Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il Papa condanna il negazionismo, ma non il vescovo negazionista le opinioni di Giuseppe Laras, Andrea Tornielli , Filippo Di Giacomo, Arrigo Levi, Gad Lerner, Carlo Galli, un editoriale del Foglio
Testata:Il Giornale - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica Autore: Andrea Tornielli - la redazione - Filippo Di Giacomo - Arrigo Levi - Gad Lerner - Carlo Galli Titolo: «Un passo avanti, ma doveva parlare prima - Ma c'è chi fa finta di non capire -L’alleanza mai revocata - Magari fosse restaurazione - Un passo oltre il Tevere - Quel vescovo non è un alieno - La fortezza di Ratzinger»
Su Il GIORNALE del 29 gennaio 2009, Andrea Tornielli intervista in modo corretto il rabbino Giuseppe Laras sulle dichiarazioni di Benedetto XVI contro il negazionismo: "Un passo avanti, ma doveva parlare prima", a pagina 10. "Le chiarificazioni sono state tardive" dichiara Laras Nel commento "Ma c'è chi fa finta di non capire", Tornielli scrive "Sembra che non si comprenda, o si finga di non comprendere, come la via del dialogo verso "i nostri fratelli destinatari della Prima alleanza" è stata intrapresa una volta per tutte dalla Chiesa, dai Papi e più che mai da questo Papa".
Da parte nostra vorremmo sapere che cosa il Papa pensa delle dichiarizioni del vescovo Williamson, e del cardinal Martino che, con un altra forma di negazionismo, ha paragonato Gaza a un lager. Se lo sapessimo, smetteremmo subito di "fingere di non capire".
Di seguito, da pagina 3 de Il FOGLIO l'editoriale "L’alleanza mai revocata"
Benedetto XVI è fatto di un’altra pasta rispetto al vescovo lefebvriano Richard Williamson. Per questo Israele, i rabbini e Roma continueranno a lavorare per l’alleanza comune. Ad Auschwitz Ratzinger ha detto che i nazisti “con la distruzione di Israele volevano strappare la radice della fede cristiana”. Questo Papa, anche più di Karol Wojtyla, è amico dell’autodeterminazione ebraica nella terra biblica consacrata da Dio, sorvegliata dalle Nazioni Unite e protetta dalle guerre. E’ una parte della chiesa ad avere un problema con Israele. Da quando il segretario di stato vaticano, Domenico Tardini, nel 1953 disse che “non c’era nessun bisogno di costituire Israele”, questo “grave errore degli stati occidentali”. I rabbini israeliani ieri hanno messo in discussione le relazioni con il Vaticano. Avevano buone ragioni per farlo e non è la fine del mondo. Il rabbino Yona Metzger è stato in guerra, Yashuv Cohen è stato catturato dai giordani, Meir Lau ha perso tutti a Treblinka, Shlomo Goren suonò lo shofar davanti al Muro del pianto nel 1967 e i rabbini sefarditi sono fuggiti dal linciaggio arabo nel 1948. Hanno indossato la divisa di Tsahal, sono “mamlachtiut”, credono cioè che Israele sia la porta per il ritorno degli esiliati. E’ giustificata la loro ira se un vescovo in comunione ambigua con Roma dice che le camere a gas sono una farsa. Perché priva Israele della base morale che ne ha fatto il rifugio degli ebrei dopo la Shoah. E’ finita la fase della guerra territoriale tra Israele e i palestinesi. Siamo in quella islamista che vuole buttare a mare gli ebrei e, ormai che c’è, anche i cristiani da Betlemme a Baghdad. Il Papa di Ratisbona lo sa. Sa che Israele deve vivere perché, come ha detto l’arcivescovo di Vienna Schönborn, “Israele è il popolo dell’alleanza e l’alleanza non è mai stata revocata”. C’erano sedici milioni di ebrei prima di Hitler. Oggi sono tredici milioni. L’ebraismo con Israele ha vinto. Ma la Shoah ha dimostrato l’impossibilità di vivere senza forza. Lo dimostrano le polemiche su Gaza: la chiesa non può che accettare questa grande eredità trasmessa da Auschwitz.
Al giorno d’oggi, nell’era della comunicazione istantanea e globale, può accadere che i tempi di dichiarazioni, proteste e smentite si sovrappongano, rendendo difficile capire chi ha parlato prima e chi dopo, chi si è lamentato per la mancanza di un «chiarimento» che forse c’era già stato, chi deplora che sia stata ignorata una spiegazione che forse era già stata data. In queste circostanze, chi voglia «metter pace» farà bene a ignorare molte cose dette forse fuori tempo, prendendo per buone soltanto le parole di conciliazione che permettano di riprendere un dialogo molto più importante di qualsiasi offesa, anche se questa c’è stata, forse più imprudente che deliberata. Così, fra le notizie che negli ultimi giorni si sono inseguite - tra dispacci d’agenzia, interviste, dichiarazioni in tivù - sulla bufera nei rapporti tra il Vaticano e l’ebraismo, con relative minacce da Gerusalemme di rottura dei rapporti, è preferibile tenersi, se si vuole che torni il sereno, alle ultime parole pronunciate di cui abbiamo notizia. Partiamo dunque dalla fine. Partiamo da Benedetto XVI che ha confermato «con affetto» la sua «piena e indiscutibile solidarietà» coi fratelli ebrei vittime della Shoah, smentendo così il vescovo ex scismatico, perdonato per le sue opinioni eretiche ma ancora condannato per il suo negazionismo.
Da La STAMPA, il commento di Filippo Di Giacomo, "Magari fosse restaurazione":
Il mondo e il tempo sono soprattutto macchine per fabbricare simboli. L’anno del Signore 2009, come tutti gli anni non bisestili, conta 365 giorni, ma è sul 25 gennaio che la sorte ha voluto convergessero tre circostanze fortemente significative: il cinquantesimo anniversario dell’annuncio del Concilio Vaticano II, la conclusione dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani e l’inizio delle annuali celebrazioni commemorative della Shoah. Concilio, dialogo ecumenico e rapporti con l’ebraismo sono per i tradizionalisti lefebvriani - a differenza dei tradizionalisti cattolici tout court - i mezzi principali della congiura giudaico-massonica che starebbe distruggendo la Chiesa di Roma. Su 365 giorni il meno adatto a fare la pace con gli scismatici dell’anticoncilio era proprio quello scelto. Se «l’atto di paterna misericordia» di Benedetto XVI fosse giunto il prossimo Venerdì santo, giorno in cui Cristo perdona i suoi crocifissori di ogni tempo, avrebbe raggiunto il suo significante più profondo. Il gesto papale, mediante il linguaggio dei simboli, avrebbe potuto insegnare ai fedeli quanto e perché la pace ecclesiale valga bene il perdono delle maleducate offese scagliate per cinquant’anni da Ecône contro Roma e il resto del mondo. A mente fredda, già che la mistica cristiana invita a vedere bene e provvidenza in tutto, è persino probabile che i cattolici presto sapranno di aver segnato un punto. Perché, se i seguaci di Marcel Lefebvre avevano ancora bisogno di dare una prova della vergogna e del disdoro che gettano sul cattolicesimo, Richard Williamson l’ha servita erga omnes su un vassoio d’argento. Coloro che amano coltivare la propria vita spirituale in comunione con il Vicario di Cristo certo non gioiscono nel vederlo continuamente chiedere scusa a mezzo mondo. Richard Williamson ripete, indisturbato, da almeno vent’anni le sue cupe tesi sociali ed ecclesiologiche. Che le opere destrorse e negazioniste di Alain de Benoist e di David Irwing avessero ottima reputazione nel seminario di Ecône, appare chiaro dalla pubblicistica prodotta dalla Fraternità San Pio X. Il dubbio che non bastasse imporre, quasi in un rito magico, le mani sul prodotto di questo confuso e sclerotizzante amalgama chiesastico perché producesse quattro vescovi cattolici attraversa la canonistica degli ultimi decenni. Tarcisio Bertone, il segretario di Stato vaticano, ha insegnato a lungo il diritto pubblico ecclesiastico e i suoi studenti ricordano ancora perché l’ecclesiologia giuridica, da Leone XIII in poi, permette di leggere il comunicato del 21 gennaio - la «remissione» della scomunica ai quattro lefebvriani - con occhi sconfortati. Fonti di stampa di ieri raccontano l’esplosione d’ira del firmatario del provvedimento contro un collega cardinale e il vescovo redattore del decreto. È l’aspetto più pittoresco e meno interessante della vicenda, eppure illustra in modo egregio la perdita di quell’eccellenza che, fino agli anni di Paolo VI, caratterizzava la curia romana. Viene quasi da sperare sia fondato quel progetto di restaurazione che, per bocca di Hans Küng, cattolici autorevoli credono di dover temere da Benedetto XVI. Il magistero di un Papa, sia che il mondo lo qualifichi di «destra» sia che lo veda «a sinistra», per un cattolico è sempre un invito ad approfondire la vita di comunione con Cristo e con la Chiesa. In fondo, Giovanni XXIII, un conservatore che ha saputo farsi ribelle, è vissuto in un’epoca dove altri grandi conservatori (come Adenauer, De Gasperi, De Gaulle) hanno ridisegnato i destini di molte nazioni e di tutto un continente. Con quale restaurazione avremmo a che fare? Liturgicamente, quello che da mesi vediamo far fare a Benedetto XVI sono solo cerimonie polverose, utili al dispettoso carrierismo di pochi. I suoi rapporti con i fedeli vengono regolarmente falsificati dai numeri che una curia improvvida consegna al mondo senza alcuna precisazione. Le nomine e le decisioni ecclesiali non hanno nulla da invidiare alle categorie da casta che la società civile, a dispetto di quella dei chierici, ha ormai il coraggio di denunciare al proprio interno. La restaurazione, qualora avvenisse, sarebbe una speranza per molti perché almeno permetterebbe ai cattolici di schierarsi su posizioni teologiche chiare e definite. Mentre la melassa dottrinale indistinta dove quattro lefebvriani hanno il diritto di camuffarsi nel collegio apostolico, senza nulla apportarvi, alimenta solo quel manipolo di pasticcioni, cultori di liturgie tridentine, e di una disciplina muscolosa per tutti ma non per loro, che né la Chiesa né il Papa meritano.
E quello di Arrigo Levi, "Un passo oltre il Tevere"
Al giorno d’oggi, nell’era della comunicazione istantanea e globale, può accadere che i tempi di dichiarazioni, proteste e smentite si sovrappongano, rendendo difficile capire chi ha parlato prima e chi dopo, chi si è lamentato per la mancanza di un «chiarimento » che forse c’era già stato, chi deplora che sia stata ignorata una spiegazione che forse era già stata data. In queste circostanze, chi voglia «metter pace» farà bene a ignorare molte cose dette forse fuori tempo, prendendo per buone soltanto le parole di conciliazione che permettano di riprendere un dialogo molto più importante di qualsiasi offesa, anche se questa c’è stata, forse più imprudente che deliberata. Così, fra le notizie che negli ultimi giorni si sono inseguite - tra dispacci d’agenzia, interviste, dichiarazioni in tivù - sulla bufera nei rapporti tra il Vaticano e l’ebraismo, con relative minacce da Gerusalemme di rottura dei rapporti, è preferibile tenersi, se si vuole che torni il sereno, alle ultime parole pronunciate di cui abbiamo notizia. Partiamo dunque dalla fine. Partiamo da Benedetto XVI che ha confermato «con affetto» la sua «piena e indiscutibile solidarietà» coi fratelli ebrei vittime della Shoah, smentendo così il vescovo ex scismatico, perdonato per le sue opinioni eretiche ma ancora condannato per il suo negazionismo. Il rabbino capo di Roma Di Segni ha subito definito la dichiarazione papale «necessaria e benvenuta», e il portavoce del Rabbinato di Gerusalemme, che aveva prima minacciato la rottura, l’ha giudicata «un grande passo avanti per la ripresa del dialogo». In circostanze come questa, è bene ricordare le parole buone che sono state dette, più dei gesti forse improvvidi che sono stati compiuti. Ricordiamo il commosso augurio pasquale di papa Benedetto agli ebrei nell’aprile 2008, con parole alte di fraternità col popolo con cui Dio «si è degnato di stringere l’Antica Alleanza... il buon ulivo su cui si è innestato l’oleastro dei Gentili», più del ritorno, nella preghiera pasquale «raestituta», all’auspicio della conversione, che gli ebrei non potevano non ritenere offensivo. E si tenga conto del successivo chiarimento del cardinale Kasper, secondo cui con quella preghiera non si voleva annunciare un’«azione missionaria» verso gli ebrei, non essendo la Chiesa in grado di «assumere la regia della realizzazione del mistero imperscrutabile della salvezza»: giudizio teologicamente importante. Comunque, se si provoca un malinteso è bene chiarirlo con un gesto solenne, inequivocabile. Papa Benedetto, il cui amore per il popolo ebraico è indubitabile, potrà fare un tale gesto quando si realizzerà, come si deve sperare, la sua visita già preannunciata «in Terrasanta ». Se poi questa fosse rinviata per contingenti motivi politici, si potrebbe trovare un rimedio. Il rabbino Di Segni ha voluto rinnovare, proprio in questi giorni, l’invito da tempo rivolto a papa Ratzinger a ripetere la storica visita del suo predecessore alla Grande Sinagoga romana, visita che cambiò per sempre i rapporti fra le due religioni, con l’implicita condanna delle persecuzioni di cui i «fratelli maggiori» ebrei erano stati oggetto per poco meno di due millenni. Essendo stato il primo a suggerire, sulla Stampa tanti anni fa, che il Papa che girava tutto il mondo facesse anche «un piccolo passo al di là del Tevere» per tendere la mano agli ebrei (monsignor Riva, come poi mi disse, fu pronto tramite, incontrando il Pontefice, del mio suggerimento; non pretendo che questo sia stato né necessario né determinante), non posso non auspicare che il nuovo invito venga accolto. Non mancherà chi consiglierà prudenza. Ma spesso il coraggio paga. E poi, è troppo importante per tutti che non si rompa questo particolare anello giudaico-cristiano della nuova catena che si sta faticosamente costruendo di rapporti di lavoro comune per la pace fra le grandi religioni. È importante non solo per i credenti: ma anche per le moltitudini dei non credenti; i quali soffrono, senza alcuna loro colpa, dei crimini che vengono compiuti ogni giorno nel nome di Dio. Ma è possibile che si debba essere noi laici a invitare i credenti a dar prova, nei loro rapporti, di moderazione, prudenza e reciproco rispetto? (O forse queste virtù sono assai più laiche che religiose?).
Da La REPUBBLICA, "Quel vescovo non è un alieno", di Gad Lerner:
«Nel dire nuova, Dio ha reso antiquata la prima alleanza. Ma ciò che diventa antiquato e che invecchia è prossimo alla scomparsa» (Lettera agli ebrei 8, 13). La profezia contenuta in questo testo apostolico tuttora inserito a pieno titolo fra le lettere di Paolo (benché l´attribuzione sia controversa) ha subito la smentita di diciannove secoli di storia. Sopravvissuti a innumerevoli persecuzioni e tentativi di sterminio, nel Novecento gli ebrei hanno rifondato uno Stato nella loro terra d´origine e sono tornati in milioni a parlare una lingua che pareva morta, a lungo rinchiusa nelle sole funzioni liturgiche. Un enigma, un miracolo, un accidente fastidioso? Il mondo fatica a rispondere, e con esso la Chiesa che si era concepita come Nuova Israele. «Se infatti la prima alleanza fosse stata irreprensibile, non se ne sarebbe cercata una seconda» (8, 7), minacciava ancora gli ebrei quella Lettera contenuta nel Nuovo Testamento. Riecheggiando il celebre passo paolino della Lettera ai Romani in cui "l´indurimento" della parte d´Israele restia a inchinarsi di fronte al Messia, comporterebbe la sua conversione come passaggio necessario alla salvezza universale. La crisi del dialogo ebraico-cristiano decisa ieri dal rabbinato d´Israele in seguito alla mancata sanzione del vescovo Richard Williamson, scaturisce certo da un comportamento maldestro del Vaticano, ma evidenzia la difficoltà di Benedetto XVI nel trovare risposta al mistero della persistenza ebraica. Egli fa i conti con un vuoto di dottrina o, se si vuole, un´inadempienza teologica dentro cui i tradizionalisti lefebvriani hanno buon gioco a inserirsi, esprimendo un umore diffuso ben oltre il loro minuscolo drappello. Basti pensare alla potente voce antisemita di Radio Maria in Polonia. In coerenza con insigni dottori della Chiesa, come Ambrogio e Agostino, riconoscendosi in secoli di predicazione del disprezzo nei confronti dell´imperfezione e della colpevolezza ebraica legittimata da quella "teologia sostitutiva" (la Nuova Israele che soppianta la vecchia), costoro approfittano della mancata trasposizione teologica dei deliberati conciliari. Negli ultimi quarant´anni i pontefici hanno revocato l´accusa di deicidio, hanno compiuto importanti gesti d´amicizia verso gli ebrei, hanno perfino riconosciuto (solo nei discorsi, mai in un documento teologico) la validità dell´alleanza contratta da Abramo e ribadita sul Sinai. Ma qui, sull´orlo dell´incognito, si sono fermati. È stato il cardinale Ratzinger nell´agosto 2000, con la "Dominus Jesus", a delimitare la portata della richiesta di perdono agli ebrei voluta da Giovanni Paolo II; precisando che non vi è salvezza possibile senza il riconoscimento del Cristo. La reintrodotta preghiera latina del venerdì santo per "l´illuminazione" degli ebrei, cioè per la loro conversione, è stato il passo successivo che ha indotto i rabbini italiani a sospendere il dialogo. Nel frattempo il Vaticano ha sposato una vulgata storica che separa nettamente l´antigiudaismo cattolico dall´antisemitismo nazifascista, con ciò escludendo � a dispetto di ogni evidenza - che vi sia stata anche una responsabilità cristiana nel concimare il terreno su cui hanno agito gli sterminatori. Basti pensare, solo un mese fa, alla reazione stizzita dell´"Osservatore Romano" nei confronti del presidente della Camera riguardo alle leggi razziali. Fa male riconoscere che il vescovo Williamson non è un marziano, ma il prodotto degenere di una corrente di pensiero più vasta. Chi, sulla base di una dottrina legittimata dal Nuovo Testamento, vede l´ebreo come un essere imperfetto che ha misconosciuto la Verità fiorita sulla sua radice, necessariamente ha vissuto la nascita dello Stato d´Israele come evento sospetto, se non malefico. Patisce come incomprensibile la riduzione a piccola minoranza dei cristiani nella terra di Gesù. Guarda con ostilità alla trasformazione delle vittime di sempre in combattenti (e ciò spiega anche i riferimenti offensivi a Gaza come "lager"). Infine, non può che rifiutare l´attribuzione di un significato provvidenziale al ritorno degli ebrei nella Terra Promessa. Questo è un punto delicatissimo, sul quale rischiano di insorgere equivoci pericolosi. Perché non si tratta certo, per la Chiesa, di mescolare le scelte politiche e diplomatiche mediorientali alla riflessione teologica, in un esplosivo cortocircuito: come la teoria degli evangelici apocalittici che indicano nel ritorno degli ebrei in Terrasanta un passaggio preliminare dell´Armageddon, la guerra distruttiva da cui scaturirà la loro conversione e dunque la salvezza. Per carità, c´è già abbastanza fanatismo integralista in giro. Ma pure è indubbio che la Chiesa stia faticando a elaborare una visione pacificata e amorevole d´Israele anche perché non ha risolto il problema teologico della persistenza ebraica nel mondo, senza conversione. La netta condanna espressa ieri da Benedetto XVI del negazionismo e del riduzionismo infiltrati nella corrente tradizionalista della Chiesa, giunge benefica a limitare i danni. Ma l´irrisolta questione teologica del suo rapporto con gli ebrei rende evidente come sia dannosa la limitazione proposta dal papa nella sua insolita lettera a Marcello Pera: il dialogo interreligioso derubricato a "dialogo interculturale"; per giunta impraticabile "senza mettere tra parentesi la propria fede". Uno stop che potrà anche piacere a certi rabbini, preoccupati di evitare a loro volta ogni contaminazione intorno alla figura del Gesù ebreo. Ma così si rinuncia a quel dialogo che per divenire efficace comporta la disponibilità a rimettersi in discussione grazie, e non contro la propria fede. Assai preferibile è la disposizione d´animo di Amos Oz che scherzando, ma non troppo, confida: «Gesù non è mai andato in Chiesa, non si è mai fatto il segno della croce. Vedo in lui uno dei nostri fratelli». Fu proprio lo zio di Oz, lo studioso gerosolimitano Joseph Klausner, a pubblicare nel 1922 il primo libro su Gesù scritto in ebraico senza intenti di proselitismo. Guardando oltre il male perpetrato nei secoli dai cristiani a danno dei suoi confratelli, Klausner li sollecitava a riconoscere la funzione benefica esercitata da Gesù come diffusore universale delle idee del giudaismo. Quando il dialogo ebraico-cristiano riprenderà, speriamo presto, ne avvertiremo gli effetti dirompenti che scaturiscono dal significato autentico della Bibbia. Il Libro che ci sollecita a cambiare, se vogliamo restare fedeli a noi stessi.
Sempre da REPUBBLICA, "La fortezza di Ratzinger", di Carlo Galli:
Il punto che consente di individuare correttamente qual è la posta in gioco nella vicenda del vescovo lefebvriano negazionista è che la richiesta di perdono dei suoi confratelli è stata rivolta al Santo Padre, e non agli ebrei o all´opinione pubblica mondiale, cioè alla forma concreta che prende oggi l´umanità. All´origine di questa insensibilità verso la fraternità universale e verso il dovere di testimoniare la verità davanti all´intero consesso umano, c´è il nucleo del pensiero dei tradizionalisti. Le loro fonti intellettuali sono infatti i controrivoluzionari cattolici del primo Ottocento - polemisti come Maistre, Bonald, Donoso Cortés - e l´intransigentismo antimoderno che di lì si è propagato dentro la Chiesa e all´interno delle gerarchie, fino almeno a Pio X (a cui è intitolata la confraternita dei lefebvriani). Un pensiero di micidiale coerenza - superato solo dal Concilio Vaticano II - che consiste soprattutto nell´affermazione di un´autorità (il papa, vertice della Chiesa) e nella interpretazione del cattolicesimo come un insieme di dogmi identitari, al di fuori dei quali non c´è salvezza: non a caso i tradizionalisti avversano il principio conciliare della libertà religiosa, come in generale negano l´autonomia della politica dalla religione, unico fondamento che dia stabilità alle istituzioni umane. L´identità cattolica consiste nell´obbedienza all´autorità, e nella difesa della Chiesa da chi le è nemico (il mondo moderno, generato dal protestantesimo) e da chi le è estraneo: in particolare, gli ebrei, che per di più sono anche deicidi e che, comunque sia, devono convertirsi alla vera fede. Lo sterminio nazista, in quest´ottica, può essere negato - o minimizzato come questione storica che non interessa i religiosi, come si legge nella lettera di scuse al pontefice - perché si vuole dimostrare che l´antisemitismo (religioso, s´intende, non razziale) è giustificabile, e che le sue conseguenze non sono necessariamente quel mostruoso crimine davanti a ogni Dio e a ogni uomo che è stata la Shoa. Se tale negazione crea qualche problema - com´è inevitabilmente avvenuto - allora ci si scusa con l´autorità, che da quel passo falso può avere difficoltà, e subire contraccolpi negativi: la questione è sostanzialmente ridotta a una faccenda di opportunità e si gioca solo nello spazio dell´autorità. Insomma, se il negazionismo "laico" serve a rendere spendibile politicamente il nazismo, liberato dalla colpa dello sterminio e trasformato in uno sforzo di difesa dell´Europa dalle minacce dell´Occidente americano e dell´Oriente bolscevico, l´antisemitismo tradizionalista (più o meno avventato nelle sue formulazioni) è interno e funzionale all´interpretazione autoritaria e identitaria del cattolicesimo. La Chiesa cattolica ufficiale vede nel nazismo l´esempio estremo (insieme al comunismo) del Male a cui conduce la modernità che diventa pagana e antiumana proprio perché rifiuta Dio e si ribella all´autorità della Chiesa, pervertendo così anche la retta ragione umana. Una posizione che potrebbe essere enfatizzata come opposta a quella dei tradizionalisti: tuttavia la connotazione specifica di questo pontificato porta la Chiesa all´utilizzazione costante del principio di autorità (da ultimo con la contrapposizione della legge di Dio - interpretata dalla gerarchia - a quella dello Stato). Oggi, le affermazioni autoritarie non vanno certamente nella direzione di una giustificazione dello sterminio (semmai, si impegnano in una difesa dogmatica della vita); eppure la Chiesa sembra trattare i tradizionalisti come "fratelli che sbagliano", come un figliol prodigo esuberante ed estremista ma recuperabile, appunto perché è orientato nel senso giusto, perché crede prima di tutto nell´autorità come dimensione essenziale della vita religiosa organizzata. È in nome della comune affermazione - l´una prudente, l´altra imprudente - del principio di autorità che, anziché tenere fermo il muro (la scomunica) alzato da un altro pontefice, la Chiesa oggi riammette i lefebvriani nella propria comunità, a patto che tornino all´obbedienza papale. Probabilmente, è questo uno dei segni che fanno capire con quanta convinzione la Chiesa si schieri oggi sulla difensiva, quanto profondamente si interpreti come una fortezza assediata, un´identità coinvolta in un conflitto di civiltà,che si gioca tanto all´interno dell´Occidente quanto all´esterno. Certo, questo clima intellettuale e argomentativo, che porta la Chiesa a conciliarsi piuttosto con i tradizionalisti che col mondo di oggi, costringe a ritornare ai "fondamentali" della Modernità, alla sua lotta contro il principio di autorità: e a ricordare che le affermazioni dogmatiche, comunque orientate, portano con sé la potenziale negazione della libertà e della verità che gli uomini faticosamente costruiscono nella loro vicenda storica.
Si segnalano nel frattempo nuove dichiarazioni negazioniste del sacerdote lefebvriano di Treviso Floriano Abrahamowicz. Si veda il link seguente: