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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio - Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
20.01.2009 Il ritiro di Israele, le elezioni imminenti, la sconfitta di Hamas, i soldi europei per la ricostruzione di Gaza
rassegna di cronache e analisi

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - Il Giornale - La Stampa
Autore: Francesco Battistini - la redazione - Gian Micalessin - Francesca Paci
Titolo: «Gaza, Israele si ritira «in tempo per Obama» - Ora i razzi di Gaza sono un problema europeo - Il voto dopo i misssili - Così i fondamentalisti hanno perso - L'Ue si schiera, neinte denaro ai terroristi»

Da pagina 16 del CORRIERE della SERA del 20 gennaio 2009, la cronaca di Francesco Battistini "Gaza, Israele si ritira «in tempo per Obama»" :

RAMALLAH (Cisgiordania) — Camicia azzurra col colletto bianco, grisaglia presidenziale: sulla piazza dei Leoni manifesta Fatah, sulla moquette dell'Autorità palestinese Salam Fayyad parla da un'ora e mezzo e non dice quasi niente. «Ricostruiremo, coopereremo, ci adopereremo... ». La conferenza stampa del premier palestinese scivola nel torpore. Da fondosala, la domanda spazientita d'un giornalista canadese: signor Fayyad, chi gestirà i soldi degli aiuti, voi o Hamas? «L'importante è tornare a dialogare, proponiamo un governo di riconciliazione nazionale ». Ma gli aiuti potranno entrare a Gaza prima di questa riconciliazione? O dovranno passare per il vostro controllo? «Questa è una tragedia nazionale. Non sto a valutare chi ha vinto o perso. Abbiamo perso tutti insieme. E tutti insieme dobbiamo riunificare la Palestina».
Riunificare, ma quando? Giorno di pace numero uno. «Questa tregua è un neonato in incubatrice », scrive Maariv, muore se non l'assisti. Entro il pomeriggio, «in tempo per l'insediamento di Obama» (parole della radio militare), gli israeliani dovrebbero completare il ritiro. Sparacchiano gl'irriducibili e il capo delle brigate Qassam, Abu Obdeida, promette che «tutte le opzioni sono aperte, colpiremo ancora, produrre le sante armi è la nostra missione, sappiamo dove trovarle», mentre Tzipi Livni ricambia: «Ricominciamo appena ricominciano. E consideriamo un gesto ostile anche il contrabbando d'armi». Abu Mazen, presidente palestinese, dal Kuwait fa l'eco: «Serve un governo d'unità nazionale, la fine del blocco economico e nuove elezioni
L'Unione Europea
presidenziali a Gaza e in Cisgiordania, la ricostruzione comincia da qui».
Ricostruire, ma come? Questa tregua è un capelvenere, muore se non l'annaffi subito. Ci sono danni per 25 miliardi di dollari, dice l'Anp. E molto da fare: pannolini per i 3.570 bambini nati (tre volte i morti) sotto le bombe, assistenza alle 3.300 puerpere, 50 rifugi nelle scuole per 50 mila senzatetto, acqua per mez zo milione di persone, teli di plastica per le 5 mila case distrutte, le 20 mila danneggiate, le venti moschee e i sedici palazzi governativi rasi al suolo. Arriva un miliardo dal re saudita. Per ora gestisce l'Unrwa, l'agenzia Onu, ma Hamas non ci sta: «L'unico responsabile per la ricostruzione, la sovrintendenza e ogni direttiva è Ismail Haniyeh», il leader, perché la prima cosa è evitare che la gestione vada «ai ladri e corrotti del Fatah di Abu Mazen e Fayyad».
Concorda Qaddura Fares, storico deputato palestinese: «L'Anp non può gestire nulla, ha avuto una posizione troppo ambigua sulla guerra». L'Unione Europea avverte: non arriva un euro, dice la commissaria Benita Ferrero- Waldner, se non sarà Abu Mazen a incassarlo, «non diamo soldi a un'organizzazione sulla lista nera del terrorismo, macchiata da gravi crimini».
A proposito di crimini: Amnesty torna ad accusare Israele d'avere bombardato le case col fosforo bianco, come già nel Libano 2006. «Emergono tracce evidenti ed innegabili». La Croce rossa sostiene che il fosforo è stato usato, ma secondo la Convenzione di Ginevra che lo consente per illuminare i target o alzare fumo. Molte Ong vogliono però allegare anche questo al dossier sui 22 giorni di «guerra sporca». Fatah invece raccoglie prove sull'esecuzione di 16 suoi attivisti che davano fastidio a Hamas, oltre agli 80 gambizzati e alle decine d'imprigionati. A Tzipi Livni hanno chiesto come si senta, adesso che la guerra sembra finire: «I terroristi cercavano di colpire i nostri bambini negli asili, noi cercavamo di colpire solo i terroristi. A volte, vanno di mezzo anche i civili. Ma quest'operazione andava fatta. E io sono in pace con me stessa».

Dalla prima pagina del FOGLIO "Ora i razzi di Gaza sono un problema europeo" :

Gerusalemme. “Piombo fuso ha raggiunto i suoi obiettivi e ben oltre”, ha dichiarato il premier israeliano, Ehud Olmert, dopo il cessate il fuoco unilaterale a Gaza. Tsahal non ha sradicato Hamas dalla Striscia, ma il governo israeliano ritiene di aver ottenuto una doppia vittoria strategica: l’internazionalizzazione della crisi e l’indebolimento militare e politico dell’organizzazione islamista. Il Cairo e Gerusalemme hanno raggiunto “un’intesa scritta sulle misure di sicurezza per prevenire il contrabbando di armi lungo la frontiera tra Gaza e l’Egitto e anche all’interno del Sinai”, ha detto un alto responsabile israeliano. La scorsa settimana, gli Stati Uniti si sono impegnati a rafforzare la collaborazione con Israele a livello di servizi segreti e su questioni tecniche e logistiche per sorvegliare la frontiera e impedire il riarmo di Hamas. Domenica a Sharm el Sheik e Gerusalemme, i leader europei hanno promesso di “mettere a disposizione tutti i mezzi tecnici, diplomatici e militari, in particolare navali, per aiutare a fermare il traffico di armi verso Gaza”, ha spiegato Nicolas Sarkozy. L’idea, secondo fonti francesi, è di “utilizzare al largo della Striscia una parte dei 450 uomini di Unifil marittima”, la forza navale incaricata di pattugliare le coste del Libano per impedire il riarmo di Hezbollah. L’Unione europea dovrebbe anche riattivare e rafforzare la sua missione di osservazione al valico di Rafah, di cui faranno parte i “carabinieri” annunciati due giorni fa dal Cav. Secondo Haaretz, “la questione chiave alla luce della quale la campagna di Gaza sarà considerata un successo” è la determinazione delle capitali occidentali e arabe “nell’impedire il traffico di armi e evitare un’altra escalation”. Ieri i leader di Hamas sono usciti dai loro nascondigli, promettendo di tornare a colpire Israele. La Forza Esecutiva – la polizia parallela dell’organizzazione islamista – ha preso il controllo delle zone abbandonate da Tsahal, il cui ritiro da Gaza dovrebbe essere completato oggi, prima dell’insediamento di Barack Obama. Ma nel lungo periodo Hamas rischia di pagare un prezzo per le sofferenze subite dal suo popolo. “Vista la terribile devastazione”, i palestinesi di Gaza metteranno “molta pressione politica” su Hamas per evitare “di rivivere di nuovo questa esperienza”, dice Giora Eiland, ex consigliere della sicurezza nazionale di Olmert. Ieri, il presidente palestinese, Abu Mazen, ha proposto “un governo di unità nazionale”. La commissaria alle relazioni esterne, Benita Ferrero-Waldner, ha annunciato che gli aiuti Ue per la ricostruzione di Gaza non arriveranno fino a quando sarà governata da Hamas. In attesa delle mosse di Obama, la presidenza ceca dell’Ue ha convocato due vertici consecutivi sul medio oriente. Mercoledì a Bruxelles i ministri degli Esteri dei Ventisette ceneranno con la loro omologa israeliana, Tzipi Livni. Domenica prossima i capi della diplomazia Ue si incontreranno con i ministri degli Esteri di Egitto, Turchia, Giordania e Autorità palestinese. Il Cairo e Ankara sono le due capitali dove si gioca la questione intra-palestinese. La fine del dominio degli islamisti sulla Striscia è vitale per il presidente egiziano, Hosni Mubarak, che ha dato ordine al suo ministero dell’Informazione di impedire festeggiamenti panarabi pro Hamas, e ieri ha fatto arrestare 250 membri della Fratellanza musulmana, l’organizzazione da cui è nata Hamas. Il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, ha invece chiesto di “non spingere in un angolo” l’organizzazione islamista. Ma sia il Cairo sia Ankara ora promettono di lavorare insieme alla riconciliazione palestinese. “Si tratta di un compito immediato. L’Egitto condurrà i negoziati, noi contribuiremo”, ha spiegato Feridun Sinirlioglu, un alto diplomatico turco. Ieri, durante un Vertice in Kuwait, sarebbe stata siglata la pace tra i leader arabi che si sono affrontati durante la guerra di Gaza: Egitto e Arabia Saudita pro Fatah, Siria e Qatar pro Hamas. “Sono stati raggiunti degli accordi, che non è il caso di rendere pubblici subito”, ha detto il primo ministro del Qatar, Hamad Bin Jassim al Khalifah. Ma è l’Iran il principale ostacolo a un governo di unità nazionale tra Fatah e Hamas. Per contrastare l’influenza iraniana, l'Arabia Saudita ha annunciato 1 miliardo di dollari per la ricostruzione a Gaza. Il re Abdullah ha anche avvertito Israele che “l’iniziativa di pace araba (riconoscimento di Israele, in cambio di uno stato palestinese sulle frontiere del 1967) non rimarrà sul tavolo” a lungo. “L’iniziativa di pace araba rimane una base per il dialogo tra Israele e il mondo arabo. Continuiamo a voler negoziare con tutti i nostri vicini sulla base di quella iniziativa”, ha risposto Mark Regev, portavoce del governo di Gerusalemme.

Sempre dalla prima pagina del FOGLIO:  Il voto dopo i misssili

Gerusalemme. Congelata durante l’operazione militare Piombo fuso, ora in Israele la campagna elettorale per il voto del 10 febbraio ricomincia tutto d’un colpo. Immaginate, dice il Jerusalem Post, la lunga corsa al voto americana, durata 21 mesi, condensata in 21 giorni. Il paesaggio durante la Guerra dei Ventidue giorni è intanto cambiato. Violenza e decisionismo premiano la destra dei falchi, anche se il conflitto è stato guidato da un premier, Ehud Olmert, e da un ministro degli Esteri, Tzipi Livni, appartenenti a Kadima e da un ministro della Difesa, Ehud Barak, del Labour. I sondaggi dicono che oggi il Likud ha tra i due e gli otto seggi di vantaggio su Kadima. Secondo Channel 2 il 36 per cento degli israeliani vorrebbe Benjamin Netanyahu, leader del Likud, di nuovo al posto di primo ministro. Il 21 sceglierebbe Livni e il 14 per cento Barak. I tre partiti hanno già istruito i loro uomini su come condurre la guerra politica, subito dopo quella sul campo. Il Likud esalta l’impresa dei militari, e al contempo accusa Livni di fallimento in campo diplomatico. L’ex generale dello stato maggiore e candidato alla Knesset per il Likud Moshe Yaalon dice alla radio militare che i soldati hanno restituito al paese la sua la capacità di deterrenza, ma quanto ai risultati diplomatici: “Non abbiamo fatto tre settimane di guerra per firmare un accordo con gli Stati Uniti sul contrabbando d’armi”. Netanyahu, in visita ai soldati in ospedale, è più sottile: “La nostra gente e i nostri soldati sono forti, ma il lavoro non è ancora finito. Abbiamo bisogno di una guida forte, che non cede, che persiste, fino a quando la minaccia non sarà eliminata”. Da Kadima capiscono, e rispondono al volo. “Ringraziamo Netanyahu per il suo comportamento responsabile durante la guerra – dice il premier Olmert – ma guai ai politici che erodessero il valore di quest’operazione. Non sopporterei che qualche israeliano dicesse a Hamas che sostanzialemente hanno vinto loro. Chi lo facesse, se la vedrà con me”. Kadima punta le luci sui successi diplomatici di Livni, la sua bravura nel resistere alla pressione internazionale, il doppio meeting di domenica – con la partecipazione di tutti i paesi europei che contano – a Sharm el Sheik prima e a Gerusalemme la sera stessa. Il voto in Israele è il prossimo in ordine di tempo, ma non è il solo a condizionare il dopo Gaza e la situazione nella Striscia. In Iran si vota il prossimo 12 giugno, e il leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, padrone della politica di Teheran, non ha ancora deciso su quale candidato puntare. La politica estera iraniana è sospesa, in attesa di scoprire se l’Amministrazione Obama – che promette azione “fin dal primo giorno” – cambierà atteggiamento rispetto a Bush. Un po’ meno bastoni, e qualche carota in più. Per ora, l’Iran sceglie una linea attendista e meno bellicosa del consueto. I rapporti dall’Iraq segnalano che le milizie sciite stanno ricevendo molti meno aiuti da Teheran, e durante l’offensiva israeliana, a parte tanta retorica – ieri il presidente Mahmoud Ahmadinejad si è congratulato con Hamas per la “vittoria” –, l’Iran non ha offerto nulla. Le centinaia di volontari che bivaccavano all’aeroporto internazionale di Teheran sono stati rimandati a casa. “Meglio un jihad mentale”, ha detto loro il capo dei pasdaran. Khamenei può scegliere Ahmadinejad, in disgrazia per la sua pessima gestione degli affari economici del paese, ma che non delude mai quando si tratta di attaccare Israele e l’occidente: in questo caso, l’Iran investirà in tensione e aiuti militari e civili per Hamas a Gaza, perché il clima di confronto favorisce i falchi. Oppure, può scegliere un candidato “riformatore”, che in agenda abbia come priorità il salvataggio dell’economia disastrata del paese. Il grande ayatollah attende, per vedere che cosa succede a partire da oggi, con l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca. Le prossime elezioni in Iran si incastrano con le ultime negli Stati Uniti. Questa settimana si capirà se Hamas, colpita duramente dall’offensiva militare, è così debole da essere costretta a scendere a patti con i rivali moderati di Fatah o ha ancora forze residue per tenerli a distanza. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, fiuta il momento di vulnerabilità dei fondamentalisti e offre loro “la formazione di un governo di unità nazionale”. Se Hamas accettasse, ma è inverosimile, sarebbe un inaudito segnale di debolezza: la guerra ci ha stremato. Nella tregua di Gaza si fanno sentire a favore dei palestinesi anche gli stati arabi, silenziosi durante il conflitto. Ora, soltanto ora, ammoniscono Israele che la loro offerta di pace non è eterna.

Da pagina 17 del GIORNALE, di Gian Micalessin "Perché i fondamentalisti hanno perso" :

Hamas prima piega la testa e accetta il cessate il fuoco imposto da Israele, poi gioca la carta della «divina vittoria » e tenta - come Hezbollah nel 2006 - di disegnare un successo virtuale sulle rovine di Gaza. Il via lo dà l'ex premier Ismail Hanyeh annunciando un successo «storico e strategico». A far da coro arrivano il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, il capo in esilio Khaled Meshaal e un'ala militare che annuncia l'imminente ricostruzione degli arsenali.

Stavolta però la divina vittoria è solo un bel canto. Israele ha vinto sul piano strategico, tattico e politico. Il 27 dicembre all'avvio di "Piombo Fuso", Tsahal, l'esercito israeliano, affronta tre «handicap» che rischiano di comprometterne la superiorità militare. Il primo è la necessità di un trionfo indiscutibile per recuperare la deterrenza strategica perduta nell'estate 2006. Il secondo è l'obbligo di vincere in fretta per risparmiare un conflitto aperto a Barack Obama. Il terzo è il vincolo elettorale del 10 febbraio che costringe i ministri della Difesa Ehud Barak e degli Esteri Tzipi Livni a centellinare i rischi.

Israele coglie di sorpresa Hamas e sfodera un'intelligence perfetta annichilendo i centri del potere nemico. Dopo una settimana passa da una guerra esclusivamente aerea a un'operazione di terra ancor più devastante, ma mantiene sempre l'iniziativa impedendo ad Hamas di sfruttare le armi ricevute dall'Iran e di dispiegare le tattiche asimmetriche apprese dai pasdaran e da Hezbollah. Il lancio di missili da piazzole interrate, da cortili e tetti civili è costante, ma impreciso, incapace di replicare il panico e il caos generato in Israele dalle salve di Hezbollah nel 2006. Neppure i bunker sotterranei, l'impiego di volontari kamikaze, l'utilizzo di mortai e armi anticarro per colpire sfruttando lo scudo dei civili e i dedali cittadini generano quelle sorprese asimmetriche che nel 2006 bloccano più volte le offensive di Tsahal. L'esercito, invece, usa tutta la devastante potenza di fuoco per livellare qualsiasi resistenza e costringe i militanti a evitare lo scontro diretto.

Hamas non riesce nemmeno a capitalizzare l'effetto solidarietà generato dal pesante bilancio di vittime civili. Le divisioni arabe e i sospetti internazionali generati dall'alleanza con Iran ed Hezbollah impediscono l'innescarsi di una reale ondata d'indignazione. In Cisgiordania, dove nel 2006 stravinse le elezioni, Hamas si ritrova stretto nella morsa delle nuove forze di sicurezza di Fatah addestrate in Giordania con la consulenza americana. Questa indiretta alleanza con Israele potrà rivelarsi letale per il presidente palestinese Mahmoud Abbas, ma intanto cancella la presenza fondamentalista intorno a Gerusalemme.

Questo isolamento politico, umano e geografico priva Hamas di un elemento indispensabile per inscenare la divina vittoria. Nel 2006, tre giorni dopo il ritiro israeliano, Hezbollah già distribuiva i dollari iraniani destinati alla ricostruzione. Oggi l'Iran fa i conti con la caduta dei prezzi del petrolio, una pesante crisi economica e l'isolamento di Hamas causato dalla distruzione dei tunnel di Rafah. Nella Gaza sigillata da Egitto e Israele, Hamas non è certo il demiurgo della ricostruzione e deve rispondere a chi lo accusa di aver salvato i propri capi, ma aver lasciato sterminare la propria gente.

Sullo scacchiere regionale l'alleato iraniano fa i conti con la perdita di un fronte indispensabile, assieme a quello libanese, per tenere sotto scacco Israele in caso di attacco preventivo contro le sue installazioni nucleari. Una sconfitta quasi imperdonabile per chi come Teheran punta all'egemonia in Medio Oriente.

Da pagina 10 de La STAMPA,  "Così i fondamentalisti hanno perso , di Frnacesca Paci":


Ci sono rimasti i cuscini e le coperte con cui siamo fuggiti una settimana fa: chi ci ridarà quello che abbiamo perso?». Domanda da un milione di dollari quella di Musa Radi, falegname di Jabalya. Il figlio Youssef, 13 anni, fruga tra le macerie della loro abitazione, una palazzina di tre piani rasa al suolo, alla ricerca di frammenti di missili da vendere al mercato. Un pezzo d'alluminio grande vale uno shekel, circa 20 centesimi.
I carri armati hanno fatto retromarcia, già. E adesso chi paga? A tre settimane dall'inizio dell'offensiva israeliana e 48 ore dal cessate il fuoco Gaza sembra tornata indietro di mezzo secolo: 20 mila edifici colpiti e 5000 distrutti (il 15 per cento del totale), 51 mila persone senza tetto, circa due miliardi di dollari di danni. Secondo Loai Shabana, direttore del Palestinian Central Bureau Statistics, la disoccupazione nella Striscia è passata in appena 23 giorni dal 42 al 60 per cento.
Il dopoguerra apre un nuovo fronte, commenta l'editorialista di «Haaretz» Akiva Eldar. L'Europa ha sponsorizzato la tregua, d'accordo. Oltre alla diplomazia però, servono soldi: «Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi non sono soliti partecipare a raccolte di fondi per rimettere in piedi edifici pagati dai loro stessi contribuenti e distrutti ancora una volta dagli amici israeliani».
La ricostruzione non è mera questione edile. Gestire il denaro dei donatori significa acquisire un certo credito presso i palestinesi. Israele, l'Egitto e i Paesi arabi cosiddetti «moderati» vorrebbero che toccasse al presidente Abu Mazen ma Hamas, sebbene ridimensionato dal conflitto, ha sponsor pesanti.
Al di là dell'Unione Europea, che considera Hamas un'organizzazione terroristica e prende tempo in attesa di capire chi controllerà il territorio, ci sono i partner regionali attentissimi all'equilibrio dei poteri. Mentre Londra, Parigi, Roma, Berlino, si concentrano sugli aiuti umanitari (la Gran Bretagna ha annunciato che invierà 29 milioni di dollari) i leader arabi, riuniti ieri in Kuwait per il vertice economico, aprono le casse per accaparrarsi la partita.
Sepolte, per il momento, le divergenze tra la troika Egitto-Giordania-Arabia Saudita e il Qatar, più orientato all'asse irano-siriano, sceicchi e sultani fanno a gara per mostrarsi uniti almeno nell'amicizia verso i palestinesi in senso lato. Che siano i governativi di Fatah o gli avversari del partito islamico al potere a Gaza al momento sembra un dettaglio. Per questo, nell'intervallo dei lavori, il re saudita Abdullah bin Abdelaziz ha invitato a pranzo l'alleato egiziano e i rappresentanti di Qatar e Siria, un gesto di riconciliazione dopo la bufera dei giorni scorsi, quando Damasco aveva patrocinato il vertice di Doha a sostegno di Hamas assediato.
Riad ambisce a un ruolo guida e spera di convincere il neopresidente americano Barack Obama ad appoggiare l'iniziativa saudita che prevede la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 in cambio della normalizzazione dei rapporti tra Israele e 22 Paesi arabi. Annunciando il finanziamento di un miliardo di dollari (il Kuwait ha promesso 500 milioni), re Abdullah bin Adbelaziz parla agli arabi accorsi in Kuwait perché Washington e Teheran intendano. L'Iran sappia che i sauditi non cederanno un centimetro di terreno: «Per conto dei miei fratelli in Arabia Saudita annuncio che il regno offrirà un miliardo di dollari come contributo al programma proposto da questo vertice per il dopoguerra». Re Abdullah sorvola su chi incasserà l'assegno, come aveva sorvolato il Qatar stanziando 259 milioni di dollari.
Dietro la ricostruzione delle infrastrutture di Gaza c'è la ricostruzione o la definitiva distruzione dell'identità nazionale palestinese. Di fronte alla platea kuwaitiana, in larga parte a lui favorevole, il presidente palestinese Abu Mazen ha ribadito l'impegno per la riconciliazione. Dalla sua, l'endorsement del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon che ieri l'ha salutato come il legittimo presidente palestinese.
«Quello di cui abbiamo bisogno è un governo di unità nazionale che avvii l'eliminazione del blocco israeliano, la riapertura dei passaggi, la ricostruzione, e la preparazione di elezioni presidenziali e legislative simultanee». Il prezzo è il ritorno nei ranghi di Hamas, con la speranza non dichiarata che una buona destinazione dei fondi internazionali porti a termine il lavoro cominciato dall'esercito israeliano. Tra le macerie di Jabalya il falegname Musa Radi cerca l'epilogo di una storia senza fine.

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