrema destra, dopo l'Olocausto. Nove anni dopo, il partito di estrema destra di Lieberman è diventato il terzo partito in Israele, con 15-16 seggi sui 120 della Knesset, un balzo del 50% rispetto al precedente voto. Lieberman invoca nuovi confini per Israele, si prefigge di rinchiudere dietro un muro la maggior parte del suo quasi milione e mezzo di cittadini arabi, per affidarli al governo palestinese. Ci sono varie formule per comporre la prossima coalizione, ma Lieberman potrebbe effettivamente diventare la colonna portante di un governo Netanyahu. Una prospettiva allarmante. Benché vulnerabile, la democrazia israeliana ha saputo superare molte prove. Ma oggi appare duramente colpita, più che in passato.
Il successo di Lieberman arriva in un momento molto delicato nei rapporti tra Israele e Stati Uniti, che si presumono basati su comuni valori democratici. In realtà il divario tra l'improvvisa reazione razzista di Israele e gli ideali del governo Obama potrebbe rivelarsi profondo. I partiti di estrema destra esistono in molti Paesi democratici, Israele compreso. Negli anni Ottanta, il rabbino Meir Kahane, nato in Usa, fu eletto alla Knesset grazie a un programma scandalosamente anti-arabo. Ma Kahane era l'unico membro di quel partito, presto bandito. Lieberman, invece, è stato attento a restare nei limiti della legalità, anche se la sua campagna elettorale ha fatto appello al pregiudizio e alla xenofobia.
Per alcuni di noi, il suo successo è un pugno allo stomaco.
Per anni ci siamo lusingati di essere immuni al razzismo, in quanto ebrei. Abbiamo voluto credere che la continua oppressione dei palestinesi in Cisgiordania non avrebbe scalfito la nostra democrazia. Ci ripetevamo con orgoglio di essere incapaci di odiare: è il nemico che ci odia. Ora pare che l'odio sia diventato legittimo anche per noi. Non è difficile vedere le ragioni di tutto ciò. Dai giorni di Kahane oltre un milione di ebrei è entrato in Israele dall'ex Urss e come Lieberman non ha portato con sé tradizioni democratiche. Molti di loro lo sostengono. Come tanti altri israeliani. La maggioranza degli israeliani appoggia tuttora i partiti democratici, ma in questo momento molti si sentono più che mai abbattuti dal cinismo e dal pessimismo. Abbiamo perso speranza nella pace e fiducia nella classe politica.
Purtroppo, entrambi questi atteggiamenti traggono spunto dalla realtà. Il cosiddetto «processo di pace» con i palestinesi si è rivelato una finzione diplomatica. Il terrorismo libanese e palestinese è continuato imperterrito, provocando negli ultimi anni ben due guerre e ora anche l'Iran si profila come una paurosa minaccia. Il primo ministro Ehud Olmert, costretto a dimettersi per corruzione, ha tolto agli israeliani le ultime illusioni politiche. Non mancano le apprensioni per l'economia. È naturale che molti propendano per l'uomo forte.
Tutto questo non fa che riflettere la classica ascesa di simili movimenti in altri Paesi. Amici e nemici di Israele ne potranno trarre un'utile lezione: gli israeliani non sono diversi dagli altri popoli. Né migliori né peggiori. La buona notizia: è poco probabile che l'Austria richiami il suo ambasciatore da Tel Aviv.

La REPUBBLICA - Alberto Flores D'Arcais : " Il voto preoccupa gli Usa e Obama chiama Peres ", pagina 2

NEW YORK - Per la Casa Bianca di Obama il risultato elettorale israeliano non è una buona notizia. Il presidente Usa ha telefonato ieri sera al capo di stato israeliano Shimon Peres per informarsi sull´andamento delle consultazioni che condurranno alla formazione di un nuovo governo. Le prime parole di commento invece sono state affidate a Robert Wood, portavoce del ministero degli Esteri. Parole di circostanza - «il governo israeliano deve essere formato, avremo colloqui una volta che sarà in carica» - in attesa di capire chi sarà il prossimo premier: «La cosa importante è che non vediamo l´ora di lavorare con chiunque lo guiderà». Concetti ribaditi dal portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, che alle congratulazioni di rito per il successo della consultazione democratica aggiunge soltanto: «Finché non abbiamo qualcosa di più definitivo, è difficile entrare nello specifico, eccetto che il presidente è ansioso di lavorare con Israele e con coloro nella regione capaci di modellare una pace durevole».
Un tono prudente e diplomatico perché Israele è il maggior alleato degli Stati Uniti in Medio oriente, ma dalle stanze di "Foggy Bottom" i pochi, anonimi commenti che circolano lasciano trapelare una certa delusione. Che Obama (e la Clinton) puntassero su una vittoria della Livni e in un migliore risultato dei laburisti di Barak non è un mistero. L´affermazione dell´estrema destra di Avigdor Lieberman preoccupa, come sintetizza Aaron David Miller, che al Dipartimento di Stato ha lavorato per vent´anni, è stato un consigliere per il Medio oriente di sei Segretari di Stato, ha lavorato nel team di negoziatori alla fine degli anni Novanta e oggi è un ascoltato analista: «È come se avessero messo il cartello "chiuso per ferie" su ogni possibile negoziato, per il prossimo anno e forse anche oltre». Anche per un governo di unità nazionale sarebbe impossibile trovare un accordo sui negoziati, aggiunge, «e potremo avere un governo ottimo per la guerra ma non per la pace».
Alla domanda su un possibile ingresso nella coalizione del partito di Lieberman, il portavoce del Dipartimento di Stato Robert Wood ha replicato sostenendo che «non sta agli Stati Uniti fare questo tipo di commenti, è una scelta che ha fatto il popolo israeliano; noi abbiamo un´agenda robusta con il governo israeliano, negli anni abbiamo lavorato con governi differenti e certamente perseguiamo la soluzione basata su due Stati». Lo stesso tono viene usato da Michael Hammer, il portavoce del Nationla Security Council: «Attendiamo di lavorare con il prossimo governo per rafforzare la relazione speciale tra Stati Uniti ed Israele. Il nostro obiettivo è quello di garantire la sicurezza di Israele e andare avanti nel processo di pace con i palestinesi e gli altri vicini di Israele».
Le difficoltà di Obama vengono sottolineate anche dal Washington Post. Secondo il quotidiano della capitale molti dei protagonisti della politica mediorientale dell´attuale amministrazione, reduci dai difficili rapporti a metà degli anni Novanta (quando era presidente Bill Clinton e il premier israeliano era Benjamin Netanyahu) sono molto preoccupati. «La nostra speranza è di avere un governo che sia veramente impegnato per la pace con i palestinesi», è l´auspicio espresso, con poca convinzione, da un anonimo funzionario della Casa Bianca. «Ci troveremo di fronte ad un governo incerto, problematico, in grado solo di navigare a vista per sopravvivere», sostiene Daniel Levy, altro ex negoziatore in Medio oriente.
In attesa della nomina del nuovo premier, l´unica cosa certa è che l´inviato speciale di Obama manterrà le date dei suoi impegni. George Mitchell, infatti, si recherà a fine mese nella regione. L´incontro con i nuovi governanti di Gerusalemme sarà la prima cartina di tornasole per la politica estera di Obama in Medio oriente.

Il MANIFESTO commenta i risultati delle elezioni con gli articoli di Michele Giorgio (" L'ANP nell'angolo, ora Ramallah lancia l'sos a Barack Obama", pagina 2) e di Zvi Schuldiner (" Grazie alla guerra ", pagina 1-2).
Michele Giorgio analizza i risultati delle elezioni dal punto di vista palestinese e, con la frase "
Ad Abu Mazen americani, europei e israeliani di fatto vietano una vera riconciliazione con Hamas e condizionano la creazione di un governo palestinese di unità nazionale all'esclusione dalle posizioni di responsabilità del movimento islamico. Washington è pronta a fare lo stesso con Israele pur di tenere in piedi le trattative? " suggerisce al lettore che, se oggi non esiste uno stato palestinese, è colpa di israele e non di Hamas. Giorgio sostiene che Hamas sarebbe esclusa da posizioni di responsabilità (in realtà controlla Gaza..) e si chiede se anche in Israele accadrà lo stesso con i presunti estremisti...ma dimentica di specificare a chi si riferisce. Forse la frase è deliberatamente ambigua  perchè, mentre ad Hamas interessa solo la cancellazione di Israele, Israele non vuole distruggere nessuno e quindi in Israele non c'è un corrispettivo  di Hamas.
Zvi Schuldiner, invece, riesce a criticare il governo "di destra" votato dagli israeliani prima ancora che venga formato. Ci complimentiamo con lui per le sue doti divinatorie (chissà che non possa trasmetterle anche agli israeliani che, in questi giorni, dovranno formarlo davvero un governo). Tralasciamo di commentare le sue trite affermazioni sulla guerra ingiusta a Gaza e non riportiamo i due pezzi del MANIFESTO per non annoiare i lettori.

L'UNITA'- Umberto De Giovannangeli : " Ramallah pessimista: hanno scelto un razzista che vuole distruggerci ", pagina 26.
Anche u.d.g. dà spazio al punto di vista palestinese, La frase finale, pronunciata da un giovane cittadino di Ramallah, ( "
Rispetto la democrazia (israeliana) ma allo stesso tempo è assurdo che le scelte del popolo israeliano decidano il futuro di quello palestinese "), in particolare, è fuorviante per il lettore perchè lascia credere che i palestinesi non hanno un loro stato per colpa dei governi israeliani. Questo è falso. Sono stati gli arabi stessi a rifiutare la spartizione dei territori in due stati.

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