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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
11.02.2009 Dialogo con gli Stati Uniti: l'ambigua apertura dell'Iran
che continua a sostenere Hamas e non abbandona il programma nucleare

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio
Autore: Cecilia Zecchinelli - Maurizio Molinari - la redazione
Titolo: «L'Iran apre a Washington: dialogo nel reciproco rispetto - Obama e Ahmadinejad, vediamoci e parliamo - Teheran apre al dialogo, ma non ferma le navi misteriose»
Da pagina 15 del CORRIERE della SERA dell'11 febbraio 2009,  "L'Iran apre a Washington: dialogo nel reciproco rispetto ", di Cecilia Zecchinelli:

Prove tecniche di distensione tra Stati Uniti e Iran. Ci sono e vanno avanti, nonostante le scontate dichiarazioni ultranazionalistiche del presidente iraniano uscente (e lui spera riconfermato a giugno), Mahmoud Ahmadinejad. E le altrettanto prevedibili (anche se in era Bush nemmeno pensabili) condizioni al dialogo poste dal neopresidente americano Barack Obama e dal suo ministro degli Esteri, Hillary Clinton.
Ieri, 30esimo anniversario della Rivoluzione Islamica, nel tradizionale comizio in piazza della Libertà a Teheran, Ahmadinejad ha avuto toni quasi moderati verso l'America, il Grande Satana. «La nuova amministrazione Usa ha annunciato di volere il cambiamento e puntare al dialogo», ha detto davanti a migliaia di persone vestite a festa, dai bambini delle scuole ai veterani della guerra contro Saddam. «È chiaro che tale cambiamento deve essere di sostanza e non tattico. E che l'Iran dà il benvenuto a un cambiamento vero, pronto al dialogo purché sia in un clima di rispetto reciproco».
Parole che riecheggiano quelle pronunciate da lui stesso pochi giorni fa. Ma allora, accanto alle richieste di «vero cambiamento », Ahmadinejad aveva preteso dall'America «le scuse per 60 anni di attacchi», «il ritiro delle truppe» da Iraq e Afghanistan, «la fine del sostegno allo Stato sionista». Ieri, invece, dichiarazioni sul «programma nucleare che va avanti» (cosa che americani e Occidente rifiutano), ma allo stesso tempo mano tesa come mai era stato. «C'è la possibilità di lavorare su un dialogo che porti a una miglior comprensione reciproca», ha subito risposto la Clinton da Washington. «Il governo iraniano ora può dimostrare di voler schiudere il pugno e iniziare una discussione seria e responsabile », ha aggiunto, ricordando che continuare l'opzione atomica sarebbe per Teheran «una scelta sfortunata».
Le cose, quindi, iniziano a cambiare. Anche se la politica estera della Repubblica Islamica è competenza unica della Guida Suprema, Ali Khamenei (che non si è ancora espresso su Obama), e anche se le elezioni presidenziali di giugno potrebbero rallentare la distensione, in attesa di vedere chi vincerà.
Contro Ahmadinejad (non ancora candidatosi) è già sceso in campo il riformista Mohammad Khatami, ieri scampato all'aggressione di una decina di uomini che gridavano «morte al filo-americano». Secondo alcuni osservatori l'«eccessiva» moderazione dell'ex presidente sarebbe vista negativamente da una parte importante dell'elettorato, sicuramente stanca come tutti gli iraniani di isolamento, sanzioni, razionamenti, crisi economica. Ma che potrebbe apprezzare la nuova versione di Ahmadinejad se questo decidesse di cavalcare (come sta facendo) l'apertura agli Usa da «duro ».

Da pagina 12 de La STAMPA "Obama e Ahmadinejad, vediamoci e parliamo", di Maurizio Molinari:

Barack Obama offre il dialogo «faccia a faccia» e Mahmud Ahmadinejad replica di «essere pronto» a patto che sia basato sul «mutuo rispetto». Il dialogo a distanza fra i presidenti di Stati Uniti e Repubblica islamica dell'Iran è iniziato nella notte di lunedì quando Obama, durante la conferenza stampa alla Casa Bianca, ha rinnovato le aperture a Teheran già fatte durante la campagna elettorale e dopo l'insediamento alla Casa Bianca.
«Il mio team per la sicurezza nazionale sta rivedendo la politica nei confronti dell'Iran, stiamo cercando delle aree nelle quali possiamo avere un dialogo costruttivo» ha detto Obama, auspicando «aperture che possono essere create sedendosi attorno allo stesso tavolo, faccia a faccia, per andare avanti in nuove direzioni». Ciò non significa far venir meno le «profonde preoccupazioni» degli Stati Uniti per «il sostegno e il finanziamento a gruppi terroristi come Hezbollah e Hamas, il linguaggio bellicoso nei confronti di Israele e il perseguimento dell'arma atomica», ma l'intento è quello di identificare terreni e temi sui quali potersi confrontare direttamente.
Fonti dell'amministrazione Usa da alcune settimane lasciano intendere che la Casa Bianca auspica di coinvolgere Teheran in una «stabilizzazione regionale» dell'area di crisi Afghanistan-Pakistan, sulla base dell'ostilità dell'Iran nei confronti dei taleban che portò nel 1998 quasi a una guerra. La risposta di Ahmadinejad è arrivata ieri mattina durante il discorso pronunciato sulla Piazza Azadi (Libertà) in occasione del 30° anniversario della rivoluzione khomeinista. «La nazione iraniana dà il benvenuto ai veri cambiamenti ed è pronta al dialogo in un clima di eguaglianza e di mutuo rispetto» ha detto il presidente replicando a Obama, per poi aggiungere che «è evidente come il cambiamento debba essere fondamentale e non tattico». «L'era del bullismo è finita, inizia quella del dialogo» ha aggiunto Ahmadinejad, tornando sul concetto del «reciproco rispetto» espresso in due occasioni da Obama.
Ad avvalorare l'ipotesi che possa essere l'Afghanistan il terreno di incontro fra Usa e Iran - che non hanno relazioni diplomatiche proprio dal 1979 - vi sono le parole dure pronunciate da Obama alla volta dei leader di Kabul e Islamabad per sottolineare come sia questo teatro strategico ad essere in cima ai pensieri americani. «Bisogna sradicare la presenza delle basi di Al Qaeda e dei taleban nelle aree tribali del Pakistan» ha detto Barack, rivolgendosi al collega di Islamabad Ali Zardari. «Il problema del governo di Kabul è che è troppo staccato dal resto del Paese, a differenza da quanto avviene in Iraq» ha aggiunto, rivolgendosi questa volta ad Hamid Karzai. Se la priorità di Obama è stabilizzare l'Afghanistan, tanto il Pakistan che l'Iran possono svolgere un ruolo di primaria importanza e potrebbe toccare dunque a Richard Holbrooke, inviato nella regione, a dover sondagli gli umori di Teheran.
Nonostante le timide aperture reciproche le relazioni fra i due Paesi restano tese ed a dimostrarlo ci sono proprio i festeggiamenti a Teheran, segnati da forti toni anti-Usa, con l'esposizione di cartelloni e il grido di slogan «morte all'America» e «morte a Israele» da parte della folla. Rispondendo a queste grida Ahmadinejad ha detto: «Vi annuncio che da oggi l'Iran è una vera superpotenza» in ragione del recente lancio del primo satellite costruito in patria, come dello sviluppo del programma nucleare. A margine delle manifestazioni a Teheran vi sono stati momenti di tensione quando gruppi di sostenitori di Ahmadinejad hanno tentato di aggredire - senza esito - l'ex presidente Mohammad Khatami, che ha fatto recentemente sapere di volersi candidare alle elezioni di giugno.

Da pagina 3 del FOGLIO "Teheran apre al dialogo, ma non ferma le navi misteriose":

Il Cairo. Un mercantile partito dall’Iran scivola nel Canale di Suez con un carico di armi senza proprietario. Sulla sua scia si mettono le navi della marina americana e gli 007 d’Israele: lo seguono, ma non lo possono fermare. E’ partito da Bandar Abbas, il porto iraniano dei pasdaran, ha superato le acque dell’Egitto ed è entrato nel Mediterraneo. Ora, un mese dopo, si trova a Limassol, Cipro, sotto la custodia dell’esercito greco. La stiva cela l’ultimo intrigo del medio oriente, il tesoro di una caccia che coinvolge militari e servizi segreti di tre continenti. La sua sagoma è comparsa sui radar della marina israeliana nei giorni di Piombo fuso, l’operazione militare che ha distrutto le infrastrutture di Hamas a Gaza City. L’identità reale rimane un mistero, così come la nazionalità. Alla partenza si chiama Iran Hedayat, poi diventa Famagustus e appartiene alla flotta panamense, di fronte a Gaza il capitano dichiara invece che il vascello si chiama Monchegorsk, appartiene a una compagnia di Mosca ma batte bandiera cipriota. Monchegorsk è il nome di una città russa affacciata sul mare di Barents. Ieri il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha detto che il paese è pronto al dialogo, “se c’è rispetto reciproco”, con gli Stati Uniti. Ma, a dispetto delle aperture diplomatiche, i pezzi del piano iraniano di egemonia sul medio oriente si muovono ancora. Secondo l’intelligence militare di Israele, il mercantile alla fonda a Cipro trasportava armi per rifornire i magazzini sotterranei dei guerriglieri rimasti nella Striscia: sessanta tonnellate di missili Grad e Fajr, lanciarazzi, esplosivo per fabbricare i razzi Qassam, mine, fucili, pistole e munizioni. Un rifornimento partito in ritardo, perché ormai la flotta israeliana controlla i porti della regione e impedisce l’attracco ai convogli sospetti. Anche la marina americana segue negli stessi giorni i movimenti del vascello L’Uss San Antonio è pronta a intervenire. E’ una nave della Quinta flotta e fa parte della Combined task force 151, il contingente internazionale arrivato nel Golfo di Aden per fermare i pirati somali. Ha ricevuto questo ordine speciale dal Pentagono dopo un incontro fra l’ex segretario di stato americano, Condoleezza Rice, e il ministro degli Esteri di Gerusalemme, Tzipi Livni. A bordo della San Antonio ci sono elicotteri, mezzi anfibi e squadre speciali pronte all’abbordaggio. Nonostante i sospetti, americani e israeliani non fanno partire un colpo. “E’ normale che gli Stati Uniti cerchino di rimanere fuori dall’operazione – dice Rayon Tanter, presidente dell’Iran policy committee di Washington – solitamente queste operazioni avvengono sotto copertura”, perché il codice marittimo non permette di fermare una nave che batte bandiera di uno stato sovrano. Il Foglio racconta la storia il 22 gennaio; il giorno seguente, l’ambasciata iraniana di Roma chiede di rettificare. Oggi il Monchegorsk è fermo da una settimana nel porto di Limassol, guardato dai militari greci e dalle autorità cipriote. Dopo le prime verifiche, le autorità dell’isola hanno chiesto l’intervento delle Nazioni Unite. Nessuno, in via ufficiale, ha ancora detto con chiarezza che cosa nascondono le stive del mercantile partito dall’Iran. Per il Comitato sanzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il carico del vascello viola la Risoluzione 1747, che proibisce alla Repubblica islamica di esportare armi. Il presidente cipriota, Demetris Christofias, esclude che il Monchegorsk possa tornare in Iran. “Prenderemo una decisione definitiva nei prossimi giorni, dopo aver completato tutte le ispezioni”, dice all’agenzia di stampa Reuters. “Tocca al governo di Cipro decidere che fine farà il carico del mercantile”, spiega un diplomatico americano. Se il Monchegorsk tornerà in mare, la marina di Israele potrebbe intervenire, ma sfiorerebbe lo scontro armato diretto con l’Iran. Nel Golfo di Aden, la striscia d’acqua che separa l’Africa dalla Penisola araba, c’è un altro problema. Da poche settimane due navi della flotta iraniana hanno raggiunto la regione per combattere i pirati somali. Fanno porto nella città di Aseb, in Eritrea. Per lo Shin Bet, avrebbero un ruolo anche nella storia del Monchegorsk. Le armi trasportate dalle navi iraniane arrivano a Gaza attraverso due rotte, entrambe africane. La prima passa per la Somalia e il Sudan: i contrabbandieri prendono in consegna i carichi delle navi iraniane e le trasportano nel Sinai, dove sono smistate attraverso i tunnel che collegano Gaza a Rafah, in territorio egiziano. Questi tunnel sono stati colpiti duramente nei giorni di Piombo fuso, ma il venti per cento sarebbe ancora in funzione. La seconda rotta attraversa le acque egiziane e raggiunge il Sinai a pochi chilometri da Gaza. I mercantili lavorano ne cuore della notte, quando la marina israeliana ha il divieto di intervenire, come dice un accordo firmato con il Cairo. Il Monchegorsk non è il primo cargo misterioso seguito dai satelliti israeliani. Nei giorni scorsi, la marina di Gerusalemme ha fermato una nave libanese salpata da Tripoli e diretta a Gaza. La nave ha come nome Tali: anche il capitano di questo vascello ha fatto tappa a Cipro. Lo scorso anno, la marina greca ha bloccato il Susanna, un mercantile partito dalla Slovenia che portava armi e missili a Bandar Abbass. Pochi mesi fa, poi, i turchi hanno intercettato un carico di missili diretti in Venezuela. Sui container c’era scritto soltanto “motori per camion”. Nei giorni scorsi, durante un vertice con gli Stati Uniti e con gli alleati europei andato in scena a Copenhagen, i diplomatici israeliani hanno chiesto di trovare una soluzione al traffico di armi in medio oriente e di permettere alle sue navi di fermare e ispezionare i mercantili sospetti. Alla fine di gennaio, il governo di Ehud Olmert ha ottenuto dalla Casa Bianca collaborazione sul piano contro il contrabbando di armi verso la Striscia di Gaza. Gli Stati Uniti forniranno tecnologia e addestramento al personale impiegato lungo i valichi. Un team di genieri americani è già a Rafah, il centro egiziano del contrabbando. Il Cairo non vede positivamente la presenza di militari stranieri sul proprio territorio e il ministro degli Esteri, Ahmed Aboul Gheit, ha fatto sapere ieri che nessuna nave militare potrà entrare nelle acque territoriali egiziane. Il paese, però, accetterà aiuti economici per fermare il contrabbando di armi. Ma gli ayatollah vogliono aumentare la propria influenza sul medio oriente e investono milioni di dollari per ricostruire, a modo loro, il Libano e la Striscia di Gaza.

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