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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - L'Unità - La Repubblica Rassegna Stampa
11.02.2009 Verso una ripresa del negoziato israelo-palestinese, ma la divisione tra la Cisgiordania e Gaza rende impossibile un accordo definitivo
l'analisi di Maurizio Molinari, le interviste a Yasser Abed Rabbo e Abu Mazen

Testata:La Stampa - L'Unità - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Umberto De Giovannangeli - Alix Van Buren
Titolo: «L'America preme, ora pace subito coi palestinesi - Noi palestinesi chiediamo al nuovo premier una pace tra pari - Abu Mazen non chiude la porta Con Netanyahu si può trattare»

Da pagina 9 de La STAMPA, di Maurizio Molinari"L'America preme, ora pace subito coi palestinesi", titolo (scelto dalla redazione) del tutto sbagliato e non corrispondente al contenuto dell'articolo nel quale, al contrario, si spiega come la divisione dei palestinesi renda per il momento impossibile un accordo di pace definitivo :

Chiunque sarà il nuovo premier israeliano ha di fronte un’agenda che lo porterà a lavorare in fretta assieme al presidente Obama: è questa l’opinione prevalente fra gli esperti di Medio Oriente a Washington, secondo cui «fare la pace coi palestinesi» e «impedire all’Iran di avere la bomba» si profilano come «due pragmatici terreni d’incontro».
«Il nuovo primo ministro israeliano verrà presto a Washington per parlare della pace con i palestinesi», prevede Martin Indyk, ex ambasciatore Usa a Gerusalemme e consigliere di Barack Obama sul Medio Oriente, che ricorda come «pur dicendosi contrario a smantellare gli insediamenti in Cisgiordania Benjamin Netanyahu nel 1996 si accordò con Bill Clinton quando decise di restituire la città di Hebron sfidando lo zoccolo duro del Likud». Simile l’opinione di David Schanzer, ex feluca dell’amministrazione Bush e autore del libro «Fatah contro Hamas», secondo il quale «l’unica cosa certa è che ad aprile il nuovo premier di Gerusalemme verrà in città, prenderà posto alla Blair House, andrà nello Studio Ovale e parlerà di pace con i palestinesi».
Per Aaron David Miller, che ha affiancato sette segretari di Stato sul Medio Oriente ultimo dei quali Colin Powell, «la dinamica iniziale con Obama è già scritta, dovranno decidere come affrontare il percorso che porta all’obiettivo della nascita di uno Stato palestinese in pace e sicurezza a fianco di Israele». «Cominceranno probabilmente dai palestinesi ma il binario più veloce potrebbe essere quello siriano», osserva però Indyk, secondo cui «il premier di Gerusalemme potrebbe avere interesse ad accelerare il negoziato con la Siria per allentare la prevedibile pressione americana sulla Cisgiordania». Miller è d’accordo: «La differenza sta nel fatto che mentre fra Israele e Siria c’è già un’intesa di massima sul possibile accordo di pace, mentre nel caso dei palestinesi siamo molto più lontani». Oltre al fatto che in questo frangente Obama potrebbe aver interesse ad accelerare il distacco della Siria dall’Iran facendo proprio leva sulla normalizzazione dei rapporti con Israele, magari grazie al sostegno dei reali sauditi.
Se il percorso del negoziato con i palestinesi appare più difficile agli esperti americani di Medio Oriente è a causa della debolezza del presidente Abu Mazen, il cui mandato è peraltro scaduto. «Poco tempo fa Olmert gli ha offerto lo stesso accordo che Barak propose ad Arafat a Camp David nel 2000, ma Abu Mazen ha rifiutato perché non se la sentiva di firmare senza il consenso di Hamas», osserva Indyk e Schanzer va oltre: «Fino a quando vi saranno due governi palestinesi il negoziato per lo status definitivo dei rapporti con Israele sarà impossibile». Da qui l’ipotesi, avanzata da Miller, che il primo compito dell’inviato George Mitchell sia quello di «far emergere una riconciliazione fra i palestinesi» che consenta ad Abu Mazen di estendere nuovamente il proprio controllo sulla Striscia di Gaza, «magari con il sostegno dell’Egitto e anche della Siria» se si riuscirà a recuperare Damasco al «campo della pace».
Resta infine l’incognita dell’Iran. «Tzipi Livni e Benjamin Netanyahu hanno promesso agli elettori che non consentiranno a Teheran di avere armi nucleari ma vi sono molte maniere per riuscirvi», osserva Schanzer, secondo cui «Obama persegue con la diplomazia lo stesso obiettivo che Israele potrebbe raggiungere con un blitz simile a quello che distrusse due anni fa il reattore atomico siriano».
Agenda bilaterale a parte, Indyk dà un consiglio al presidente americano: «Bisogna essere molto flessibili, fare attenzione a non imporre niente a nessuno pensando piuttosto a esercitare l’influenza strategica degli Stati Uniti al momento giusto perché i successi in Medio Oriente arrivano quando si riescono a sfruttare le opportunità che si presentano improvvise, come fece Jimmy Carter quando Anwar Sadat disse che sarebbe andato a Gerusalemme da Menachem Begin e Clinton quando seppe che Yitzhak Rabin stava negoziando con Yasser Arafat in Norvegia senza dircelo».

Da pagina 27 de L' UNITA', l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Yasser Abed Rabbo,  segretario del Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
U.d.g. non replica mai alle affermazioni di Rabbo, nemmeno quando l'esponente palestinese definisce "punizione collettiva" la chiusura dei valichi di Gaza, che in realtà serve ad impedire il transito di armi e ha sempre permesso l'approvigionamento di beni essenziali. E' sempre u.d.g. , in una sua domanda, a fare di Tel Aviv la capitale di Israele, in sostituzione di Gerusalemme.
Ecco il etsto: "Noi palestinesi chiediamo al nuovo premier una pace tra pari "

Abbiamo negoziato con governi guidati dal Likud, dai laburisti e da Kadima.Non abbiamomaiposto pregiudiziali ideologiche. A tutti abbiamo chiesto, ilpiù delle volte inutilmente, atti concreti che favorissero la ricerca di una pace giusta, duratura, tra pari. Ed è quanto continueremo a chiedere al governo israeliano che uscirà dalle urne». A sostenerlo è una delle figure di primopiano della dirigenzapalestinese: Yasser Abed Rabbo, segretario del Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp).
Per chi “tifano” i palestinesi?
«I palestinesi “tifano” per i propri diritti e sanno bene, perché l’abbiamo imparato sulla nostra pelle,che la pace non sarà mai una gentile concessione da parte israeliana».
Resta il fatto che i leader della destra hannoribadito che con loro al governo i margini di trattativa saranno molto più rigidi.
«Fanno la voce grossama sanno bene che non esiste alcuna scorciatoia militare alla soluzione della questione palestinese. Israele deve accantonare una volta per tutte l’unilateralismo che è stato il vero tratto di continuità tra governi diversi, a guida Likud, Labour o di Kadima. Negoziare significa riconoscere le ragioni della controparte e non continuare a delegittimarla». SenonaTelAviv,doveguardanoipalestinesi?
«Per usare questa metafora “visiva”, diciamo che il nostro sguardo è rivolto aWashington e alla nuova amministrazione Usa. Il presidente Barack Obama ha posto tra le priorità della sua agenda internazionale il conflitto israelo-palestinese, sottolineando la necessità di lavorare per un accordo globale che parta,manon si esaurisca, da unrafforzamento del cessate il fuoco a Gaza. Obama ha anche indicato lo sbocco finale del negoziato: quello di due Stati per due popoli. È l’approccio giusto, che va però sostanziato in fretta. Perché in Medio Oriente il tempo non lavora per la pace».
Quale sarà la prima richiesta che l’Anpintende avanzarealnuovogoverno israeliano?
«La fine del blocco di Gaza e lo stop alla colonizzazione della Cisgiordania. Pace e colonie sono tra loro inconciliabili».
Togliere il blocco a Gaza non significa favorire Hamas?
«No, significa porre fine ad una punizione collettiva inflitta a un milione e quattrocentomila palestinesi. Un atto contrario ad ogni norma del diritto umanitario internazionale. Le colpe di Hamas, che non vanno sottaciute, non possono essere fatte ricadere su donne, bambini, anziani come ha fatto Israele nei ventidue giorni di guerra ».
Cosa resta di ancora valido dell’Iniziativa di Ginevra di cui Lei è stato artefice assieme all’israeliano Yossi Beilin?
«La dimostrazione che su ogni questione cruciale – dai confine dei due Stati allo status di Gerusalemme, dal ritorno dei rifugiati al controllo delle risorse idriche – è possibile giungere ad un compromesso soddisfacente per ambedue le parti. Quel chemanca è la volontà politica, il coraggio, la lungimiranza per attuarlo. È un problema di leader, non di popoli».

A pagina 13 de La REPUBBLICA, l'intervista di Alix Van Buren ad Abu Mazen. Il presidente dell'Autorità palestinese, suscitando le repliche incredule della giornalista, giudica del tuttto possibile un dialogo con Netanyahu.
Pienamente rispondente agli stereotipi e alle falsità diffusi da gran parte dei media è invece l'affermazione secondo la quale Avigdor Lieberman vorrebbe la "deportazione" degli arabi israeliani. Un programma che il leader di Israel Beitenu non ha mai formulato. La sua proposta è invece quella di uno scambio di territori e popolazione. Van Buren non replica ad Abu Mazen su questo punto.

Ecco il testo: "Abu Mazen non chiude la porta Con Netanyahu si può trattare"


Il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha le idee chiarissime: «Dialogherò con qualsiasi governo emerga in Israele». È persino compiaciuto quando dice: «L´ascesa della destra israeliana non m´impensierisce: con Netanyahu si può trattare». Poi, quando avverte: «Vogliamo un accordo di pace entro il 2009 con la nascita di uno Stato palestinese», la sua non suona affatto come una sparata.
«Ma certo, che non è una sparata», quasi si dispiace il presidente. «Infatti i parametri della pace sono noti a tutti. Noi sappiamo perfettamente che cosa Israele s´aspetti da noi, e noi da Israele. Dunque si tratta di passare all´azione. Quanto tempo deve trascorrere ancora, secondo voi, prima di concludere il negoziato?».
Nella suite al quinto piano di un albergo romano, Abbas ascolta dai notiziari delle tv satellitari i risultati del voto in Israele. Gli fanno corona il ministro degli Esteri al-Malki, il capo negoziatore Erekat e l´ambasciatore Atiyeh.
Abbas è a Roma, racconta nel suo inglese affinato in decenni di diplomazia, «per spiegare le dimensioni dell´orrore che s´è consumato a Gaza, ché non basta leggerlo o ascoltarlo dalla stampa, i nostri amici devono capirlo». Con il premier Berlusconi e il presidente Napolitano ha discusso «degli aiuti umanitari, della necessità di sostenere la tregua fra Israele e Hamas, la riapertura dei valichi di Gaza secondo la formula del 2005, la riconciliazione inter-palestinese e la Conferenza di donatori per la ricostruzione della Striscia in calendario il 2 marzo al Cairo».
Ad ascoltarla si direbbe che la nuova stagione della pace stia appena per cominciare. Ma sarà vero, signor presidente, con Israele che vira a destra?
«Creda, quel che dicono i candidati in campagna elettorale lascia il tempo che trova. In chiunque formi il governo, una volta al potere, finirà per prevalere la responsabilità, il pragmatismo. Prenda, ad esempio, Netanyahu: in passato ha compiuto passi importanti, ha siglato con noi due accordi, Wye River nel ´98 e il disimpegno da Hebron. Se la storia offre un metro di giudizio è possibile che ciò si ripeta».
Non la preoccupa il rafforzamento dell´estrema destra guidata da Lieberman?
«È naturale, conosciamo tutti il suo pensiero: vuole deportare gli arabi israeliani, rifiuta la pace, la formula dei due Stati, delle frontiere del ´67. Però se Lieberman debba o no far parte del governo, beh questa è una scelta che spetterà agli israeliani».
Lei ha congelato i colloqui di pace. A quali condizioni li riprenderà?
«Non poniamo condizioni, semmai il rispetto di due punti: primo, Israele fermi la costruzione di colonie nei territori occupati, compresa l´espansione naturale di quelle esistenti. Secondo, smantelli le centinaia di check-point che imbrigliano la West Bank; agevoli il passaggio dei beni e delle persone. Non si tratta di condizioni: è già tutto stipulato in accordi precedenti, dal rapporto Mitchell alla Road Map alle tante risoluzioni dell´Onu. Basta applicarli».
Pensa di avere in mano una carta vincente? Il presidente americano Obama ha chiamato lei per primo fra i leader internazionali. Qual è stato il suo messaggio?
«Che siamo pronti alla pace secondo la formula dei due Stati e la legge internazionale; chiediamo all´America di svolgere un ruolo effettivo fra noi e Israele perché l´accordo si materializzi nel 2009. I parametri, lo ripeto, sono noti, non servono altri colloqui. Vogliamo riunire le parti e siglare l´intesa. Come vede, il nostro messaggio è breve e chiaro, benché forse difficile».
È in vista la riconciliazione inter-palestinese, con un governo di unità nazionale?
«Le fazioni s´incontreranno al Cairo secondo l´agenda stabilita dall´Egitto; parleranno di un nuovo esecutivo; chiamatelo come volete, governo di tecnocrati, di consenso o di unità nazionale, l´importante è che non rappresenti alcun partito, e dichiari il rispetto degli impegni internazionali. In questo modo non vi saranno scuse per boicottarlo. Il governo si occuperà della ricostruzione di Gaza, poi organizzerà elezioni parlamentari e presidenziali».
Signor presidente, lei sta dicendo che le divergenze fra il suo partito, Fatah, e Hamas possono ricomporsi in una relazione più pragmatica?
«È troppo presto per giudicare. Però c´è una novità, scaturita dalla guerra, ed è la volontà del popolo: l´82 per cento dei palestinesi, a Gaza compresa, preme per l´unità nazionale. Sanno, come sappiamo anche noi, che senza queste condizioni il governo può fare nulla. E ogni parola sarebbe vana».

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