Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Battistini si sdoppia, Cremonesi torna quello di sempre con una tesi che è identica a quella del quotidiano comunista
Testata:Corriere della Sera - Io Donna - Il Manifesto Autore: Francesco Battistini - Lorenzo Cremonesi - Michele Giorgio Titolo: «Nel rifugio di Hamas: «Abu Mazen, giù le mani dagli aiuti» - Gaza al tempo della censura -Gaza riapre i tunnel «Per noi sono l'aria» - Tunnel per la vita»
Da pagina 15 del CORRIERE della SERA del 24 gennaio 2009, l'articolo di Francesco Battistini "Nel rifugio di Hamas: «Abu Mazen, giù le mani dagli aiuti» "
GAZA - L'unica cosa che resta, a questo punto del giorno, è pregare. C'è un asino morto, gli occhi imbottiti di mosche. Bambini seminudi che camminano minuscoli sull'enormità delle macerie. L'odore di bruciato che è una benedizione, perché annulla quello delle carogne. Un fuoco acceso sotto un lastrone di cemento sospeso, gli uomini che si fanno il tè e le vecchie che li guardano lontane. «Mi lasci pregare, poi parliamo... ». Il mondo di Mushir al-Masri è una nuvola di polvere, tutt'intorno, e Mushir al-Masri sembra uscire da un altro mondo: le scarpe sono pulite, il soprabito cade bene, i capelli in ordine. Non c'è un tappeto, per la preghiera del pomeriggio, ma il portavoce di Hamas ha un gesto deciso: tutti qui, in fila, in piedi a guardare la Mecca oltre la distruzione d'una fabbrica di plastica. «Preghiamo, perché è questa la forza che ci ha sostenuto ». A questa tana di Hamas, campo profughi di Jabalya, s'arriva cauti. Telefonare, prima. Aspettare. Chiedere con rispetto. Al-Masri è il più giovane dei capi di Gaza, 32 anni e un treno di cinque figli. E' l'uomo immagine, l'unico in circolazione, mandato a raccogliere i nomi di chi ha bisogno (tutti) e a dispensare a chi li merita (i fedelissimi) questi primi, caritatevoli dollari della zakah islamica: 1.200 dollari per ogni parente perduto, 600 per ogni ferito. Dove sono finiti i leader? Due stanno al Cairo, a negoziare la fine del blocco e l'apertura dei valichi. Ismail Haniyeh, Mahmud Zahar e gli altri vivono nascosti. Gaza sopravvive senza tetto e con una legge sola, che al-Masri è stato mandato a spiegare: «Fratelli, siete stati eroici. Hamas resta con voi. I segni di questa vittoria si vedranno con il tempo, perché il nemico ha scritto la sua condanna ». L'uomo in soprabito fa segno al giornalista: «Prego, adesso parliamo. E' importante che siate qui voi, le ong. Potete mostrare al mondo che cosa ci hanno fatto. Testimoniare che Israele non vuole la pace». La pace dura fino a domani, ha detto Hamas: rinnoverete la tregua? «Questa non è una tregua, è solo un cessate il fuoco...». Gilad Shalit è vivo? «Lo dicono gl'israeliani, un trucco per farci precisare se è rimasto ferito o no sotto le loro bombe. Io non posso dirlo». Nei tunnel si contrabbandano armi come prima? «Questa domanda riguarda la sicurezza dello Stato, non posso rispondere. Ma se andate a valutare la situazione, se vedete quanti ne hanno distrutti, giudicate da soli. Non dimenticate che i tunnel, prima dell'aggressione, hanno garantito la sopravvivenza a un milione e mezzo di palestinesi che non possono andare da nessuna parte». S'avvicina un gruppo di ragazzini, uno ha il cappello militare e grida «morte al Fatah!», al-Masri sorride e l'accarezza sulla guancia: «Su questa cosa, siamo chiari. Se la comunità internazionale vuole aiutarci, noi la ringraziamo. E siamo disposti a far gestire questi aiuti da chiunque. Chiunque, tranne quelli che stanno a Ramallah. Abu Mazen e il Fatah sono un'altra cosa, non c'entrano più nulla coi palestinesi, i loro interessi stanno nelle banche americane e israeliane». Anche Hamas può perdere consensi, questa guerra è stata un suicidio... «Dice? Chieda in giro con chi sta il nostro popolo. Finite le domande? ». Al-Masri scende per le macerie, inciampa. Le scarpe s'impolverano, finalmente.
A pagina 44 di IO DONNA, supplemento femminile del CORRIERE l'articolo"Gaza al tempo della censura", rivela un Battistini molto diverso da quello sostanzialmente equilibrato e corretto che scrive sul quotidiano. Scrive:
Gli israeliani ce l'anno messo tutta per non mostrarcelo, questo piombo fuso su Gaza, ed'è la prima volta. In Libano o nell'ultima intifada, magari ti ammazzavano (do you remember Raffaele Ciriello) ma le immagini c'erano sempre, abbondanti e spesso indipendenti. Stavolta il Per Arnett della Striscia, l'eroe con l'elmetto e il giubbotto Press sotto le bombe, si chiama Ayman Mohyeldin, ha 29 anni, è un egiziano di mamma palestinese che lavora per Al Jazeera. Racconta tutto da dentro, primafila, bambini maciullati e mani che scavano le macerie
Gli israeliani che sparano ai reporter (in realtà Ciriello, è stato dimostrato, era vicino a uomini armati), le immagini "indipendenti" dei reporter che erano portati in tour nei quartieri di Beirut da Hezbollah, Al Jazeera come esempio di informazione obiettiva ed "eroica". Nessun cenno alle falsificazioni delle immagini e delle cifre operate dalla propaganda di Hamas. Non manca invece la mimimizzazione dell'aggressione terroristica contro Israele, accompagnata da accuse vaghe e non provate allo Stato ebraico:
Tutti i Grandi Inviati di qua, riforniti di cartelle stampa sui Qassam, incoraggiati a dare spazio all'angoscia degli israeliani. Pochissimi manovali dell'informazione di là, a mostrare il massacro vero, a dimostrare che le guerre pulite non esistono. Metà storia è stata raccontata dai giornalisti: agli storici l'altra metà:la peggiore
Sul CORRIERE, Lorenzo Cremonesi torna quello di sempre, con un articolo sui tunnel palestinesi, che servirebbero a trasportare cibo e non armi.
RAFAH (Gaza meridionale) — «Marameo!» fanno i palestinesi impolverati all'aereo israeliano senza pilota che li osserva dal cielo. Scavano, scavano, lavorano immersi nella terra e sorridono. Quelli più magri sono sotto, nelle gallerie transennate da traversine di legno riutilizzate all'infinito, armati di picche, badili e secchi primitivi ricavati da vecchie taniche di plastica sventrate. Le riempiono di sabbia e sassi dal fondo del pozzo, quindi i compagni le recuperano alla superficie con un verricello. I più «ricchi» si fanno aiutare da un motore elettrico alimentato dal generatore. Gli altri più semplicemente ricorrono a muli o cavalli da tiro. Tutto attorno il terreno è sconvolto dalle bombe. Crateri immensi, profondi anche oltre sei metri. E larghe fessure create dai missili anti-bunker, ricordano l'effetto dei proiettili americani contro le postazioni di Al Qaeda a Tora Bora, in Afghanistan, nel 2001. «Ecco cosa ne facciamo di ventitré giorni di bombardamenti assassini: in poche ore ricostruiamo ciò che gli israeliani hanno con tanto accanimento tentato di annientare. Perché non abbiamo alternative, senza questa vitale via di commercio con il mondo all'esterno la Striscia di Gaza soffoca, muore piano piano», dice sorridendo Abu Jasser, 27 anni. È uno dei tanti giovani «nuovi imprenditori » della Striscia di Gaza, esponente della rampante «aristocrazia dei tunnel» cresciuta negli ultimi tre anni all'ombra dell'embargo contro Hamas decretato con pugno di ferro da Israele. I suoi tre tunnel si trovano nel cuore di quello che chiamano «Brasil», uno dei quartieri della cittadina di Rafah confinante a sud con l'Egitto, più volte bombardato (l'attacco più grave fu durante le operazioni repressive contro la seconda intifada quando Israele decise di obbligare ad evacuare migliaia di abitanti per poter colpire più impunemente). Ogni volta, immancabilmente, i tunnel sono stati riaperti. E ora sta avvenendo lo stesso. Tutta la zona ferve d'intensa attività. Ci sono nell'aria il puzzo di gasolio bruciato dei generatori, il rumore degli scavi, le grida dei lavoratori. Ogni tanto passano in motorino gli attivisti barbuti di Hamas. Se hanno una pistola la nascondono sotto le giacche. Controllano che non ci siano «spie» israeliane, anche un giornalista straniero può essere sospetto. Ma pochi si interessano a loro. «L'importante è riprendere il commercio con l'Egitto il più presto possibile. Ogni giorno di blocco mi costa centinaia di dollari. E anche i commercianti egiziani attendono con impazienza il via», dice Abu Jasser. Ci fa scendere nel suo tunnel. L'entrata nel terreno coperta da un foglio di plastica è quadrata, circa due metri per lato; si scende una quindicina di metri utilizzando le transenne come una scala. Sul fondo la sabbia è umida, rimossa di fresco. Da qui parte la galleria lunga circa 750 metri che porta in Egitto, ma dopo un paio di metri è sbarrata dai crolli. Abu Ali, un venticinquenne magro magro, si sta aprendo un varco nonostante le minacce di nuove frane interne. «Ho un po' di paura perché potrebbero esserci bombe inesplose. E poi c'è uno strano odore qui, magari gli israeliani hanno usato gas velenosi, armi chimiche, oppure uranio impoverito per impedirci di lavorare. Ma cosa possiamo farci? Questa è la nostra vita», afferma continuando a scavare. Lui guadagna circa 100 dollari al giorno, Abu Jasser migliaia, specie quando arrivano i carichi di vestiti e cibi particolari. Questo tunnel gli è costato 100 mila dollari al momento della costruzione un anno fa. Ora valuta i danni in altri 5 mila dollari. Ma ritiene che entro una settimana i suoi tre tunnel saranno in piena funzione, 24 ore al giorno, con 16 «dipendenti» divisi su due turni. Tutto attorno tanti altri come loro scavano febbrilmente. Abu Rahaf, 21 anni, sprona i suoi operai a colpi di dollari. Sta organizzando l'arrivo di diverse derrate alimentari dall'Egitto: formaggio, carne in scatola, biscotti, spezie. I suoi vicini stanno già facendo affari d'oro, dopo i 23 giorni ininterrotti di chiusura, Gaza più che mai attende la riapertura dei tunnel. La benzina sta già arrivando. In due giorni è scesa da 10 a 4 shequel al litro. È la sfida dei poveracci contro la forza delle armi. «Entro al massimo tre mesi tutto sarà come prima della guerra. Gaza ha bisogno dei tunnel come gli uomini dell'aria per respirare», dice Abu Rafah filosofico. Tutti ammettono che «ogni tanto da qui passano armi». Ma, aggiungono alzando le spalle, «sono poca cosa, qualche mitra e pistola». Le prove? «Basta vedere come è andata la guerra. Hamas non ha potuto fare nulla contro le armi israeliane. Altro che Iran o Hezbollah! I tunnel servono soprattutto per mangiare».
Identica a quella dell'articolo di Cremonesi è la tesi è sostenuta da Michele Giorgio, in un articolo beffardamente intitolato "Tunnel per la vita", a pagina 9 del MANIFESTO. Occore ricordare che, se Hamas non si rifornisse di armi e non aggredisse Israele, non vi sarebbe nessuna necessità di controllare le frontiere di Gaza. La guerra di Hamas è la causa del (limitato) blocco economico israeliano, non viceversa.
Ecco il testo:
«Eravamo un popolo di essere umani ma per colpa degli israeliani siamo diventati topi: passiamo più tempo sotto terra che alla luce del sole». Alza gli occhi al cielo Abu Alaa Kishta, poi abbassa lo sguardo. Piccolo di statura, addome prominente, sorridente, Abu Alaa è una sorta di capomastro per gli uomini-talpa che scavano i tunnel che da Rafah sbucano in territorio egiziano. Rispettato e ascoltato. Dopo una vita spesa a sgobbare per pochi dollari al giorno nei cantieri in Israele, ora inaccessibili per i palestinesi di Gaza, negli ultimi anni non ha fatto altro che seguire gli scavi e cercare di renderli sicuri. Ora per conto della sua hammule, la famiglia allargata Kishta, dirige i lavori di riparazione dei tunnel bombardati a tappeto dall'aviazione israeliana durante le tre settimane dell'offensiva «Piombo fuso». Tra le voragini aperte dai missili israeliani, con alle spalle le macerie di decine di abitazioni distrutte dalla violenza delle esplosioni, e a poche decine di metri dalla frontiera con l'Egitto, l'esperto muratore osserva i giovani che scendono per metri nelle viscere della terra per riaprire le vie dei traffici con l'Egitto. «Hanno colpito i tunnel, vogliono chiuderli, ma noi continueremo a scavare sempre più in profondità, con maggior determinazione - avverte Abu Alaa tra i cenni di approvazione dei suoi operai - perché per Gaza questi cunicoli rappresentano la vita. Non per Hamas, come dicono loro (gli israeliani), ma per tutti i palestinesi della Striscia».
TELONI PER COPRIRE GLI SCAVI Israele non ascolta e indica nella fine completa del contrabbando tra Gaza e l'Egitto una delle condizioni fondamentali per revocare l'assedio, assieme alla liberazione del caporale Ghilad Shalit, catturato due anni e mezzo fa a Kerem Shalom da un commando palestinese e da allora prigioniero a Gaza. «Per quanto riguarda le gallerie - ha detto il ministro degli esteri Tzipi Livni - niente sarà più come prima, le cose devono essere chiare: Israele si riserva il diritto di agire militarmente contro i tunnel, punto e basta. Se occorre agire, lo faremo, eserciteremo il nostro diritto alla legittima difesa e non affideremo la nostra sorte né agli egiziani, né agli europei, né agli americani». Giovedì sera il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato le nuove misure contro le gallerie tra Gaza e l'Egitto, decise al Cairo da Amos Ghilad, inviato del premier Olmert, e da Omar Suleiman, il capo dell'intelligence egiziana. Il Cairo dovrebbe impedire all'interno del suo territorio le attività di contrabbando, attuando controlli particolarmente severi nel Sinai, e controllare le imbarcazioni che arrivano a Port Said. Ieri la polizia egiziana ha dato inizio alla caccia ai tunnel distruggendone due e durante il blitz uno dei cunicoli è crollato ferendo un uomo che si trovava all'interno. Ma il pugno di ferro che, almeno in apparenza, hanno deciso le autorità egiziane, non ferma i lavori di riparazione avviati a Rafah subito dopo l'inizio del cessate il fuoco. Sarebbero già utilizzabili 200 dei 1200 (forse più) tunnel esistenti prima dei raid israeliani su Gaza. Tende e teloni sono tornati a coprire le gallerie che scendono profonde nella terra e sotto macerie di Rafah. La città è stata gravemente colpita dalla furia dei raid aerei israeliani. Il comune ha riferito che il 40% delle case ha subito danni, e fra queste 250 sono state distrutte completamente, una cinquantina di abitanti sono rimasti uccisi (39 dei quali civili). Nelle ultime ore di offensiva israeliana prima dell'inizio del cessate il fuoco, la zona di Rafah lungo il confine è stata colpita da un missile o una bomba ogni cinque minuti. Un martellamento incessante e devastante che ha messo in fuga centinaia di famiglie esposte all'offensiva aerea. «Centinaia di tunnel sono stati distrutti o danneggiati ma nel giro di qualche settimana molti saranno nuovamente aperti - spiega il proprietario di un altro cunicolo, chiedendoci di non rivelare il suo nome -. Gli israeliani non possono toglierci il pane, Gaza è chiusa da tutti i lati e senza i nostri tunnel non può andare avanti». Mentre parla osserva gli operai che si alternano nel tunnel caricandosi sulle spalle pesanti sacchi di terra che portano in superfice. Le squadre di lavoro sono formate da 6 uomini-talpa che lavorano fino a 12 ore al giorno. Poi, sfiniti, passano pala e sacchi ai compagni del turno successivo. È massacrante, va avanti così per giorni e giorni, per settimane, fino a quando il tunnel, lungo tra 400 metri e un chilometro e mezzo, non sbuca in territorio egiziano. Ma si viene pagati bene: fino a 2mila dollari al mese. Un cifra molto alta per Gaza, dove gran parte della popolazione, sotto assedio da mesi, già prima dell'offensiva militare israeliana, sopravviveva grazie agli aiuti alimentari delle agenzie umanitarie. «Siamo quattro soci e abbiamo speso 140mila dollari per completare questo tunnel, hamdullillah, grazie a Dio, gli israeliani non lo hanno distrutto», dice il proprietario della galleria, perfettamente illuminata grazie ad un generatore autonomo. «Noi non abbiamo mai fatto passare armi, ma solo cibo, medicine a materiale sanitario. Quello che gli israeliani non sanno è che i tunnel per le armi in realtà vengono nascosti, nessuno può avvicinarvisi. I nostri invece sono tunnel per i civili, aiutano solo la popolazione ad avere merci (altrimenti introvabili) e danno lavoro a centinaia di muratori», dice l'uomo mostrandoci latte in polvere e altri generi alimentari. Quando il contrabbando riprenderà - spiega - i profitti generati dal tunnel saranno dieci volte superiori ai costi, grazie soprattutto al traffico di carburante. «I nostri ragazzi - aggiunge - sono protetti perché Hamas ha imposto a ogni proprietario (di una galleria) di pagare 20mila dollari alla famiglia di un operaio morto sotto terra e 5mila a quelli rimasti feriti».
UNO SCOOTER FIAMMANTE Si avvicina un ragazzino. Avrà non più di 15 anni ed è in sella ad uno scooter, nuovo fiammante, giallo e nero. «Sono riuscito a farlo passare attraverso un tunnel, smontato in più pezzi», dice ridendo soddisfatto. Un uomo invece ci racconta che la figlia, affetta da una grave insufficienza renale, si è potuta curare in Egitto e far ritorno a casa solo grazie ai passaggi sotterranei. «Per settimane avevamo chiesto agli egiziani di poter attraversare il valico di Rafah - racconta - ci aspettavano in ospedale del Cairo eppure non riuscivamo a lasciare Gaza. Alla fine abbiamo scelto i tunnel. Per mia figlia è stato faticoso percorrere nelle sue condizioni di salute centinaia di metri in un spazio largo poco più di un metro, ma è andato tutto bene». I presenti non smentiscono che Hamas abbia usato diverse gallerie per procurarsi razzi e munizioni, ma insistono nel sottolineare che «sono anche gli israeliani a vendere armi ai palestinesi». Proprio ieri il quotidiano egiziano al Ahram ha riferito che il Cairo ha le prove documentate dell'esistenza di un traffico di armi da Israele verso i territori palestinesi. «Abbiamo le prove, i documenti e le confessioni che testimoniano come le armi arrivino ai palestinesi grazie a persone che hanno la cittadinanza israeliana - ha denunciato l'ambasciatore egiziano Mukhlis Qutub - e che le attività di compravendita e di contrabbando avvengono anche all'interno d'Israele. Sappiamo di armi provenienti dai depositi dell'esercito israeliano vendute ai palestinesi da parte di alcuni soldati».
«VOGLIAMO SOLO VIVERE» È grigio il cielo sopra Rafah, coperto dalle nuvole dalle quali, fino a qualche giorno fa sbucavano i caccia F-16 israeliani per sganciare i loro missili. Oggi sarà comunque un bel giorno per i bambini e ragazzi della città e del resto di Gaza. Riaprono le scuole e 200mila studenti potranno tornare in classe. Non tutti, perché diverse scuole sono state danneggiate, come tante case di Rafah sventrate dalla potenza delle esplosioni delle bombe israeliane. Abu Ahmad ha perduto la casa come altre centinaia di famiglie di Rafah. Ora vive in un'altra zona della città, in un appartamento messo a disposizione dal governo di Hamas. «Il movimento islamico paga l'affitto (100 dollari, ndr) e ci permette di vivere in un'altra abitazione sino a quando non verrà ricostruita la nostra», racconta Abu Ahmad affacciandosi da ciò che rimane del balcone della casa semidistrutta di suo cugino. Domani, nei municipi delle città di Gaza, Hamas consegnerà 4mila euro a coloro che hanno perduto la casa e mille euro alle famiglie delle vittime dei bombardamenti israeliani. «Cosa penso del governo di Abu Mazen a Ramallah? Non lo so, anche loro sono palestinesi come noi, ma loro sono tanto lontani, non ci aiutano, ci lasciano soli mentre qui abbiamo un governo che si dice pronto ad darci una mano subito», commenta Hussein, infermiere dell'ospedale Nasser nella vicina Khan Yunis, le notizie di un possibile ritorno a Gaza delle forze del presidente dell'Anp Abu Mazen. Poi aggiunge: «Noi un governo l'abbiamo già: ora vogliamo vivere».
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