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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
17.01.2009 Cronache e analisi dal conflitto, mentre uno scriteriato va a cercare lo scoop
e A. B. Yehoshua rimprovera il difensore di Hamas

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Rolla Scolari - Gian Micalessin - Daniele Raineri - Lorenzo Cremonesi - Davide Frattini - Francesco Battistini
Titolo: «Vari»

Sul conflitto mediorientale riprendiamo cronache e analisi da IL GIORNALE, CORRIERE della SERA, IL FOGLIO.

Il GIORNALE - Rolla Scolari: " Israele vota ma pace è parola tabù ", intervista con Joseph Cedar regista del film "Beaufort" che purtroppo non è mai stato programmato in Italia.
 
Il nemico è invisibile. Spara razzi e colpi di mortaio da luoghi nascosti e ben protetti. Potrebbe essere la Striscia di Gaza, ma in questo caso è la terra di Hezbollah, la roccaforte dei miliziani sciiti del Sud del Libano. L’atmosfera è rarefatta, cupa, claustrofobica nell’ultimo avamposto israeliano nel Paese, arroccato accanto alle rovine del castello di Beaufort, fortezza crociata del XII secolo. È il 2000 e un’unità di Tsahal è appesa in un limbo, tra attacchi, morte e dispacci radiofonici: si aspetta che il governo israeliano ordini il ritiro, come in queste ore si attende l’annuncio di una tregua a Gaza. Beaufort, fortezza simbolo di 18 anni d’occupazione, è il titolo di un film del 2007, uscito proprio dopo la guerra con Hezbollah, del regista israeliano Joseph Cedar. È stato candidato all’Academy Award, premiato a Berlino. È una pellicola contro la futilità della guerra ma anche sul valore di un atto di coraggio: il ritiro. Capace di ridare ottimismo a una popolazione stanca di vivere al fronte. Oggi, mentre Tsahal è impegnato in un altro conflitto, dice Cedar al Giornale, è proprio l’ottimismo a mancare in Israele.
Qual è il sentimento prevalente nella popolazione in questi giorni?
«È dovere di ogni cittadino vedere speranza alla fine di questo conflitto. Ma nessun partito alle elezioni di febbraio porta un messaggio di ottimismo. I politici sanno che non saranno eletti con una piattaforma di pace. I razzi hanno distrutto le premesse di dialogo della sinistra. La narrativa israeliana è: il conflitto non ha nulla a che vedere con confini e territori. Ci siamo ritirati da Gaza e sono arrivati i Kassam. È difficile non essere d’accordo».
Dopo molti giorni c’è ancora un grande sostegno all’operazione, perché?
«L’esistenza di un vasto consenso alla guerra in corso è uno degli aspetti più spaventosi di quello che sta succedendo. L’appoggio crollerà quando aumenteranno le vittime israeliane. Ora quello che accade a Gaza ha un effetto limitato sulla popolazione».
I suoi soldati di Beaufort lamentano un divario: loro al fronte, i coetanei nei bar di Tel Aviv. È così oggi?
«È vero solo in parte: certo, la vita va avanti al Nord e nel centro d’Israele, ma il Paese è piccolo e tutti noi abbiamo un parente o un amico nell’esercito. E poi, la guerra la senti ovunque».
Qual è l’immagine di questa guerra che le è rimasta più impressa?
«Rispetto al conflitto in Libano, le immagini che arrivano sono poche, per via della nuova politica dell’esercito e la chiusura della Striscia ai giornalisti. L’immagine che ho in mente è quella del fumo che si alza dai palazzi della Striscia di Gaza».
 
Il GIORNALE - Gian Micalessin " Quei tunnel che minacciano la tregua "
 
Era la cornucopia di Hamas, un corno dell’abbondanza capace di garantire armi, munizioni e soldi al gruppo fondamentalista, cibo, carburante e lavoro a chi ci lavorava, ricchezza a chi ne gestiva i traffici. I circa 500 tunnel scavati alla frontiera tra la Striscia di Gaza e il Sinai egiziano rischiano, però, di chiudere per sempre. Israele li vuole sigillati controllati da una forza internazionale cancellati per sempre. Le gallerie, lunghe dai 200 metri al chilometro, profonde fino a 20 metri e costruite al costo di circa 100 dollari al metro erano condensate nella striscia di 4 chilometri di confine, intorno agli abitati di Tel Zareb, Brazil e al Abur, dove è possibile scavare.
Nelle circa 100 condutture gestite esclusivamente da Hamas sono passati i 160/170 missili Grad di fabbricazione cinese o iraniana contrabbandati dentro la Striscia di Gaza. Assieme ai missili sono transitate tonnellate d’esplosivo, mortai da 120 e 81 millimetri, munizioni, proiettili, razzi anticarro e qualche mitragliatrice anti aerea e schiere di militanti diretti verso i campi d’addestramento in Iran e Libano.
I tunnel di Rafah garantivano anche la sopravvivenza economica di Hamas. Dopo il blocco imposto da Israele il valore delle merci transitate nelle condotte è passato dai 30 milioni di dollari del 2006 ai 650 milioni annui del 2008. Comprendendo l’importanza di quelle «arterie» Hamas ne legalizzò l’uso imponendo ai privati una rigida tassazione. In cambio Hamas garantì allacciamenti elettrici e idrici ai gestori della «rete commerciale» usata per importare dall’Egitto qualsiasi genere di prima necessità dalle auto alla droga, dal cibo, ai frigoriferi al carburante.
La gabella sui tunnel garantiva entrate pari a circa 20 milioni di dollari annui. La merce più contrabbandata dopo le armi era il gasolio. Secondo le stime ogni giorno dai tunnel transitavano 150mila litri di carburante a un prezzo che era circa la metà di quello pagato per i 120mila litri di gasolio quotidiani garantiti da Israele alle centrali elettriche di Gaza. L’economia dei tunnel e il suo indotto garantivano lavoro a circa 18mila abitanti di Rafah e avevano fatto scendere il livello di disoccupazione della zona dal 50 al 20 per cento. Ciò che arricchiva Rafah depauperava la Striscia. I ricarichi impossibili imposti sulle merci contrabbandate avevano generato il completo impoverimento degli altri abitanti di Gaza.
 
 Il FOGLIO - "Hamas al tavolo vuoto "

Gerusalemme. Raggiunto a Washington l’accordo fra Stati Uniti e Israele per il controllo delle rotte usate dall’Iran per rifornire Hamas di armi, e raggiunto anche l’accordo con gli egiziani sul controllo dei valichi sud di Gaza, i negoziati indiretti con il gruppo terrorista Hamas non sono più necessari. Oggi il governo di Israele voterà sulla sospensione unilaterale dell’offensiva nella Striscia. Il ministro degli Esteri, Tzipi Livni, aveva anticipato nei giorni scorsi che “ascoltare Hamas non ha senso, non prendiamo decisioni con loro.”. Unilateralismo oggi, unilateralismo nel 2005, quando Ariel Sharon decise di ritirarsi da Gaza. Ieri il ministro Livni ha firmato con il segretario di stato americano, Condoleezza Rice, un accordo sul controllo del traffico di armi verso la Striscia, che prevede una sorveglianza internazionale molto estesa, anche con pattuglie navali nel Golfo Persico, davanti al Sudan e agli stati confinanti (il traffico di armi dall’Iran fa un giro a sud e risale dalla costa orientale dell’Africa). L’idea, dice il portavoce della Casa Bianca Sean McCormack, “è rendere impossibili i rifornimenti per Hamas via terra, mare o aria”. Rice ha aprlato anche con Francia, Germania e Gran Bretagna. Anche con l’Egitto ci sono grandi progressi, riferiti dal capo negoziatore Amos Gilad, appena tornato dal Cairo dopo avere ascoltato le nuove proposte di Mubarak e del generale dei servizi Omar Suleiman: promettono operazioni contro i tunnel, sorveglianza tecnologica e l’intervento di operatori ed esperti internazionali per identificare i tunnel di contrabbando che passano sotto il confine. Washington esclude “lo stazionamento di nostro personale a Rafah e in Egitto”. La decisione unilaterale di oggi potrebbe svuotare di significato le richieste di Hamas, che ieri prima si era detto pronto ad accettare il cessate il fuoco “se Israele si ritira entro cinque giorni” e poi aveva invece proclamato di voler continuare la lotta.

Il FOGLIO - Daniele Raineri " Chi aiuta Gaza "

Roma. Le accuse contro Israele per le vittime fra i civili – arrivate a 1.100 secondo l’Onu – crescono di intensità. Come scrive l’inviato di Haaretz, Ari Shavit, il rischio “è che a Gaza Israele stia spremendo Hamas ma al contempo distruggendo la propria anima”. In realtà, Israele compie uno sforzo umanitario parallelo a quello militare. Il ministero della Difesa coordina con le organizzazioni internazionali l’arrivo e la distribuzione degli aiuti a Gaza. Le Idf hanno 120 ufficiali dentro la Striscia con il ruolo di “commissari umanitari” nei reparti di soldati. Gli ufficiali parlano arabo, fanno parte del Dco, District coordination office – che ha una scuola ufficiali specializzata sulle questioni umanitarie – e trattano con i palestinesi per le richieste di cibo e medicine, l’evacuazione dei feriti e dei malati e gli spostamenti dei civili nelle aree di combattimento. Sono in contatto costante con l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, la Unwra, con la Croce rossa e con i palestinesi.

Tutte le comunicazioni fra le agenzie impegnate sul campo passano per un ufficio smistamento allestito al ministero della Difesa di Gerusalemme due sabati fa. E’ stato questo stretto coordinamento a scatenare le proteste dell’Unrwa dopo “il gravissimo errore”, parole del ministro Ehud Barak, dei tre colpi di artiglieria finiti sul tetto della sede dell’agenzia. Ma come – hanno detto all’Unrwa – ci aggiorniamo di continuo con i militari su situazione, movimenti, emergenze, e quelli ci bombardano? Il ministero degli Esteri ha creato una task force per preparare il dopoguerra. L’obbiettivo è evitare il ripetersi di quanto accadde nel sud del Libano dopo il conflitto del 2006: grazie a 300 milioni di dollari arrivati dall’Iran, Hezbollah si impadronì del programma di ricostruzione, assicurandosi sostegno politico e gratitudine della popolazione. Questa volta Israele vuole consegnare la ricostruzione di Gaza all’Anp, agli stati arabi e a enti internazionali: non a Hamas e al denaro iraniano.
Martedì il premier Ehud Olmert ha messo il ministro per gli Affari sociali Isaac Herzog a coordinare agenzie umanitarie israeliane e palestinesi. E’ lui che, dopo il segretario dell’Onu Ban Ki-moon, sta ricevendo la Croce rossa e gli altri operatori per esaudire le richieste.

Chi non crede al lato compassionevole del gabinetto di guerra, concede però che l’obiettivo strategico – il calcolo freddo – di questa guerra è separare la popolazione civile di Gaza dai padroni di Hamas, e non la violenza casuale. Fonti interne al governo dicono: “Il premier riassume così: pugno di ferro con Hamas, moffola da bambini con Gaza”. E’ uno schema rodato delle guerre antiterrorismo. Passa per i volantini di avvertimento sulle zone che stanno per essere colpite, per la sospensione quotidiana e unilaterale delle operazioni per consentire l’ingresso ai convogli di camion con cibo e medicinali, per il ricovero dei feriti negli ospedali israeliani, e per l’allestimento annunciato di ospedali da campo ai confini della Striscia.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi " Sotto il fuoco dei mitra israeliani nella terra di nessuno della Striscia ".

Qualche considerazione prima di pubblicare il pezzo di Cremonesi. L'inviato del Corriere gira in macchina nel territorio che confina con Israele. Da quando ai giornalisti è stato vietato l'ingresso a Gaza, abbiamo letto sui giornali molti articoli contrari a questa decisione del governo israeliano. L'irresponsabilità di Cremonesi, che ha creduto suo dovere di giornalista entrare in una zona di guerra, rischiando quindi quello di ognuno è in grado di capire, è la dimostrazione che stava alla base del divieto. Quello di Cremonesi è di fatto soltanto la ricerca di uno scoop perchè il pericolo a cui andava incontro gli era ben chiaro. Non se la prenda con i soldati israeliani che in zona di guerra fanno soltanto il loro dovere. Ecco il pezzo:

NETZARIM (Gaza) — C'è, nel mezzo della striscia di Gaza, un'area larga meno di un chilometro che da un paio di settimane è stata per lo più chiusa dagli israeliani al passaggio dei palestinesi. Corre dal confine con Israele sino al mare per circa 10 chilometri e combacia con i resti della vecchia colonia ebraica di Netzarim, evacuata da Israele assieme a tutti gli altri insediamenti della regione il 10 settembre 2005. Divide Gaza in due. Non ha leggi precise. Talvolta si passa senza problemi e in un altro momento ti sparano contro.
Ieri abbiamo cercato di passare attraverso questa regione. Senza riuscirci. Partiamo verso le quindici, con l'autista e il traduttore palestinesi, da Khan Yunis direzione Gaza city centro. Sono una ventina di chilometri. Sappiamo che i giornalisti qui non sono graditi da Gerusalemme. Ma prima della partenza chiamiamo Daniel Seaman, il direttore dell'Ufficio Stampa, il quale indirizza ad Avital, addetta ai media dell'esercito. E la risposta è abbastanza chiara: «Noi non possiamo garantire la vostra incolumità al cento per cento. E' regione di guerra. Ma abbiamo avvisato i comandi, che hanno avvertito le unità sul posto. Diteci il percorso, tipo di mezzo e orari». E così avviene. La nostra Mercedes scassata è color amaranto, ci dicono che non servono le insegne della stampa. Il percorso che segnaliamo è quello che segue Salahaddin, la provinciale che passa per l'incrocio di Netzarim sul lato orientale. Pochi minuti percorsi lentamente, dopo i campi profughi di Dir El Balah e Al Bureij.
La strada è vuota, attorno la case sono devastate dalle bombe, ogni tanto passa sulla nostra testa un proiettile di tank che finisce verso Gaza. Brucia un bidone dell'acqua in plastica situato sul tetto di un palazzo ridotto a gruviera. In questa zona, sapremo dopo, è appena stata sterminata una famiglia: mamma e 5 bambini dai 7 ai 12 anni.
Improvvisamente davanti alla Mercedes una barricata di terra e sassi sbarra la via. Le prime case di Gaza sono forse a 200 metri. Sulla destra, appostati su un terrapieno distante un'ottantina di metri, si vedono gli elmetti dei soldati israeliani coperti di foglie mimetiche. Sono i primi che incontriamo da quattro giorni a Gaza. Usciamo dall'auto e in ebraico e inglese urliamo: «Itonaiim, itonaiim italkim, press, stampa italiana». E' un attimo.
Loro rispondono a mitragliate alzo zero. Colpi secchi, mirati per uccidere, colpiscono le portiere, i finestrini laterali, che vanno in frantumi assieme al lunotto posteriore. Tre proiettili entrano dal tetto e si conficcano nei sedili, altri passano il baule. Altri ci sfiorano alla testa e al torace per pochi centimetri. Tra le dieci e le quindici pallottole colpiscono la Mercedes. Noi ci buttiamo a terra. Urliamo. E urliamo ancora terrorizzati, sorpresi, sbalorditi. Autista e traduttore, entrambi sui 25 anni, si sentono traditi e gridano: «L'avevamo detto noi che degli israeliani non ci si può fidare». Le mitragliate continuano, si mischiano al rombo delle cannonate sull'intera zona. I tank sparano dalla regione di confine con Israele verso le zone abitate lungo la fascia costiera. Un paio di abitazioni prendono fuoco.
Ogni tanto urliamo da dietro una duna di terriccio verso la postazione israeliana, loro rispondono a mitragliate che si infrangono un paio di metri da noi. La Mercedes resta immobi-le, vuota in mezzo alla strada, il motore ancora acceso.
Poi avviene qualche cosa di strano. Per telefono Avital dice che possiamo andarcene, salire in auto e tornare a Khan Yunis. «L'unità è stata avvisata, non vi spareranno», assicura. Con mossa rapida si fa manovra per tornare indietro. Ma sono trascorsi forse cinque secondi e i colpi riprendono più fitti di prima. L'auto è colpita ancora al tetto, sul cofano. Ci ributtiamo a terra. Ancora chiamiamo Avital. «Non so. Non capisco, occorre che l'ordine arrivi dai comandi superiori alla pattuglia avanzata», dice preoccupata. L'incubo delle burocrazie militari. Ma anche, per una volta, capire le paure palestinesi. Il trovarsi di fronte a fucili che sparano e sparano, anche se pensi di non essere un obbiettivo, che a te non possono fare male perché sei ovviamente un civile. Alla fine, sono le cinque del pomeriggio, comincia a imbrunire, Avital sempre per telefono ci dice di sventolare le nostre giacche. «Loro vi segnaleranno che potete andare ». E così avviene. Via, via di corsa verso Khan Yunis. Avital chiama per sincerarsi che ce l'abbiamo fatta. Nel campo profughi palestinese siamo accolti in trionfo. «Sahafi shahid» (giornalista martire), dicono ridendo. Per una volta anche un occidentale ha provato quello che provano loro, sulla sua pelle.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini " Yehoshua contro Gideon Levy : colpiamo Hamas, non i bimbi ".

Una considerazione prima dell'articolo di Frattini. L'onestà intellettuale di A. B. Yehoshua contro la disonestà di Gideon Levy. Lo scriviamo visto che Yehoshua viene spesso citato a sproposito sui nostri giornali. In queste righe c'è il suo pensiero vero. Ecco il pezzo:

GERUSALEMME — La parola «Stop» in rosso. Attorno il nero degli annunci funebri. Bambino di un giorno, bambina di quattro anni, ragazzino di dieci, ragazzina di otto. L'associazione per i Diritti civili in Israele ha comprato una pagina del quotidiano Haaretz e ha pubblicato i necrologi per i bimbi uccisi a Gaza. «La gente non può dimenticare che in questa guerra molte vittime sono innocenti », spiega la portavoce.
L'organizzazione ha scelto di provocare le reazioni che ogni giorno suscitano sullo stesso giornale i commenti di Gideon Levy. Che ieri ha ricevuto una lettera aperta da Abraham Yehoshua. Lo scrittore è intervenuto per criticare gli editoriali del giornalista — una delle voci più forti del dissenso contro i conflitto — e per ribadire di considerare l'azione militare giustificata. «Caro Gideon, ricorderai che in questi anni ti ho chiamato per elogiare i tuoi articoli. Ti ho detto che è difficile leggere quello che scrivi, perché pesa sulla nostra coscienza, ma che il lavoro che porti avanti è molto importante».
Yehoshua lo invita — «da questa posizione di stima e rispetto» — a rivedere la sua interpretazione della guerra, «così potrai mantenere la legittimità morale». «Visto che sei sinceramente turbato dalle morti dei nostri bambini e dei loro, capirai che questa operazione non è stata lanciata per cacciare Hamas, ma per far capire ai suoi sostenitori che devono fermare i lanci di razzi, devono smettere di accumulare i missili per una sfida senza speranza che mira alla distruzione di Israele. È nell'interesse dei loro bambini in futuro, perché non muoiano in un'altra avventura senza senso ».
Yehoshua — aveva sostenuto anche la guerra in Libano dell'estate 2006 — ricorda a Levy che «negli oltre tre anni dal ritiro, Hamas ha sparato solo contro i civili». «Anche in queste settimane, con mio stupore, sono più impegnati a colpire le città che le truppe stazionate sul confine. Non stiamo ammazzando i loro bambini per vendicare i nostri. Stiamo cercando di fermare questa malvagia aggressione. È solo per la tragica e deliberata tattica dei miliziani di mischiarsi tra la popolazione che anche i bambini, purtroppo, vengono uccisi».
In passato, Gideon Levy è stato attaccato dal ministero degli Esteri («danneggia l'immagine di Israele») e ha ricevuto minacce di morte. Anticipa la risposta a Yehoshua, che verrà pubblicata domani da Haaretz. «Gli scrivo che ho più rispetto per i suoi romanzi che per le sue posizioni politiche. Chi giustifica la guerra, giustifica anche le atrocità. Gli faccio notare che nella sua lettera c'è un passaggio agghiacciante: uccideremmo oggi i loro bambini per salvarli in futuro. Yehoshua si preoccupa che io mantenga la mia statura morale, a me preoccupa di più quella di Israele».
La sinistra pacifista — continua il giornalista — non riesce più a farsi sentire, «da quando nel 2000 Ehud Barak ha venduto agli israeliani la menzogna che non esistesse un partner palestinese per negoziare gli accordi di pace ». Accusa Yehoshua — e con lui gli amici- scrittori Amos Oz e David Grossman — «di appoggiare le azioni militari per poi pentirsene troppo tardi. La sinistra dovrebbe vedere la foto che si va delineando prima degli altri. In questo Paese, quando scoppia un conflitto, se ti opponi sei un traditore. Per sostenere una guerra ci basta Benyamin Netanyahu, non abbiamo bisogno del trio Yehoshua- Oz-Grossman».

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini " Gerusalemme pronta a fermare l'offensiva "

GERUSALEMME — E il terzo sabato Israele si riposò? «Non sarà né semplice, né breve», aveva detto tre settimane fa il ministro della Difesa, Ehud Barak, e tutti ad angosciarsi su quei due aggettivi. Del primo, s'è tragicamente capito. Ora, è più chiaro anche il secondo: questa sera, tre sabati dopo l'inizio di Piombo Fuso, il governo dovrebbe votare lo stop unilaterale all'offensiva. Non significa il ritiro immediato, perché Hamas lo esige ma Israele non si fida. Non significa necessariamente un cessate il fuoco duraturo, perché se smette di sparare una parte non è detto che smetta anche l'altra. Non significa una tregua permanente, come richiesto dalla risoluzione 1860 dell'Onu, perché sul piano egiziano non c'è vero accordo. Non significa nemmeno che stia per scoppiare la pace, anche se la ministra degli Esteri, Tzipi Livni, firma con gli Usa un'intesa sul controllo delle frontiere e domani al Cairo faranno lo stesso il premier Ehud Olmert e il presidente palestinese, Abu Mazen: tessere d'un mosaico diplomatico ancora complicatissimo. Lo stop è uno stop, però: e di domenica, finalmente, Gaza potrebbe tornare a respirare.
È «la fase finale» dell'offensiva, dice Olmert. «Non abbiamo messo firme vere e proprie », spiega il generale Amos Gilad, il negoziatore israeliano: «Però è chiaro che qualche progresso s'è visto». Il viaggio della Livni a Washington è un calumet fumato col segretario di Stato americano Condoleezza Rice, dopo la maretta diplomatica sul voto all'Onu, ma anche il via a quel team di controllo sui tunnel che gl'israeliani considerano irrinunciabile, assieme alle forze dell'Autorità palestinese di Abu Mazen da schierare sulla linea di Rafah. L'ottimismo è diffuso: «Entro qualche giorno« (Ban Ki-Moon, segretario Onu) o «molto, molto presto» (Rice), la risoluzione 1860 sarà realizzabile. Anche se, in tanto sollievo, manca un elemento non secondario: l'okay di Hamas. Khaled Meshaal fa sempre la voce grossa — «non accettiamo le condizioni israeliane » —, ma tutto è rinviato al vertice arabo in Kuwait, lunedì, e all'ennesimo round del Cairo (oggi) per capire se il movimento islamico può cedere su qualcosa: la richiesta del ritiro immediato delle truppe (che il piano vuole in un secondo momento), il termine d'un anno per la tregua (gl'israeliani non vogliono limiti: «Ogni volta, la scadenza è servita a Hamas per riarmarsi e riprendere gli attacchi») o l'apertura di tutti i valichi, che Israele subordina alla liberazione di Gilad Shalit, il caporale israeliano ostaggio da 937 giorni.
Chiudere, conviene a tutti. Secondo Medici senza frontiere, solo a Grozny (1999) si sono ammazzati tanti civili in tempi così rapidi. E se ieri ci sono stati meno raid e meno razzi, e se n'è approfittato per scavare fra le macerie della Striscia e tirare fuori ventitré corpi, si continua a sparare su chi non c'entra: tredici Qassam sono piovuti sulle città israeliane, quattro feriti; almeno quattro famiglie palestinesi sarebbero state massacrate in diversi episodi al campo profughi di Jabaliya (due bambini), a Burej (cinque bambini), a Shouaja e a Beit Lahya. Scioccante quest'ultima strage, seguita in diretta da milioni d'israeliani sul Canale 10. Un ginecologo palestinese stava parlando al telefono coi giornalisti in studio, quando s'è sentita un'esplosione.
Minuti di lamenti, confusione, poi l'urlo: tre figlie e due nipoti del medico erano stati uccisi. «Dio mio!». La tv ha seguito tutto: il ricovero d'urgenza negli ospedali israeliani, la versione dell'esercito («abbiamo risposto a spari da quella casa»), il padre che nega. La sera, un pianto disperato e una domanda: «Israele, perché hai ucciso le mie figlie? ».

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