Da pagina 2 del GIORNALE del 19 gennaio 2009, l'articolo di R.A. Segre "Adesso Gerusalemme è più forte":
Forse non è stato prudente il premier israeliano Olmert nel dichiarare sabato sera che la guerra di Gaza era vinta, dal momento che ancora si combatte. Tuttavia una inaspettata conferma del successo militare di Israele è giunta da Londra con la pubblicazione di un manifesto firmato da 300 accademici in cui si chiede di «non permettere a Israele di vincere». È un manifesto significativo. Dimostra una volta di più che per certi intellettuali soprattutto di sinistra l'ebreo - perché qui si tratta di ebrei non solo di israeliani - è accettabile solo come vittima; che lo si può amare e onorare solo se morto. Dimostra inoltre come nella una volta orgogliosa e combattiva Inghilterra lo spirito disfattista di Monaco continui a diffondersi - come del resto in Europa - in larghi strati dell'opinione pubblica alle prese con l'imperialismo islamico. Ma allo stesso tempo che qualche cosa di nuovo è successo nella battaglia di Gaza. Il manifesto mette in evidenza il timore di accademici amanti della pace e della giustizia che Israele possa aver riportato sul piano strettamente militare un doppio successo: quello di dimostrare la ritrovata combattività deterrente del suo esercito e quello di evidenziare l'inesistente invincibilità dell'islam, sostenuto dalla volontà divina e dalla capacità di fare della morte lo scopo supremo della vita.
A Gaza le milizie di Hamas non solo non si sono trasformate in martiri ma si sono sciolte facendosi scudo di civili, usando scuole e ambulanze, centri dell'Onu come protezione per le postazioni dei loro missili. Quanto alla direzione politica di Hamas si è spaccata tanto al suo interno quanto all'esterno con l'ala ideologica intransigente nascosta a Damasco. È anche sul campo politico arabo che Israele sembra aver riportato, almeno per il momento, un successo. Non uno degli alleati di Hamas si è mosso se non a parole in sua difesa: né gli Hezbollah dal Libano che avevano profetizzato che Gaza sarebbe diventata il cimitero di Israele; né l'Iran, che per due anni ha finanziato e armato Hamas, chiedendo al mondo islamico di lanciare la guerra santa contro Israele a cui nessuno ha risposto se non con chiassose dimostrazioni di strada. L'Egitto, l'Arabia Saudita e la Giordania hanno visto in questa guerra la loro guerra e cercano ora di trarne profitto patrocinando assieme agli europei e ai turchi tregue d'armi che non possono realizzarsi senza l'accordo di Gerusalemme. Quanto ai palestinesi della Cisgiordania che non hanno lanciato un solo attacco suicida per aiutare i loro fratelli - sempre più nemici - di Gaza vengono accusati di aver fornito all'intelligence israeliano le informazioni per eliminare il più duro degli ideologi di Hamas, quel ministro degli Interni Said Sayyam che con la sua «forza speciale» aveva imposto alla striscia di Gaza il regno del terrore.
Israele non ha certo ancora vinto la guerra psicologica. L'orrore suscitato dal numero di vittime civili e l'errore di aver ripetutamente colpito centri dell'Onu anche se usati da Hamas per il lancio dei suoi missili continuerà a pesare a lungo sulla sua immagine internazionale. Ma la durezza e la determinazione stessa della sua reazione ha sfatato l'impressione che molti israeliani stessi, oltre che la maggioranza degli osservatori internazionali, avevano sulla capacità di sopravvivenza di questo piccolo Stato. E cioè che Israele fosse entrato in una crisi di identità e consapevolezza nazionale irrevocabile. La guerra di Gaza ha invece dimostrato come questa democrazia, con tutti i suoi difetti e le sue debolezze, sia ancora capace di combattere per i suoi diritti con un esercito di popolo, invece che con gli eserciti di moderni mercenari col coraggio di rischiare tutto, per raggiungere quella «pace dei bravi» che solo ad essa viene negata.
Dalla prima pagina de La STAMPA, l'analisi di Vittorio Emanuele Parsi "La tregua impossibile":
Nella partita di Gaza la possibilità che i dirigenti israeliani (che oltretutto devono tener conto dei loro interessi elettorali) sprechino una volta di più il successo militare non è da escludere. Se è vero quanto diceva Nietzsche che nulla è più pericoloso della vittoria se non la sconfitta, è altrettanto vero quanto affermava Mazzini, che una azione decisa vale di più di mille discorsi.
E’ una tregua fragilissima quella che stentatamente ha preso avvio nelle ultime 48 ore a Gaza. Proclamata unilateralmente dagli israeliani, non accettata inizialmente da Hamas.
E poi, dopo qualche altra decina di morti palestinesi, nuovamente ai nastri di partenza. Al momento non sappiamo neanche se davvero riuscirà a consolidarsi, per durare quella settimana che Hamas dichiara di essere disposta a concedere: tante, forse troppe, sono le differenze sostanziali sulla sua interpretazione e sulla sua esecuzione, a cominciare dall’effettivo ritiro delle truppe di Gerusalemme. Nel luglio del 2006, giova ricordarlo, Tsahal non abbandonò le posizioni occupate nel Sud del Libano fin quando l’esercito regolare di Beirut non arrivò a rilevarla. Qui a Gaza, dove si prospetta l’intervento di una forza multinazionale apparentemente simile a quella che da quasi due anni vigila sull’attuazione della tregua tra Israele e Hezbollah, nulla di analogo può accadere.
In realtà, nonostante le molte apparenti analogie, quasi nulla di questa tregua ricorda quanto accaduto nel Sud del Libano. E, mentre forse ci accingiamo a inviare nostre truppe nell’area, sarà utile ricordarselo. Ciò che maggiormente conta, però, è che, se tutto andrà bene, avremo a disposizione una settimana per cercare di impostare qualcosa di più di un semplice cessate il fuoco tra le parti. Il conflitto divampato il 27 dicembre scorso, infatti, non è stato la conseguenza di un doppio errore di calcolo, da una parte e dall’altra, come fu per la guerra libanese dell’estate del 2006. All’opposto, sia il governo israeliano sia Hamas hanno deliberatamente scelto la rischiosa via della guerra per mutare uno status quo ritenuto da entrambi, e per motivi diversi, insostenibile. Hamas voleva rompere l’assedio economico e militare di Gaza e il proprio isolamento politico. Israele voleva interrompere definitivamente lo stillicidio di missili sul Negev e assestare un durissimo colpo a Hamas approfittando del suo isolamento all’interno dello stesso mondo arabo. Ambedue le parti hanno cioè scelto la via dell’«azzardo politico», nella speranza di incamerare un decisivo successo. Ecco perché è stato così difficile riuscire a giungere a una tregua, che non poteva semplicemente offrire un cessate il fuoco, ma deve invece creare i presupposti per un superamento dello status quo ante accettabile per entrambi le parti.
Il trascorrere del tempo, del resto, stava già modificando il quadro politico della crisi. Nelle quasi quattro settimane di conflitto Israele si è resa conto che stava erodendo quel capitale di credito e simpatia che era riuscita ad accumulare nei lunghi mesi in cui aveva pazientemente subito i continui lanci di missili Qassam e, soprattutto, il «vantaggio» concessole da Hamas con la sua denuncia unilaterale della tregua precedente e con l’inizio dell’offensiva missilistica. Da parte sua Hamas era riuscita a lucrare, giorno dopo giorno, sulle immagini di quelle vittime palestinesi innocenti rimbalzate sui circuiti mediatici internazionali, dove un solo fotogramma decontestualizzato vale più di mille analisi.
Poco importava che quelle povere vittime, uccise dal piombo israeliano, fossero state condannate a morte dalla dirigenza di Hamas, non solo consapevole fin dall’inizio dell’enorme prezzo che il popolo di Gaza avrebbe pagato all’estremismo del gruppo fondamentalista, ma che di quelle morti (e della loro esibizione) aveva bisogno come strumento di pressione sull’opinione pubblica internazionale. Proprio questa era stata l’arma strategica capace di riequilibrare gli esiti politici del conflitto. Può anche darsi che Israele abbia raggiunto «gli obiettivi prefissati», come ha sostenuto il premier Olmert, ma di sicuro la sua situazione era sempre più insostenibile di fronte a una comunità internazionale via via più irritata, e con i governi europei in apprensione di fronte alla rabbia non sempre composta delle proprie minoranze arabe e islamiche. Quali fossero questi obiettivi, non è mai stato rivelato. Ma la sensazione è che essi si concentrassero in uno solo: ristabilire il timore arabo per la capacità militare israeliana dopo il fiasco della «guerra di luglio».
Come già avvenuto in Libano nel 2006, l’Europa è oggi chiamata a contribuire al consolidamento della tregua di Gaza. È un fatto positivo, che ridà peso alla posizione europea nel cosiddetto «Quartetto» e che arriva dopo le divisioni interne delle prime ore e anche dopo che, con la sua fermezza, Angela Merkel aveva chiarito che un manicheo invito al cessate il fuoco non sarebbe stato sufficiente. Con il suo sostegno aperto alle ragioni di Israele, la Germania ha in fondo costretto lo stesso Sarkozy a uno sforzo più effettivo, più «politico», nell’area. Francia, Germania e Italia, per ora, rappresentano la pattuglia di testa di questo maggior impegno europeo per la pace nel conflitto israelo-palestinese.
A differenza di quanto finora ben fatto in Libano, qui non basterà sorvegliare l’attuazione dell’intesa. Occorrerà darsi da fare, e parecchio, per costruire le condizioni politiche per una tregua duratura, che al momento non ci sono. Sarà necessario lavorare con tutti gli strumenti a disposizione per far compiere un passo decisivo verso l’unica soluzione possibile: cioè quella riassunta nella formula «due popoli, due Stati». A tutt’oggi le posizioni estremiste di Hamas, che continua a predicare a suon di bombe la distruzione di Israele e l’espulsione del popolo ebraico dalla Palestina, rappresentano il principale ostacolo verso questo esito. Sarebbe importantissimo che l’impegno europeo a Gaza non perdesse di vista la necessità di accompagnare Hamas a rivedere questa posizione, il cui prezzo è già costato la vita di troppe vittime innocenti, tanto israeliane quanto palestinesi.
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