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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
24.01.2009 Giorno della memoria: il pericolo che diventi un'arma puntata contro Israele
la denuncia di Elena Loewenthal, e inoltre: i ricordi di Jospeh Burg sulla sua Czernowitz,

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Elena Loewenthal - Olivier Guez
Titolo: «Il giorno della memoria come arma - Memoria yiddish»
Da pagina 29 de La STAMPA del 24 gennaio 2009, l'articolo di Elena Loewenthal "Il giorno della memoria come arma".

Si avvicina il Giorno della Memoria e crescono i dubbi sulla tenuta della ricorrenza. Sul suo senso e l’utilità civile che riveste, a prescindere dalle encomiabili intenzioni di chi, una decina d’anni fa, costruì - a livello culturale ma anche politico - questa scadenza del calendario nazionale. Il Giorno della Memoria incontra innanzitutto il rischio che ogni forma di ritualizzazione comporta: la perdita di pregnanza. Quando qualcosa si ripete, la monotonia è un effetto tanto collaterale quanto inesorabile. E giunge puntuale la noia, l’inconscia alzata di spalle. Intorno al Giorno della Memoria si crea non di rado un paradosso quasi spietato: la costante ricerca del «nuovo», da parte di enti, editori, scuole. Che è un’assurdità: perché la ricorrenza celebra per definizione sempre la stessa cosa; perché la brutalità di quel passato sta anche nel fatto che non ha nulla di nuovo da raccontare. E poi la forza del ricordo sta proprio nel già detto, tramandato, ripetuto.
Di pari passo sorge la questione dell’«invadenza» del Giorno della Memoria nella scuola. A che serve? La scadenza è diventata un impegno curriculare di grandi proporzioni: docenti e studenti si sentono in dovere di mobilitarsi. Di sapere e capire. Il terreno è minato. Molto più delle guerre puniche e della rivoluzione francese: perché la memoria non è storia. Non chiede un approccio interpretativo, quanto emotivo. A scuola, invece, il Giorno della Memoria si carica di aspettative troppo alte: non didattiche ma etiche. Il metodo più efficace per (presumere di) arrivare a questi obiettivi si rivela la ricerca dell’effetto. E così, il ricordo finisce per diventare qualcosa di astratto. Tanto è vero che il Giorno della Memoria isola l’esperienza storica ebraica, invece di contestualizzarla. La sigilla in una bolla trasparente ma impenetrabile. Questo è innanzitutto un impulso naturale: di fronte al male si arretra, per difesa. L’orrore dello sterminio non può indurre vicinanza, anzi respinge. Di fronte alla Shoah, l’istinto inconscio si ribella, dice: no. Ora è diverso. Io sono diverso. A me non potrà mai accadere. Come ci si fa a immedesimare in una vittima, un torturato, un corpo dentro un forno crematorio? È contro natura.
Poi c’è la questione didattica. Gli ebrei arrivano sui banchi in due occasioni: agli albori, con babilonesi, assiri e fenici, preludio al passato «importante», greci e latini. Millenni dopo tornano con la Shoah. A farsi sterminare. Tutto ciò contribuisce a isolare la loro storia a renderla strana, aliena. Questa specie di disconoscimento si riflette fuori dalla scuola. Non a caso in questi giorni il conflitto a Gaza e in Israele ha preso una piega diversa. Non dove c’è la guerra. Qui in Europa. L’imminente Giorno della Memoria è diventato un «soggetto» della guerra. Il bambino di Gaza e la donna di Sderot non se ne fanno nulla di un’immedesimazione storica, di un «ardito» accostamento al passato. Loro hanno da sopravvivere. Qui invece s’imbrattano muri di scritte antisemite (Torino), s’infangano cimiteri ebraici (Pisa), si disdicono celebrazioni del Giorno della Memoria (Catalogna), si grida: viva Hamas, ebrei nelle camere a gas (Olanda). La Shoah diventa codice interpretativo della guerra a Gaza. Non si tratta solo di opinioni azzardate, d’incompetenza allo sbaraglio. È anche un effetto del Giorno della Memoria: più s’avvicina, più diventa comodo strumento per denigrare l’oggi. Per isolare ancora una volta l’esperienza ebraica, che sia dentro la Shoah o nell’attualità. Liquidarla con categorie prefabbricate. E poi c’è qualcosa di più profondo: sta nell’inconscio di quell’Europa in cui la Shoah si è consumata ed è rimasta lì come un peso insopportabile. Che sarebbe bello poter finalmente scaricare altrove.

Purtroppo, a pagina VI e VII del supplemento  TUTTOLIBRI, la STAMPA presenta proprio un esempio dell'uso del Giorno della Memoria come arma denunciato da Elena Loewenthal.
Sotto il titolo, "Il giorno della memoria", campeggiano la scritta "Ti ricordi di Sabra e Chatila" e le immagini dei film "Valzer con Bashir" che abbiamo riprodotto, sulla strage di palestinesi del 1982, compiuta da falangisti cristiani, ma attribuita a Israele da una campagna di disinformazione che dura a tutt'oggi.
Evidente la volontà di creare un parallelo tra quella vicenda e la Shoah.

A pagina 10 dell'inserto del FOGLIO, l'articolo di Olivier Guez "Memoria yiddish"

Joseph Burg? Posso venire a trovarvi a Czernowitz?”. “Quando arrivate?”, gemette una voce tremante, dal fondo della cornetta. “Appena vorrete”. “Venite presto! Non so se vivrò ancora a lungo. Alla mia età! Sono molto malato. Compirò presto cento anni! Chiamatemi non appena sarete in città”. Due ore di volo da Berlino a Kiev, poi sedici faticose ore – ben sedici ore! – di pendolino attraverso le steppe, fangose prima e innevate più avanti, finalmente i contorni della stazione di Czernowitz si delineano nella foschia dell’inverno ucraino. Appena arrivato, chiamo Burg. Miracolo! L’ultimo poeta yiddish di Czernowitz è tuttora in vita, precisamente vive in via Sheptyskoho, una tranquilla stradina del vecchio centro della città, a meno di una versta dalla piazza del municipio inaugurato alla fine degli anni Quaranta dell’Ottocento, dove si celebrò fastosamente il battesimo di fuoco dell’imperatore Francesco Giuseppe. Un’aiuto-infermiera senza età accoglie il visitatore e lo conduce in un dedalo di corridoi dalle tappezzerie fiorite, ma sbiadite. Bussa. Joseph Burg mormora e riceve all’orientale, sul suo divano, imbacuccato sotto le coperte. Lo sguardo perso nel vuoto, dietro occhiali dalla montatura troppo grossa per il suo viso affilato. Non distingue i tratti dei suoi ospiti, a malapena i loro movimenti: è quasi cieco. E’ domenica pomeriggio, i carillon suonano e Joseph il patriarca trema nella sua camicia bianca malgrado una spessa canottiera beige. Burg è un narratore, l’ultimo avatar della sua specie massacrata, deportata, spenta sul filo dei drammi del secolo scorso che hanno sconvolto la Bucovina, questa terra ai confini del sudest europeo. Una celebrità locale, decorata, lodata dalle autorità della sua città che lo hanno decorato cittadino d’onore e al quale – ne va particolarmente fiero – Otto de Habsbourg, suo contemporaneo, ha fatto visita di recente. Prima della guerra, a Czernowitz vivevano quaranta scrittori yiddish. Oggi non resta che questo vecchietto spiumato, col profilo di un passero caduto dal nido, con le mani nodose ma dallo spirito sempre agile, incredibilmente presente per un uomo nato nel 1912. Nel 1912! Vishnitz, provincia della Bucovina dalla doppia monarchia austroungarica. Burg vede la luce in questo shtetl (un tipico paesino ebraico prima dell’Olocausto) di 6.800 anime addossato ai Carpazi, terra d’elezione dei “wunderrabi”. Il piccolo frequenta assiduamente l’heder, la scuola religiosa, cullato dalle preghiere del suo rebbe e dai racconti leggendari alla modesta tavola familiare. Prende dimestichezza con l’universo fantastico dei racconti hassidici della regione, con i prodigi del Baal Chem Tov, il padre dell’hassidismo, e dei Baalé Schémoth – “i maestri di fama” –, suoi discepoli che percorrevano l’Ucraina per guarire ogni sorta di malattia attraverso i nomi sacri di Dio e degli angeli; dei mistici che cacciavano i dibbouck, gli spiriti tormentati dei posseduti, e rendevano le donne feconde. Se ne va in giro nelle foreste dei Carpazi, contempla i pastori e i taglialegna. Passeggia lungo il Prout e il Tchernemok dove suo padre lavora come barcaiolo. Due universi – quello magico religioso dello yiddishland e i paesaggi bucolici della sua infanzia – che impregneranno la sua intera opera, specialmente le numerose raccolte di novelle tradotte in diverse lingue, ma non in francese. Purtroppo. “A dodici anni i miei genitori hanno traslocato a Czernowitz. Atterravo su un altro pianeta. Di prima mattina, guardando dalla finestra, non credevo ai miei occhi: tram che non erano trainati da cavalli! I miei primi giorni furono straordinari. Nuove meraviglie mi aspettavano ad ogni angolo della strada”, racconta con la sua vocina esile che sale, sale, sale. Rientrando dalla scuola yiddish, il ragazzino annusa il fumo delle aringhe e dei croissant ricoperti di semi di papavero. Si perde nelle strade animate del centro città, ammira le facciate ridipinte di giallo Maria Teresa della Harrengasse, principale arteria cittadina, e si abbandona al sole dolce della Ringplatz. Si mette a fantasticare. E imprime nella sua memoria la chiatta dei pellicciai e degli “arricciatori” – i parrucchieri –, la sfacciataggine dei negozianti, l’instancabile curiosità dei librai. Czernowitz, avamposto della cultura occidentale, edificata dagli austriaci contro gli eredi russi di Bisanzio e gli Ottomani; Czernowitz che ospitava l’università più a est della doppia monarchia, famosa per i suoi studi orientali; Czernowitz e il suo alto livello di cultura, i suoi fini letterati, la piccola Babele sull’orlo dei Carpazi dove convivevano tedeschi e ucraini, polacchi, rumeni ed ebrei. Molto numerosi: all’arrivo di Joseph Burg costituivano la nazionalità dominante della città, circa il 40 per cento della popolazione. Una Gerusalemme sul Prout, disseminata di 78 sinagoghe, di scuole e di teatri, dove lo yiddish fu proclamato lingua nazionale ebraica nel 1908. Dopo la fine della Grande guerra, Czernowitz è stata ribattezzata Cernauti perché annessa alla Romania. Le nuove autorità conducono una politica attiva di romenizzazione. “I rumeni hanno trasformato lo spirito della città. Hanno instillato l’odio fra le nazionalità e propagato l’antisemitismo. Dicevano agli ebrei di partire per la Palestina”, si infuria sotto la sua coperta. Verrà il tempo delle persecuzioni ma per il momento la città resta un crocevia dove la cultura ebraica si diffonde ancora malgrado la crescente ostilità delle nuove autorità, nei fatti infinitamente meno magnanime rispetto alla bonaria amministrazione degli Asburgo. Joseph Burg ricorda la Cernauti della sua adolescenza. “Con i compagni, passavamo intere giornate al Caffè Europa. A spulciare la debordante stampa della città, edita in diverse lingue”. E a divorare letteratura yiddish, specialmente le poesie di Eliezer Steinbarg, il re delle fiaba yiddish, che diverrà suo grande ispiratore e cui appartiene un ritratto che orna una delle pareti della sua camera. “Avevate conosciuto Paul Celan, all’epoca?” “Celan? Ma era ancora un bubbe – un bebé! Era davvero troppo giovane – Celan è nato nel 1920. Quando ha iniziato a scrivere, io non ero già più a Czernowitz. Tuttavia, ho incrociato spesso la poetessa Rosa Ausländer. Ma lei scriveva in tedesco”. Per Burg, tradire la sua lingua madre era fuori discussione, “la sua Heimat, la sua patria”, come la definisce ancora oggi e alla quale resterà fedele lungo tutta la sua opera. Pubblica la sua prima novella nel Czernowitzer Blätter nel 1934. Poi, come ogni giovane ambizioso della sua epoca, decide di salire a Bucarest e poi soprattutto a Vienna, che, nel pieno degli anni Trenta, era tornata ad essere la brillante metropoli a cavallo tra i due secoli, la Vienna dell’opera e della Filarmonica, dell’elegante Kärntnerstrasse, delle polemiche sulla stampa e dei caffè che la classe media ebraica istruita ancora animava. La suoneria del telefono, suo unico legame con il mondo esterno, insiste: un Burg di Tel Aviv. Gli occhi malinconici del vecchio poeta si rianimano un po’ quando il suo interlocutore gli parla in yiddish. Vuole sapere se sono imparentati. Joseph lo invita ad andare a trovarlo a Czernowitz per vederci chiaro. L’appuntamento è fissato. “Dove eravamo?”. “A Vienna”. “Alloggiavo da una zia nel secondo distretto, il quartiere ebraico…”. Un suo ritratto, di una ventina d’anni fa, sovrasta il letto del vecchio: lo sguardo sincero, i capelli ondulati, gli occhiali rotondi in tartaruga come quelli di André Gide all’epoca. E’ questo ragazzo deciso che si fa le ossa nella capitale austriaca, scopre l’agitazione della grande città, stringe nuove amicizie al caffè Central, il punto d’incontro dell’intelligentia ebraica viennese dove incontra uno dei suoi maestri, Franz Werfel, autore di “I quaranta giorni del Mussa Dagh”. Tregua di breve durata: l’Anschluss lo sorprende, l’Austria vira a destra, e lui è costretto nuovamente ad andarsene. Sogna l’Inghilterra. Un consigliere dell’ambasciata cecoslovacca gli raccomanda di passare attraverso Praga. Da lì potrà raggiungere più agevolmente la Francia e poi Londra. Per finanziare il viaggio si reca dal maestro Heller, un avvocato facoltoso che a tempo perso stuzzica la musa della poesia. “Gli ho detto che Goethe non scriveva come lui. Era vero: i suoi versi erano terribili. Era così commosso che mi firmò immediatamente un assegno!”. A Praga, Burg fa la bella vita per una settimana, il tempo sufficiente – pensa – a ottenere un visto di transito per la Germania. Ahimè: gli viene rifiutato. Torna a Cernauti da dove ancora spera di raggiungere l’Inghilterra, stavolta attraverso la Bulgaria e poi la Jugoslavia, dove conta di prendere una nave. Di nuovo: come molti ebrei rumeni, ha perso la propria nazionalità e non può lasciare il paese. Allora, Burg si mette a insegnare, e scrive molto: i suoi primi due libri furono pubblicati a Bucarest allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Cernauti passa nelle mani di Stalin, nei termini stabiliti dal patto germano-sovietico. Di fede comunista, Joseph Burg giosce all’arrivo dell’Armata rossa, lui, il cui fratello, arruolatosi tra i volontari Repubblicani, troverà la morte in Spagna. All’arrivo delle truppe rumene dopo l’inizio dell’operazione Barbarossa, nel giugno 1941, viene evacuato verso Est. Seguono anni di peregrinazioni ai quattro angoli dell’impero rosso: sballottato tra l’Asia centrale, gli Urali e il Caucaso, almeno sfugge al triste destino del resto della sua famiglia: sua madre fu deportata e uccisa dai nazisti in Transistria, cinquanta e più dei suoi cari moriranno così, come la stragrande maggioranza degli ebrei di Bucovina. “Alla fine della guerra avrei potuto emigrare in occidente, come Celan, per esempio. Ma non ho voluto farlo: sulla scia della vittoria sul fascismo, avevo l’ingenuità di credere che l’Urss fosse l’avvenire dell’uomo. Mi sono gravemente sbagliato”. Non è un bene essere uno scrittore yiddish nell’Urss di Stalin: nel migliore dei casi vengono ridotti al silenzio; nel peggiore deportati in Siberia, quando non uccisi. A Mosca, dove Joseph Burg si era stabilito con Nina, la sua giovane moglie russa, e la loro bambina, tutto diventa piccolo. Insegna letteratura e tedesco, ma non scrive più una riga. Per più di dieci anni, quasi quindici. Durante il suo passaggio attraverso il deserto moscovita, pensa spesso e non senza nostalgia a Czernowitz. Ci torna finalmente nel 1959, vent’anni dopo averla lasciata, con il cuore in gola. “Al mio arrivo, le pietre piangevano sotto i miei passi. La città era totalmente cambiata. Non conoscevo più nessuno. Per mesi ho cercato dei parenti, delle conoscenze. Invano”. La Czernowitz multiculturale della sua giovinezza era scomparsa. I tedeschi, i polacchi e i rumeni erano stati rispediti a casa loro anni prima, all’inizio della guerra, quando non fossero stati deportati in seguito. Gli ebrei erano stati massacrati. Non restavano che gli ucraini che le autorità avevano fatto venire in massa dalle campagne, e i russi importati da angoli ancora più remoti. La città si era industrializzata, la circondavano schiere di case popolari. Si era riformata una nuova comunità ebraica, forte di 16 mila persone, ma Burg non ci si trovava a proprio agio: anche i suoi correligionari venivano da lontano; erano estranei alla cultura della città, alle tradizioni della sua cara Bucovina natale. Molti partono all’inizio degli anni Settanta verso Israele. Burg esita ma resta, come sempre, fedele. E si rimette a scrivere per le riviste letterarie, alcune delle quali pubblicate all’estero, soprattutto a Parigi e Varsavia. La sua terza opera è pubblicata nel 1980, quarant’anni dopo la seconda. Gli anni della Perestroika gli portano fortuna. Torna la libertà di parola e Burg pubblica diverse opere, alcune delle quali tradotte in russo e stampate in 100 mila esemplari. Con il crollo dell’Urss – non può trattenere un sorriso nel rievocarlo, lui che non ha mai sofferto tanto quanto nell’Unione Sovietica del dopoguerra – è diventato l’ultimo scrittore yiddish a Czernowitz (Tshernivtsi in ucraino), quasi una mascotte locale, una perla rara invitata a numerosi convegni e simposi, in particolare in Austria e in Germania, dove le sue opere sono ormai disponibili. Nel 1990 rilancia il Czernowitz Blätter, di cui diventa direttore, e con altri fonda la società culturale ebraica Steinbarg, in omaggio al suo maestro. La notte è scesa su Czernowitz. Sua figlia sessantenne, di passaggio per qualche giorno, viene ad accertarsi delle sue condizioni di salute. Va tutto bene. Joseph Burg racconta, racconta, inesauribile. Ma la sua voce è sempre più acuta, e i suoi occhi si sono velati di una tristezza infinita. Il giornale ha chiuso le porte nel 2003, per colpa dei lettori; sua moglie Nina è morta l’anno scorso; lui non può più né leggere né scrivere. Solo il suo amico Shaï Kleymann viene ogni tanto a trovarlo: uno degli ultimi yiddishofoni della città, se non l’ultimo, gli legge qualcosa di quando in quando. Ogni tanto parla anche al telefono con il professor Goldberg, 104 anni, un “Mensch” originario della Galizia, stabilitosi a New York da decenni. Altrimenti attende, lui che è sopravvissuto a tutto, povero come Giobbe, la sua pensione mensile di circa 80 euro. “Ich liebe Czernowitz, ich liebe Czernowitz”, io amo Czernowitz, sussurra a più riprese. Ma di quale Czernowitz parla? Da quando non esce di casa? A questa domanda non risponde. Forse si sente imbarazzato: Joseph Burg non ha freddo, o non soltanto. Sotto le coperte, nasconde i suoi arti inferiori amputati. Per civetteria, per pudore, ha fatto scivolare delle pantofole ai piedi del suo divano. Per fare come se. Come se, in questo modo, conoscesse ancora la città del suo cuore, quella città dov’è sempre ritornato. La Czernowitz di oggi è una città strana, ossessionata da fantasmi terribili. Uno scenario sublime, reimbiancato per i suoi 600 anni, ma dal quale i personaggi principali sono come evaporati. Dove la maestosa sinagoga del centro, inaugurata all’inizio del secolo dall’imperatore Francesco Giuseppe in persona, è stata trasformata in cinema. Da dove gli ebrei sono scomparsi o quasi: non ne rimangono più di duemila, in maggioranza molto anziani. In questa “cosmopolis” dei Carpazi, che Albert Londres, di passaggio per la scrittura dell’“Ebreo errante”, aveva soprannominato “Amburgo senza Elba o Marsiglia meno il mare”, non si parla che l’ucraino e qualche volta il russo. Dove al caffè Wiener si degustano nachos e gamberetti caramellati davanti a schermi piatti che diffondono clip techno in continuazione. Joseph Burg questo non lo sa. Ed è molto meglio così.

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