mercoledi` 14 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
20.01.2009 La disinformazione non cessa il fuoco
i faziosi reportage di Lorenzo Cremonesi e Guido Rampoldi

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Lorenzo Cremonesi - Guido Rampoldi
Titolo: «Bilancio di 22 giorni di fuoco - La collina della vergogna»
Devastazioni, colpi intenzionalmente rivolti ai civili, saccheggi. Questa la guerra israeliana ad Hamas come emerge dal reportage di Lorenzo Cremonesi pubblicato dal CORRIERE della SERA del 20 gennaio.

In quello di Guido Rampoldi, pubblicato da La REPUBBLICA compaiono anche le esecuzioni a freddo.

Le fonti sono esclusivamente palestinesi, e nessuno sforzo viene compiuto per verificare la loro versione. Singoli episodi, veri o presunti, vengono trasformati in esemplificazioni della condotta generale dell'esercito israeliano.
Le lezioni del passato sono dimenticate: la macchina della propaganda palestinese ha già prodotto molte storie che si sono poi rivelate false. Una certa informazione, però, se ne dimentica ogni volta e continua a considerare automaticamente vero ogni racconto che possa servire alla condanna morale di Israele.

Ecco i testi:

Bilancio di 22 giorni di fuoco , di Lorenzo Cremonesi, pagina 1 e 17 del CORRIERE della SERA :

(Gaza settentrionale) — In un groviglio di lamiere di ferro, terriccio e tubi di plastica si intravedono le carcasse in putrefazione delle 380 mucche da latte di Mohammad Al Fayumi.
I carri armati israeliani prima hanno sparato contro la stalla, poi ci sono passati sopra, triturando sotto i loro cingoli bestie e cose. Poco lontano, la seconda stalla con altre 450 carcasse di animali sparse tutto attorno è stata parzialmente risparmiata. Il danno per lui è gigantesco: «Ho perso circa un milione di dollari. Ho già licenziato i miei 15 dipendenti. Dovrò cominciare tutto dal nulla».
Non è il solo. A un centinaio di metri i membri della «hamula» (il clan familiare) Dardona stanno stimando i danni. «Avevamo oltre tremila ulivi e aranci. Sono tutti divelti. Raccogliamo i resti, ci serviranno almeno come legna da ardere per il futuro, visto che non abbiamo neppure i soldi per le bombole del gas», dice Amna Dardona, 68 anni, china tra i resti dei rami a cercare di individuare i legni migliori. Figli, cugini e nipoti fanno la spola tra la terra arata dai tank ed uno spiazzo tra le macerie dove stanno accatastando tutto ciò che resta di un qualche valore. Tutte le loro sei villette di due o tre piani sono state colpite in modo irreparabile. «Dovremo abbatterle e ricostruirle », spiega Kamal Dardona, il figlio quarantenne, impegnato a rimuovere dalle abitazioni ciò che ancora funziona: un vecchio frigorifero, un tavolo, qualche coperta, piatti, secchi di plastica. Le truppe scelte israeliane hanno bivaccato in una delle abitazioni, prima di evacuarla hanno distrutto a mazzate gabinetti, lavandini, infissi, poi si sono accanite sui mobili accatastandoli in mezzo alle stanze e appiccando il fuoco. I soffitti sono tutti anneriti. In giardino hanno preso a fucilate il cane, galline, oche e tre capre. I resti di alcuni degli animali sono stati gettati nel pozzo a inquinare l'acqua.
La lista delle devastazioni potrebbe continuare all'infinito. Tra le rovine delle zone nord-orientali di Jabalya, migliaia di abitazioni abbattute o da abbattere, la distruzione metodica eletta a sistema, un deserto di macerie. E un nome che ha in sé una lunga scia di ricordi per chiunque abbia seguito la storia recente del conflitto israelo-palestinese. Questo è infatti il più popoloso campo profughi palestinese della «striscia della disperazione ». Ci vivono oltre 80 mila persone, comprese le zone delle piccole industrie alla periferia orientale e i quartieri nuovi costruiti dopo l'arrivo di Yasser Arafat nel 1994. E qui, il 7 dicembre 1987, scoccò la scintilla della prima intifada. Nove abitanti di Jabalya rimasero uccisi in un incidente d'auto contro un mezzo militare mentre tornavano dal loro lavoro di operai pendolari in Israele. Due giorni dopo i loro funerali dettero fuoco alla rivolta. Per la prima volta gli slogan tradizionali dell'Olp furono affiancati a quelli fondamentalisti-religiosi inneggianti alla «guerra santa».
Ieri verso mezzogiorno, per la prima volta dall'inizio dell'operazione di terra israeliana, migliaia di abitanti della zona stavano tornando alle loro case per verificare i danni. E con loro abbiamo cercato di capire quali fossero le conseguenze. Davvero Hamas è stata indebolita, davvero ha perso consensi come affermano a Gerusalemme? Molto difficile dire. Tanti tra i più giovani, e non solo loro, gridano vendetta. «Hamas ci vendicherà, nonostante tutto abbiamo vinto», dicono rabbiosi. Ma tanti altri tacciono e lavorano tra le rovine. «Siamo tutti sotto shock. Non avremmo mai pensato che Israele potesse arrivare a tanta barbarie. Solo tra qualche settimana vedremo se davvero questa azione rafforzerà Fatah ai danni di Hamas», sostiene Nabil Hassan Nasser, proprietario di una grande azienda che sino a un mese fa produceva olio. Adesso è ridotta a un cumulo di macerie. Poco lontano si trova anche l'abitazione di Ezzedin Abu Al-Aysh, il ginecologo di Tel Aviv che ha perso le tre figlie di 13, 14 e 20 anni «in diretta». Quando un proiettile di tank ha colpito la sua casa lui stava parlando alla tv israeliana e ha continuato in lacrime a descrivere la scena. Ora si trova in Israele. Per lui parla il fratello Atta. «Tutti noi crediamo alla pace. Con gli israeliani vogliamo negoziare. Hamas sta perdendo consensi. Pochi lo ammettono ad alta voce. Ma da quando è salita al potere non ci ha procurato che guai», afferma. «Questa è stata una gigantesca punizione collettiva. Volevano terrorizzarci, ucciderci. Qui si è consumato un grave crimine di guerra. Non è vero che gli israeliani tiravano solo contro Hamas. Li ho visti sparare su donne e bambini, su vecchi e animali, senza pietà».


La collina della vergogna di Guido Rampoldi, pagina 1 e 13 de La REPUBBLICA

La collina ha un nome mite: Hai el-Zaitun, il Posto delle Olive. Molteplice è l´origine della sua sfortuna. Hai el-Zaitun è alla periferia di Gaza, e dall´alto domina la città. Ma non meno di questa posizione strategica è stata fatale ai suoi abitanti la coincidenza di interessi tra Hamas e il governo Olmert, poiché a entrambi una guerra conveniva. In ogni caso, due settimane fa, nel pieno della battaglia di Gaza, ad Hai el-Zaitun trentacinque palestinesi sono stati uccisi dagli israeliani.
E le testimonianze dei sopravvissuti concordano: alcuni sono stati ammazzati a sangue freddo, quando si erano già arresi.
A Hai el-Zaitun vivevano i membri di un grande clan palestinese, i Samuni (Samooni secondo la trascrizione inglese). Abitavano15 edifici di due o tre piani sparsi per un´area di circa tre ettari. Avevano olivi, orti, anatre, un allevamento di galline e una piccola moschea. I tank israeliani e la fanteria arrivarono lassù nei primi giorni di gennaio e si attestarono tra le case. E´ probabile che uno o più Samuni abbiano sparato sui soldati. Ma neppure questo giustificherebbe quel che accadde in seguito.
La collina adesso è immersa in un fetore di galline morte. Sulla sabbia pressata dai cingoli dei carri armati si svolge da due giorni un andirivieni di sopravvissuti, impegnati a tentare di recuperare qualcosa dalle case, tutte colpite da pallottole e da granate, le più totalmente distrutte.
Atia Samuni, 47 anni, e suo figlio Ahmed, 4 anni, morirono in questa palazzina a tre piani, un edificio rudimentale di cemento nudo, con un tetto di lamiera, stanze senza porta e al piano terra, sabbia per pavimento. La moglie di Atia, Zeinat, non ricorda esattamente quale giorno fosse, probabilmente il 3 gennaio. Gli israeliani spararono una granata contro la casa, distruggendone una parte. Poi entrarono all´interno. Quasi tutti gli abitanti, venti in tutto, si era radunati in una stanza di tre metri per tre, con stuoie sulla sabbia. «Chi è il proprietario?, gridarono i soldati. Allora mio marito avanzò con le mani alzate», mi racconta Zeinat Samuni. «Era sulla porta quando gli israeliani lo ammazzarono con una pallottola tra gli occhi. Cadde all´indietro, in questa stanza. Poi gli israeliani ci mitragliarono».
Le pallottole ferirono cinque palestinesi, tra i quali i due figli di Zeinat Samuni: un neonato e Ahmed, il bambino di quattro anni. «Li sentivamo ridere, mentre rovistavano nella stanza accanto, per rubare quel che avevamo. Quando diedero fuoco ai materassi, il fumo invase questa stanza e non riuscivamo a respirare. In nome di tutti i libri sacri, li invocammo, lasciateci vivere, per pietà. Infine ci puntarono le loro luci laser e ci ordinarono di spostarci nella cucina. Fatemi prendere mio marito, dissi. Ma non vollero. Più tardi accadde qualcosa che non so, perché uscirono dalla casa. Provai a uscire anch´io, Ahmed perdeva molto sangue, ma i soldati presero a sparare fin quando non rientrai. Allora chiamai la Croce Rossa, gli ospedali. Mi dissero che non potevano mandare un´ambulanza, gli israeliani avevano già ammazzato due autisti. Mio figlio morì di emorragia. Vede quella striscia rossa sulla parete? Quello è il sangue del mio povero bambino».
Secondo altre donne Samuni che trovo ad Hai al-Zaitun, almeno un altro palestinese sarebbe stato ammazzato a sangue freddo. Quando ne raccontano, sono inarrestabili come un fiume in piena. Si erano rifugiati in 80 in una palazzina prossima alle casa di Ahmed Samuni, quando gli israeliani ordinarono di uscire, prima con un razzo di avvertimento, poi con un altoparlante. «Strappammo strisce di lenzuola bianche, e agitando quelle sulla testa uscimmo. Gridavamo "Katàn, katàn", bambini, e mostravamo i nostri figli. Eppure ci spararono. Da quella casa, la vede? Ammazzarono un uomo e ne ferirono altri due».
Ricorre in questi racconti il saccheggio delle case. I soldati trasformarono in "centro di interrogatorio" la casa di Assad al Samuni, 50 anni, poliziotto, e per primo interrogarono lui, disteso su assi poggiate su una branda, bendato e legato con manette di plastica. Volevano sapere chi apparteneva ad Hamas, in quella zona. Nel frattempo perquisirono la casa e trovarono il bottino - qualche oggetto d´oro e circa 4000 euro in dinari giordani - in un cassetto segreto dell´armadio. Rubarono anche gli 800 shekel che Mahmud al Samuni, 11 anni, aveva nascosto tra i vestiti. E questo ora indispone Mahmud molto più del fatto che quando andava in cucina, per prendere cibo per il resto della famiglia, aveva sempre un mitra puntato nella schiena: «Avevo impiegato un anno per metterli insieme, accidenti!».
Hai al-Zaitùn è una Mi-Lai israeliana? Recitavano, quelle donne straziate dal dolore? Non è difficile verificare se questi racconti sono veri. Israele sostiene che nell´offensiva mai il comportamento dei suoi soldati è stato disonorevole. Però rifiuta per principio un´inchiesta internazionale (nel caso affidata alla Corte penale internazionale) e ignora i dettagliati rapporti dell´americana Human Rights Watch, la più attendibile organizzazione per i diritti umani. Val la pena di rileggere un´indagine condotta da Hrw sulla penultima offensiva israeliana a Gaza, l´operazione Inverno Caldo, condotta a cavallo tra il febbraio e il marzo 2008, e conclusa con l´uccisione di 102 palestinesi, per la metà civili. Secondo Hrw i soldati israeliani si macchiarono di «gravi violazioni, incluso l´uccisione di un ferito trasportato in ambulanza, l´uccisione di due conducenti di carretti trainati da asini, il ferimento con armi da fuoco di due prigionieri. Tutti questi incidenti sono avvenuti in aree saldamente in controllo delle Forze armate israeliane». Che tra i soldati israeliani ve ne sia qualcuno dal grilletto facile, è da mettere nel conto, considerando l´asprezza dello scontro e la sua durata. Ma secondo Hrw la questione è un´altra. «Un problema centrale è stato l´impunità» (rispetto alle leggi internazionali) che Israele accorda ai suoi militari. Hrw cita questo esempio: dopo "Inverno Caldo" Israele ha aperto indagini su tre furti che chiamavano in causa suoi soldati, ma non su presunti assassinii. Va da se che l´impunità distrugge i codici di un esercito. Anche di un esercito come quello israeliano, che trent´anni fa era il più etico (e il più motivato) del pianeta.
Ovviamente Hrw è durissima anche con Hamas, di cui condanna nei termini più nitidi i metodi di lotta. Se poi si aggiunge l´indifferenza di europei e americani alle violazioni più plateali, non sorprende che lo scontro arabo-israeliano abbia un carattere così sregolato. Poiché considera il nemico "terrorista, nazista e genocida", ciascuno dei contendenti si accorda il diritto di derogare dalle leggi di guerra ed è tentato di puntare tutto sulla soluzione militare. Anche per questo è possibile che il cessate-il-fuoco non duri. Tanto più perché Hamas ora sembra ubriacata da quello che considera un successo.
L´esito finora inconcludente dell´offensiva israeliana ieri ha permesso all´organizzazione fondamentalista di dichiarare la vittoria. Davanti alle cineprese di molte tv, due incappucciati, entrambi capi delle Brigate Qassam, hanno millantato di aver ucciso 49 israeliani, uno in più dei loro guerrieri "martirizzati nello scontro" e di essere pronti ad attaccare il nemico se nel tempo di una settimana non uscirà completamente dalla Striscia e non riaprirà il confine. In quel caso «la guerra ricomincerà», con «nuove sorprese» perché la «nostra capacità militare non è stata indebolita» e le Brigate Qassam sono in grado di elevare la qualità tecnologica della propria missilistica. I due incappucciati hanno concluso con un avvertimento ad Israele: «Non riuscirete a concludere la pace ai vostri termini». Oltre milleduecento palestinesi sono morti anche perché Hamas potesse allestire questo spettacolino grottesco e velleitario, il suo debutto sulla scena internazionale. Un palcoscenico su cui conta di restare a qualsiasi prezzo.

Per inviare la propria opinione alla redazione del Corriere della Sera e de La Repubblica cliccare sulla e-mail sottostante

lettere@corriere.it
rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT