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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - Il Riformista - L'Opinione Rassegna Stampa
12.02.2009 Elezioni israeliane:rassegna di commenti
di R. A. Segre, Davide Frattini, Maurizio Molinari, Anna Momigliano, Michael Sfaradi

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - Il Riformista - L'Opinione
Autore: R. A. Segre - Davide Frattini - Maurizio Molinari - Anna Momigliano - Michael Sfaradi
Titolo: «E alla fine il vincitore rischia di essere Olmert - Labour, la fine di un grande mito - Gli analisti: troppi ultrà - grattacapo per Obama - La pace è in fondo a destra - Israele, queste elezioni hanno partorito l’assurdo»

I commenti sui risultati delle elezioni: di seguito gli articoli di R. A. Segre sul GIORNALE, di Davide Frattinisul CORRIERE della SERA, di Maurizio Molinari sulla STAMPA e un editoriale della redazione del FOGLIO.
Ecco gli articoli:

IL GIORNALE - R. A. Segre : " E alla fine il vincitore rischia di essere Olmert ", pagina 15

L’elettorato israeliano ha prodotto col suo voto martedì una ricetta di governo fatta di instabilità interna e di immobilismo in politica estera, sempre che i voti dei soldati, del personale delle ambasciate all'estero e degli israeliani a bordo delle navi mercantili, non riduca ancora di più nelle prossime ore il lievissimo vantaggio che Kadima ha sorprendentemente ottenuto sul Likud di Netanyahu.
Per il momento tre cose sono chiare. La signora Livni, ammesso che riceva il mandato a formare il nuovo governo, non riuscirà a farlo a meno che riesca ad attirare nella sua coalizione il partito nazionalista Israel Beitenu di Lieberman che nonostante la sua dichiarata politica anti araba (ma anche anti-religiosa ortodossa) non si è dichiarato contrario a proseguire i negoziati coi palestinesi per la creazione di un loro Stato.
Secondo, il fronte della destra può contare su 63-65 mandati (su 120) al parlamento. Ma si tratta di una combinazione di forze ibride, laiche e religiose, populiste e capitaliste; nazionaliste «ebraiche» e non ebraiche.
In questa coalizione, ammesso che nasca con la guida di Netanyahu, la presenza di Lieberman (che con le sue dichiarazioni estremiste è stata la principale ragione della perdita dei voti per il Likud) diventerà, come avevamo previsto su queste pagine, l'ago della bilancia all'interno del governo e un freno per ogni iniziativa pro palestinese.
Infine e paradossalmente, a meno che per miracolo non si possa formare un nuovo governo nella prossima settimana, i negoziati si potrebbero protrarre sino ad aprile, mantenendo alla testa dell'esecutivo il premier ingiustamente vilipeso, Ehud Olmert.
Da molti ora rimpianto, questo politico che ancora dispone di pieni poteri, potrebbe portare a decisioni importanti, sia nel caso di risposte al tiro dei missili da Gaza sia per lo scambio di prigionieri e la liberazione del caporale Shalit, diventato ormai un simbolo per gli israeliani.
Tutto questo sempre che, per un balzo di spirito patriottico, la Livni e Netanyahu non riescano a controllare il loro ego personale e a ridurre le loro ingiustificate pretese di potere realizzando un governo di unione nazionale che il Paese approverebbe con entusiasmo. In una coalizione del genere ci sarebbe posto anche per il Labour, partito storico di Ben Gurion, che esce come le altre formazioni di sinistra duramente bastonato da queste elezioni ma che dispone ancora di ottimo personale politico.
Fare previsioni a più lungo termine in una situazione così complicata è impossibile anche perché nessuno è in grado di conoscere le vere intenzioni della nuova amministrazione Usa per il Medio Oriente e ancor meno quelle dei palestinesi - sia di Gaza che di Cisgiordania - che troppo divisi e deboli per impegnarsi in iniziative costruttive, mantengono intatta la loro tradizionale capacità di disturbo.
 
CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Labour, la fine di un grande mito ", prima pagina e pagina 5.
 
TEL VIV — Il condominio giallo sta piazzato nel mezzo del caos caldo di via Sheinkin a Tel Aviv. Qui il premier Ehud Olmert ha comprato un appartamento, la moglie Aliza voleva un rifugio dove scappare da Gerusalemme nei fine settimana.
Qui fino a 13 anni fa veniva pensato e pubblicato Davar,
il giornale del sindacato israeliano, l'Histradut, che assieme al partito laburista ha controllato per decenni il Paese. Gli speculatori hanno lasciato marcire il palazzo Bauhaus per tirare su un edificio moderno che avrebbe incupito l'umore razionalista dei primi architetti sionisti.
«Israele sarà vestita di cemento e calcestruzzo», proclamava una canzone degli anni Quaranta. Cemento, calcestruzzo e socialismo. Materiali d'importazione europea che i giovani immigrati trapiantarono in Medio Oriente per costruire nuove case e un nuovo uomo. «La sinistra nello Stato ebraico — scrive Ian Buruma — è sempre stata una riserva dell'élite. Il socialismo non è emerso dai problemi economici di un proletariato locale, che non esisteva. E' arrivato assieme all'architettura, a Chopin, Rilke e Brahms».
I palazzi Bauhaus perdono l'intonaco, l'Histradut (ridotto a un terzo degli iscritti) e il movimento laburista (al minimo storico di deputati alla Knesset) perdono i pezzi. «E' stato un Olocausto elettorale — commenta Sever Plocker su Yedioth Ahronoth —. Ehud Barak e i suoi consiglieri non hanno saputo presentare un piano contro la crisi globale che colpisce il Paese. Si sono appiattiti sulla sicurezza, invece di lanciare un appello alle migliaia di israeliani che perderanno il posto nei prossimi mesi».
Barak è cresciuto nel kibbutz Mishmar HaSharon, dove ha piantato un albero, pochi giorni prima del voto. I frutti sono andati a Kadima anche in questi villaggi collettivi che una volta erano una roccaforte. Il partito di centro fondato da Ariel Sharon (e guidato da Tzipi Livni) ha preso il 31,1 per cento contro il 30,6 dei laburisti. Nei moshav — la versione suburbana, scelta dalla classe media in risalita — la sconfitta diventa un massacro: 28,8 contro 16,5. Riflette Gavri Bar Gil, che guida il movimento dei kibbutz: «Anche tra di noi, molti hanno pensato che l'unico modo di fermare Benjamin Netanyahu fosse votare per Kadima».
La crisi della sinistra arriva da più lontano. Dopo il fallimento delle trattative a Camp David, Barak convince gli israeliani che tra i palestinesi non ci sia un partner per dialogare. Tre anni dopo, Sharon batte Amram Mitzna e poi fa sua l'idea dell'avversario laburista: ritiro dalla Striscia di Gaza. «Solo che l'ha realizzata nel modo sbagliato, senza un accordo — continua Bar Gil —. Gli israeliani dicono: ce ne siamo andati e abbiamo ricevuto in cambio Hamas e Qassam. Accusano noi».
L'utopia collettiva perde l'innocenza (e pure qualche milione di dollari) in una serie di speculazioni negli anni Ottanta, quando qualche ammini-stratore di kibbutz si sente Gordon Gekko a Wall Street. Come aveva predetto David Ben-Gurion, padre fondatore della patria: «In una società capitalista, il kibbutz diventerà capitalista ». «E un partito che si chiama laburista può avere un leader capitalista?», si chiede il critico letterario Nissim Kalderon, che dieci anni fa aveva organizzato il convegno «Che cosa resta della sinistra?».
Stroncato da Sharon alle elezioni del 2001, Barak ha fondato una società che, prima del suo ritorno in politica, ha fatturato quasi sei milioni di euro, senza contare i compensi accumulati con le consulenze e le conferenze in giro per il mondo.
L'attico del soldato più decorato della storia d'Israele sta al trentaduesimo piano dei grattacieli Akirov, torri extralusso nel nord di Tel Aviv. «Da lassù è difficile vedere come vive un poveraccio a Beersheva », insiste Kalderon. «La sinistra deve chiudere con la tradizione. Ci vogliono nuove ricette socialdemocratiche che parlino ai giovani, agli immigrati russi. La nostra bandiera non può più essere solo la soluzione dei due Stati, perché ormai rappresenta la bandiera di quasi tutti. E' la fine di un lungo viaggio».
«La fine è cominciata nel 1977», spiega la scrittrice Avirama Golan su Haaretz. Quando la destra di Menachem Begin tolse per la prima volta il governo ai laburisti, dopo ventinove anni di potere incontrastato. «Il dramma che si è consumato in queste elezioni non è l'indebolimento del partito, ma la scomparsa di un movimento che per decenni ha preso decisioni coraggiose, costruito industrie e comunità, elevato il lavoratore su un piedistallo». Meir Shalev guarda dieci anni più indietro. «Il tracollo è cominciato con la guerra dei Sei giorni, quando anche i laburisti si sono lasciati prendere dall'euforia dell'occupazione. Allora abbiamo perso l'identità, anche se un'ala destrorsa è sempre esistita». Lo scrittore ricorda Yitzhak Tabenkin («un lontano parente ») che nel 1937 si oppose al piano di partizione della Palestina.
«A furia di combattersi tra di loro, hanno commesso suicidio». Ran Feingold, fino al 2006 leader dei giovani laburisti, è passato a Kadima, quando la vittoria di Amir Peretz alle primarie ha messo nell'angolo gli uomini di Shimon Peres come lui. «Quando ti iscrivi, ti danno la tessera e un coltello. Mica per gli avversari, per le faide interne». La rivalità tra i leader — ricorda Yossi Sarid — risale ai tempi della fondazione (del partito e dello Stato). «Golda Meir decise di accettarmi come portavoce del governo, anche se non le piacevo, solo perché sapeva che pure io non sopportavo Shimon Peres».
 
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Gli analisti: troppi ultrà - grattacapo per Obama", pagina 7.

La Casa Bianca plaude al funzionamento della democrazia israeliana, manda l’inviato George Mitchell in una nuova missione a Gerusalemme ed evita pronunciamenti sul risultato elettorale, ma fa sapere: «Siamo impazienti» di «proseguire gli sforzi per la pace». All’indomani del voto nello Stato ebraico Barack Obama chiama il presidente israeliano Shimon Peres definendo le elezioni appena celebrare «un esempio di democrazia per il mondo intero» riaffermando il comune impegno per la soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese». Sul duello per la guida del governo fra Tzipi Livni e Benjamin Netanyahu la Casa Bianca sceglie invece la prudenza nella consapevolezza che «influiranno più ragioni interne che di politica internazionale» come dice una feluca, ricordando come «passati tentativi di influenzare la formazione di governi non hanno dato risultati positivi».
Il portavoce della Casa Bianca, Mike Hammer, tiene però a sottolineare che gli Stati Uniti «plaudono al funzionamento della pacifica democrazia israeliana» e si «adopereranno fermamente ad assicurare la pace e la sicurezza» facendo capire che chiunque sarà il nuovo premier si troverà di fronte alle richieste di Obama di accelerare il negoziato con i palestinesi per arrivare alla soluzione dei due Stati. «Aspettiamo con impazienza di lavorare con il prossimo governo, con l’intenzione di adoperarci per la sicurezza di Israele e per i progressi della pace fra Israele e i palestinesi, Israele e i suoi vicini» aggiunge la Casa Bianca. Anche per questo il Dipartimento di Stato fa sapere che «alla fine del mese» l’inviato Mitchell sarà di ritorno a Gerusalemme «per colloqui».
Se l’amministrazione vuole far sapere che l’impegno per un soluzione in Medio Oriente non è legato al nome del premier, fra gli analisti di Washington vi sono pareri discordi sull’impatto del voto sulle prospettive di pace. Aaron David Miller, ex negoziatore Usa a fianco del Segretario di Stato Colin Powell, ritiene che «il risultato è l’equivalente di un cartello "chiuso per ferie" sul processo di pace almeno per il prossimo anno» in ragione del fatto che «per un governo di coalizione sarà assai più facile fare la guerra che la pace» e dunque si trasformerà in «un grattacapo per Obama» in ragione della «contrarietà a fare concessioni da parte di Lieberman come di Netanyahu». «Se fossi un consigliere di Obama gli direi - aggiunge Miller - che è l’occasione per evitare di fare scelte difficili e prendere tempo in quanto Israele non è per il momento nella condizione di decidere nulla».
Stevem Spiegel, politologo dell’«Israel Policy Forum», ritiene invece che «Washington preferirebbe avere Livni come premier perché è conosciuta a Washington per essere una moderata con la quale è facile cooperare». Haim Malka, del Centro di studi strategici internazionali, concorda: «Livni non possiede il bagaglio ideologico di Netanyahu, Obama è un pragmatico e spera di avere lei come interlocutore». Tanto più che Dennis Ross, il negoziatore a cui Hillary sta per assegnare il dossier iraniano, una volta definì il leader del Likud «quasi insofferente» a causa dei suoi modi. Per Efraim Inbar, direttore del Centro Begin-Sadat, invece «Netanyahu conosce a fondo l’America, farà di tutto per andare d’accordo con Obama» e potrebbe rivelarsi un «interlocutore più solido di Livni» perché maggiormente in grado di garantire la tenuta di un governo di centrodestra di fronte a scelte negoziati difficili.

Il FOGLIO - " La pace è in fondo a destra ", pagina 3.

Il risultato delle elezioni israeliane, che ha segnato uno spostamento verso destra dell’asse politico del paese, ha suscitato la solita ondata di commenti di delusione e di preoccupazione, che nasce dal luogo comune secondo il quale “la pace è di sinistra”. Applicare questo pregiudizio, in particolare, alla situazione delle relazioni tra Israele e i suoi vicini è del tutto fuorviante. A parte il fatto che Israele ha combattuto quattro guerre sotto la guida di premier laburisti, che hanno anche deciso l’occupazione dei territori palestinesi, le trattative con la rappresentanza palestinese si sono svolte indifferentemente con governi israeliani di diverso segno politico. D’altra parte nessun governante israeliano può accedere a una pace che non garantisca nel contempo la sicurezza dei cittadini israeliani. Il leader laburista Ehud Barak (che tra l’altro è il generale insignito di più onorificenze militari in Israele) è il ministro della Difesa che ha pianificato e diretto la recente operazione nella Striscia di Gaza. Anche per questo le definizioni politiche statiche si attagliano male alla realtà israeliana. Il maggior partito che oggi viene definito di centrosinistra, Kadima, è stato fondato da Ariel Sharon, che quando divenne premier per la prima volta veniva considerato il più duro dei “falchi”. Sharon poté decidere il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza, per dare ai palestinesi una prima possibilità di sperimentare l’autogoverno, proprio perché gli israeliani erano certi della sua fermezza nel difendere la loro sicurezza. E’ l’uso dissennato e fratricida che i palestinesi hanno fatto di quella opportunità, trasformando la Striscia, occupata da Hamas con un colpo di stato, nella base di un’aggressione continua, che ha determinato l’inasprimento del conflitto. Quando Israele avrà un nuovo governo, sempre che lo stallo politico non imponga la ripetizione delle elezioni, qualunque sia la sua composizione, l’esecutivo non potrà che mantenere la posizione di fondo, in realtà comune a tutti i partiti: scongiurare la minaccia iraniana sempre più aggressiva e cercare una composizione con i palestinesi che accettino di rinunciare al terrorismo. Una democrazia non cambia posizionamento strategico per il prevalere temporaneo di un partito o di un altro. Il vero problema per la pace sta altrove, a Teheran e nei movimenti estremistici palestinesi legati alla teocrazia iraniana. Con questi Israele non ha fatto la pace e non la farà quale che sia il partito che guida il governo.

Il RIFORMISTA - Anna Momigliano : " Tel Aviv a Tzipi, Gerusalemme a Bibi ", pagina 9.

Gli abitanti di Tel Aviv vengono da Venere, quelli di Gerusalemme da Marte. Il risultato elettorale è l'ennesima conferma che Israele è sempre più diviso in due.
«Gerusalemme vota Likud, Tel Aviv Kadima» titolava ieri il Jerusalem Post, anche se la differenza più marcata riguarda l'andamento della destra radicale. Fosse stato per gli abitanti di Tel Aviv, oggi ci sarebbe già una coalizione di centro-sinistra al governo: il 34% di loro ha votato Tzipi Livni, il 15% per i laburisti e addirittura l'8% per Meretz/Nuovo movimento, il partito sionista pacifista che si è fuso con il movimento degli scrittori promosso da Amos Oz (e che nel resto del Paese ha preso circa il 3%). Il Likud ha ottenuto il 19% dei voti, non molti meno di quanti ne ha avuti su base nazionale: il 21%, cioè 27 seggi, secondo le proiezioni di Haaretz. Il punto è che nella "bolla" la destra radicale è andata malissimo. "Israele è casa nostra" di Avigdor Lieberman ha ricevuto il 6%, proprio come lo Shas, il movimento religioso di rito orientale: probabilmente a votare Shas e Lieberman sono stati soprattutto gli immigrati russi e yemeniti che vivono nei sobborghi a Sud della città. A Gerusalemme invece Kadima ha ottenuto appena l'11% dei voti, meno della metà di quanti ne ha ottenuti su scala nazionale. Il Likud ha ricevuto il 24% dei consensi. I partiti religiosi hanno fatto incetta: Shas ha raggiunto il 15%, il Giudaismo Unito nella Torà addirittura il 19%, davvero un'enormità se si tiene conto che su base nazionale ha raggiunto appena il 4.
Da un lato Gerusalemme, la città eterna circondata da villaggi arabi e dagli insediamenti dei coloni, sempre in prima linea nella lotta per la sopravvivenza, dove ogni anno aumenta la popolazione religiosa e conservatrice, mentre gli altri fanno le valige: troppa tensione. Dall'altro lato l'area della grande Tel Aviv, abitata soprattutto da laici e progressisti, un mondo che si aggrappa con le unghie e con i denti all'illusione di avere una vita normale che va avanti nonostante il conflitto: "la bolla" (ha-buah) la chiamava il giovane regista Eytan Fox, a sottolineare che è un mondo chiuso rispetto al resto del Paese. Anche se non è una realtà minoritaria, visto che da sola la "grande Tel Aviv" rappresenta quasi la metà della popolazione israeliana (3,1 milioni di abitanti su un totale di 7,2).
Ma c'è dell'altro. Basta guardare come ha votato Sderot, la cittadina nel deserto del Neghev che da otto anni si trova alla mercé dei razzi palestinesi: a Sderot c'è stata una vittoria schiacciante del Likud, che ha raggiunto il 33% dei consensi, seguito dal 23% di "Israele è casa nostra". Kadima ha ottenuto appena il 12%, persino meno dello Shas (13%), e i voti laburisti si contano sulle dita di una mano. Un segnale forte, che arriva da una città considerata solo fino a pochi anni fa un bastione della sinistra sindacalista: l'ex ministro della Difesa laburista Amir Peretz era appunto sindaco di Sderot.
Oltre alla divisione che da tempo separa i laici dai religiosi, in Israele si sta approfondendo la distanza (politica, ma anche culturale) tra chi è in prima linea e chi non lo è. Tra i cittadini del Neghev che vivono sotto la pioggia costante dei razzi, si sta diffondendo una certa diffidenza verso gli abitanti di Tel Aviv, «che fanno i puri di cuore sulle spalle degli altri». Per questo gli studenti del Sapir College hanno creato una simulazione video di un razzo che colpiva il centro commerciale Azrieli, per fare vedere a Tel Aviv che effetto fa vivere sotto i qassam. «Piantate di prendervela con Tel Aviv» ha risposto su Yediot Ahronot l'editorialista Yair Lapid, che vive nella città. «Anche noi abbiamo avuto i nostri missili: i primi ricordi di mio figlio sono gli scud lanciati da Saddam».

Da L'OPINIONE,  "Israele, queste elezioni hanno partorito l’assurdo, di Michael Sfaradi":

Che gli israeliani riescano spesso a complicarsi la vita è risaputo ma questa volta sono riusciti a battere tutti i record. I risultati dell’ultima tornata elettorale, infatti, lasciano aperti diversi scenari sul futuro politico della nazione. Anche se Kadima con 28 seggi è il primo partito in Parlamento, Tzipi Livni difficilmente riuscirà a comporre una maggioranza per portare al presidente Peres la lista di un suo eventuale governo senza l’aiuto della destra. Questo perché il Likud di Netanyahu 27 seggi e Israel Beitenu di Lieberman 15 seggi, se messi all’opposizione, sarebbero un muro invalicabile che non permette di governare. Il partito di sinistra Havoda di Ehud Barak esce da questa tornata elettorale con le ossa a pezzi e con i 13 seggi ottenuti non può essere di nessun aiuto in un’eventuale coalizione di Kadima a sinistra. La Livni, da politica pragmatica, dopo aver dichiarato la sua “vittoria” ha fatto appello a Netanyahu per un governo di unità nazionale in grado di affrontare le difficoltà dovute alla recessione mondiale, ai gravi problemi di sicurezza e, qualora ce ne fossero i presupposti, di intavolare le trattative per una pace duratura con i palestinesi e il mondo arabo. E’ difficile però, almeno per il momento, capire se l’appello possa essere accolto perché Netanyahu è chiamato ad una scelta difficile: da una parte sa di poter contare su un’alleanza di destra e religiosa che, anche se gli potesse permettere una solida maggioranza in Parlamento gli renderebbe però la vita impossibile con continue richieste di denaro che peserebbero non poco sulle casse dello stato, dall’altra sa che un governo di unità nazionale non sarebbe sotto la sua guida ma di quella della Livni.

Per cui, prima di accettare o rifiutare la proposta, dovrà scegliere quale è per lui il male minore tenendo anche presente che un governo di destra, soprattutto dopo le operazioni militari di Gaza, troverebbe enormi ostilità nei rapporti internazionali. In questa confusione chi ci guadagna sono i religiosi di Shas, che come al solito attendono per vendere al miglior offerente i loro 11 seggi. Non dimentichiamo che le elezioni furono anticipate proprio perché la Livni si rifiutò di accettare le condizioni che il partito religioso aveva posto per la sua eventuale partecipazione e non è da escludere che il previsto ridimensionamento di Kadima non sia avvenuto proprio perché parte dell’elettorato, stanco dei continui ricatti della minoranza religiosa, abbia apprezzato il coraggio con il quale la signora Livni ha rifiutato quello che era un vero ricatto assumendosi la responsabilità di far richiamare la nazione alle urne. Tzipi Livni sa che lo spostamento a destra è un chiaro segnale di gran parte dell’elettorato e questo la costringe ad accettare, nel caso di un governo di unità nazionale, anche la presenza di Lieberman che da parte sua, durante il discorso in cui annunciava ai suoi militanti il successo ottenuto, ha avuto parole di elogio proprio per Tzipi Livni e questo potrebbe far prevedere un avvicinamento, che prima delle elezioni sarebbe stato considerato fantapolitico.

Alla fine della fiera abbiamo un vero sconfitto Ehud Barak, che passerà alla storia per essere il segretario con il minor numero di seggi ottenuti dalla sinistra nei 60 anni di indipendenza di Israele e con due “Pirri”, vincitori a metà, che anche se non si amano saranno costretti alla convivenza e per di più con un terzo incomodo tutt’altro che simpatico. Chi ci guadagnerà sarà il popolo che, una volta tanto, saprà quale è la strada che verrà intrapresa e quali saranno gli obbiettivi della prossima legislatura perché il governo che ne uscirà dovrà per forza di cose avere un programma preciso con linee guida chiare. La gente, è inutile negarlo, si è stancata dell’incertezza tipica dell’era Olmert che, a seconda del suo umore, diceva una cosa per poi fare il perfetto contrario scontentando tutti. Anche se la legge elettorale prevede che il segretario del partito con il maggior numero di seggi sia quello a cui il Presidente della Repubblica deve affidare il compito di formare il nuovo esecutivo il dilemma fra le mani di Shimon Peres non è di facile soluzione e, a meno di grandi sorprese dell’ultimo momento, questa volta saranno gli accordi fra le segreterie a decidere chi sarà il Primo Ministro. Nei prossimi giorni vedremo consultazioni frenetiche fra i segretari dei partiti e soltanto dopo le infinite riunioni potremo avere un quadro più chiaro di come si evolverà la situazione non escludendo a priori imprevisti colpi di scena.

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