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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
16.01.2009 La Chiesa, l'ebraismo, Israele e la guerra
le ingiuste accuse del Vaticano sulle operazioni militari a Gaza, gli editoriali di Andrea Riccardi e Giorgio Israel

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio
Autore: Gian Guido Vecchi - Giacomo Galeazzi - Giorgio Israel
Titolo: «Il Vaticano: «Basta usare i civili per scopi militari e politici» - Vescovi all’Onu Israele viola i diritti umani - La Chiesa e la guerra - Il cattolicesimo ambrosiano e l'ebraismo di sinistra marciano divisi per meglio colpire il ratzingerismo»

Non è vero che Israele che Israele non faccia sforzi per non colpire i civili a Gaza, né che neghi l'accesso degli aiuti umanitari, de quali anzi continua ad assicurare il flusso.

E' dunque basato sul falsità l'intervento dell'arcivescoco Celestino Migliore all'Onu, che di fatto equipara in un'identica condanna Israele e Hamas. L'aggredito e l'aggressore. Chi protegge i propri civili e chi li usa come scudi umani.

Da pagina 8 del CORRIERE della SERA , l'articolo di Gian Guido Vecchi,  Il Vaticano: «Basta usare i civili per scopi militari e politici»:

CITTÀ DEL VATICANO — Attacchi indiscriminati, madri e bimbi usati come scudi umani, l'accesso negato agli aiuti umanitari. «Continuiamo a vedere civili utilizzati deliberatamente come strumenti per ottenere risultati politici o militari». L'arcivescovo Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede all'Onu, interviene al Consiglio di Sicurezza e non la manda dire: «Negli ultimi giorni abbiamo visto un fallimento totale nel distinguere i civili dagli obiettivi militari». L'arcivescovo parla di Gaza ma non solo. E l'intervento diffuso ieri da Radio Vaticana è durissimo: «Quando le armi sono utilizzate senza adottare misure ragionevoli per evitare di colpire i civili, quando donne e bambini sono usati come scudi umani, quando è negato l'accesso degli aiuti umanitari a Gaza, vengono distrutti i villaggi nel Darfur e la violenza sessuale devasta la vita di donne e bambini nel Congo, risulta tristemente chiaro che le ragioni politiche e militari passano sopra al rispetto basilare della dignità e dei diritti delle persone e delle comunità ».
I leader, insomma, devono esercitare il diritto «alla legittima difesa» o «all'autodeterminazione » ricorrendo «solo a mezzi legittimi». Migliore invoca «tre pilastri», ovvero «accesso degli aiuti umanitari, protezione speciale di donne e bambini e disarmo ». Oltretevere, tra l'altro, c'è preoccupazione anche per la visita in Israele di Benedetto XVI. «Si fa il possibile, il Papa vuole andarci e i preparativi per un viaggio a maggio sono in atto da tempo. Però c'è il timore che il contesto non lo permetta», spiegano fonti vaticane.
Il clima è quello che è. E la reazione di Mordechai Lewy, ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, non mostra certo entusiasmo per l'intervento dell'arcivescovo: «Quello che conta sono le parole del Papa, che apprezziamo e rispettiamo», mentre quelle di Migliore «non avranno alcuna ripercussione» nelle relazioni tra Israele e Vaticano. Più tardi, a Terrasanta. net, l'ambasciatore constata una «determinante linea di cambiamento » nell'atteggiamento della Chiesa verso Israele ma dice che i cristiani non dovrebbero «contrapporsi agli israeliani» per ingraziarsi l'Islam, una «scelta fallimentare» perché «i musulmani nutrono un risentimento profondo verso i cristiani e non si lasciano impressionare dalle loro dichiarazioni anti-israeliane ».
Resta il fatto che l'Osservatore
Romano, sotto il titolo di prima pagina («Hamas disponibile a trattare»), ieri pomeriggio ha riassunto così l'intervento di Migliore: «La Santa Sede all'Onu denuncia violazioni dei diritti umani da entrambe le parti». Probabile, come avviene in questi casi, che il quotidiano pubblichi oggi il discorso integrale. Parole che riflettono ciò che Benedetto XVI ha detto l'8 gennaio ai diplomatici: parlando delle «immense sofferenze» delle «popolazioni civili», ha invocato una «tregua» a Gaza, e auspicato che nelle prossime «scadenze elettorali » possano «emergere dirigenti capaci» di puntare alla pace. Perché «l'opzione militare non è una soluzione» e «la violenza» va «condannata fermamente»: «da qualunque parte provenga» e «qualsiasi forma assuma». Come spiega Giovanni Maria Vian, direttore dell'Osservatore, «il Papa è convinto che la maggioranza sia degli israeliani sia dei palestinesi sia stanca di sangue, e si augura che i leader eletti siano capaci di realizzare questo desiderio ». Di certo, se andrà, Benedetto XVI «parlerà di pace». Può dar fastidio? Vian sospira: «Una visita di pace dà fastidio a chi vuole la guerra».

Da pagina 9 della STAMPA l'articolo di Giacomo Galeazzi "Vescovi all’Onu Israele viola i diritti umani":


A Gaza, per ragioni politiche e militari, vengono violati i più elementari diritti e la dignità dei civili, soprattutto donne e bambini». Il Vaticano denuncia Israele al Consiglio di sicurezza dell’Onu e avverte: «Non si neghi l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia». In un duro intervento alle Nazioni Unite rilanciato da Radio Vaticana, l’arcivescovo Celestino Migliore ha protestato per l’«escalation» in Terra Santa. «Negando l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza viene meno il basilare rispetto dei diritti e della dignità delle persone e delle comunità», accusa l’ambasciatore della Santa Sede al Palazzo di Vetro. Il «conflitto armato» a Gaza, stigmatizza il Vaticano, nega la Convenzione di Ginevra, quindi «la comunità internazionale deve impegnarsi concretamente a proteggere i civili» perché la «situazione sta diventando sempre più critica». Per garantire la sicurezza della popolazione civile, la Santa Sede chiede l’«accesso degli aiuti umanitari», la «protezione speciale di donne e bambini», il «disarmo». Al contrario, «in questi ultimi giorni abbiamo visto un fallimento totale nel distinguere i civili dagli obiettivi militari», evidenzia Migliore. Per la Santa Sede, «risulta tristemente chiaro che le armi sono utilizzate senza adottare misure ragionevoli per evitare di colpire i civili, che donne e bambini sono usati come scudi umani e che è negato l’accesso degli aiuti umanitari a Gaza».
Mentre il governo israeliano annuncia «l’intensificazione dei contatti per il viaggio del Papa a maggio» (ma, «contro il genocidio dei palestinesi», il «Centro per i diritti umani» della Giordania si appella al Vaticano per cancellare la visita), il Patriarca di Gerusalemme, Fouad Twal lamenta che «la diplomazia si muove solo dopo tre settimane di terrore, distruzioni e morti, in gran parte bambini e donne che non hanno niente a che fare con Hamas». La massima autorità cattolica in Terra Santa definisce «tardivo e inconsistente» lo sforzo per risolvere il conflitto: «Sentiamo parole e promesse senza alcun seguito». Pieno sostegno anche da parte dei Francescani alla denuncia vaticana all’Onu secondo cui «a Gaza è stato negato l’accesso agli aiuti umanitari, le persone sono usate come scudi per i combattimenti, è fallito il rispetto della distinzione tra obiettivi militari e civili con il disprezzo per dignità e diritti di civili e comunità, quindi ci sono andati di mezzo soprattutto donne e bambini». Nel pieno dell’offensiva dell’artiglieria israeliana, padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, sottoscrive il «J’accuse» dell’arcivescovo Migliore e del patriarca Twal contro «una guerra che non si svolge fronte contro fronte, ma nelle case e dove vive la gente». E rincara la dose: «Assistiamo continuamente all’uccisione di civili, di persone che non c’entrano niente», quindi «la Santa Sede non può che condannare questo continuo stillicidio e la denuncia vaticana all’Onu fotografa la realtà». Da parte sua l’Osservatore Romano, avverte che «sono quasi finite le scorte di medicinali, cibo, coperte e la possibilità di portare aiuti umanitari è molto complessa». A Gaza «manca il pane perché i forni non funzionano, di notte fa freddo, il sistema fognario è gravemente danneggiato, le immondizie si accumulano, l’aria è irrespirabile per la polvere e i bombardamenti. I servizi sanitari sono al collasso». La Chiesa, riferisce l’Osservatore, si mobilita per «raccogliere un milione e mezzo di euro da destinare agli aiuti per superare questi mesi di emergenza». Oltre ad aiuti alimentari per quattromila famiglie, «si prevedono interventi sanitari con cliniche mobili e ambulanze a sostegno di quattro ospedali a Gaza, prodotti per l’igiene e aiuti economici per duemila famiglie, coperte per mille famiglie e assistenza sanitaria d’urgenza a 1600 persone». E i volontari della Caritas «lavorano senza riposo per dare sostegno a 25 mila persone, alloggiate in locali di fortuna nel quartiere di Shati Camp, nella periferia di Gaza». Il giornale vaticano fa propria la posizione di Ban Ki-moon. «Per la Chiesa essere filo-palestinese e anti-israeliana non paga», afferma l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Mordechay Lewy.

A pagina 1 e pagina 29 de La STAMPA Andrea Riccardi interpreta la posizione della Chiesa sulla guerra come una necessità di imparzialità dettata dalla sua natura sovranazionale.
Il riferimento al Risorgimento italiano segnala esemplarmente l'incompletezza di questa spiegazione. Riccardi afferma che la Chiesa di Pio IX si schierò contro le aspirazioni nazionali italiani perché c'erano cattolici anche in Austria. dimentica del tutto, però, la contesa sul potere temporale.
Analogamente, la posizione filo-araba e antisraeliana che storicamente ha caratterizzato la diplomazia vaticana si spiega anche con l'influsso durevole, e sis pera sempre meno forte, di un pregiudizio teologico contrario alla rinascita dello Stato ebraico.

Ecco il testo: La Chiesa e la guerra:

La Chiesa e la guerra è il tema antico che ha fatto più discutere nel Novecento e continuerà a farlo.
Sto soprattutto parlando della Chiesa cattolica: un’internazionale di credenti in tanti Paesi diversi. Essa ha un centro, la Santa Sede, fuori da uno Stato, anzi collocata in un suo Stato, voluto per sottrarsi alla sovranità altrui. La Chiesa contemporanea ha guardato con preoccupazione la guerra, cercando di evitarla con ogni mezzo. Le parole di Pio XII del 1939 (scritte da Montini, il futuro Paolo VI) esprimono questo sentire: «Nulla è perduto con la pace, tutto è perduto con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Ritornino gli uomini a trattare». Recentemente si ritrovano gli stessi accenti in Benedetto XVI: «La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi...».
Si può parlare di pacifismo? La Santa Sede ha usato il termine modesto di «imparzialità» durante le due guerre mondiali. Il che le ha valso accuse di parzialità, addirittura di silenzio (la questione di Pio XII, ultimamente riaccesasi). Già da un secolo prima, la Chiesa di Roma aveva cercato di sottrarsi dalle contese bellicose degli Stati. Rifiutò di aderire al blocco continentale voluto da Napoleone, padrone d’Europa. Un ecclesiastico spiegò in un tempestoso colloquio con l’imperatore: «Il santo padre, essendo padre comune dei fedeli, non può trascurare gli uni per essere unito con gli altri». Aggiunse: il suo è un «ministero di pace». Stesso problema nel cuore del Risorgimento, quando Pio IX rifiutò l’appoggio alla causa italiana per non schierarsi contro l’Austria.
Sono storie remote. Ma, nella diplomazia della Chiesa, la memoria e i precedenti contano e tra pontificati, pur cambiando uomini e scenari, c’è continuità. Tra Ottocento e Novecento, con le mediazioni di Leone XIII, si sviluppò la vocazione vaticana ad avvicinare i belligeranti. Giovanni Paolo II fu protagonista d’una mediazione che evitò il conflitto tra Cile e Argentina. Le due guerre mondiali, soprattutto, sono state un terreno invivibile per un’internazionale come la Chiesa di Roma, i cui fedeli si sono schierati su opposti fronti. Parlare di pace e cercarla, come fa la Chiesa, non è facile. Benedetto XV, dopo la Nota alle potenze nel 1917, fu accusato di disfattismo. Pio XII, che non sperava in una vittoria tedesca (anzi piegò l’antisovietismo dei cattolici americani), fu critico verso la volontà angloamericana di non accorciare i tempi di guerra negoziando con i nemici. L’imparzialità è difficile, quando la guerra all’ultimo sangue travolge tutto e suscita passioni: richiede riservatezza, si paga con l’isolamento e l’impopolarità, si manifesta nell’impegno di carità per le vittime di ogni parte.
Gli anni della Guerra fredda sono stati duri per la Chiesa perseguitata dai regimi comunisti mentre il cattolicesimo era necessariamente schierato con l’Occidente. Uno schieramento particolare, perché mancano rapporti diplomatici con gli Stati Uniti e la Santa Sede si manifesta appiattita sulle ragioni occidentali e sulla Nato. Con il disgelo, con Giovanni XXIII e Paolo VI, la Santa Sede mostra interesse ai Paesi decolonizzati e non allineati. C’è una politica orientale vaticana senza entusiasmo: «ars non moriendi», la definì il segretario di Stato di Paolo VI. Fino ad allora il Vaticano non aveva rapporti diplomatici con parecchi Paesi: con Israele, gli Stati Uniti, il Sud Africa, il Messico, quelli comunisti.
Il rapporto con Israele - come recentemente ha sottolineato Ernesto Galli della Loggia - ha una valenza particolare, tanto che questo studioso ne fa lo specchio del limite della politica di «pace» del Vaticano. In realtà è un caso speciale, per le implicazioni legate ai Luoghi Santi, alla minoranza cristiana, al complesso rapporto Chiesa-ebraismo (che ha avuto una svolta solo con il Concilio). Del resto lo strumento delle relazioni diplomatiche non era così decisivo per la Chiesa fino a Giovanni Paolo II, che aprì rapporti ufficiali con Israele nel 1993, dopo quindici anni di pontificato. Wojtyla, primo papa a visitare una sinagoga, aveva una sensibilità particolare per gli ebrei e Israele. Resistette però alle pressioni americane per stabilire rapporti ufficiali con Israele. Poi si convinse delle relazioni con l’avvio del processo di pace. Il viaggio di Wojtyla in Terra Santa nel 2000 mostrò come, in una situazione difficile, la Santa Sede riuscisse, con successo, a proporre il suo discorso di pace a israeliani e palestinesi, senza ignorare il dramma della Shoah e la sicurezza di Israele.
Non è da sottovalutare la preoccupazione vaticana per le minoranze cristiane nel mondo arabo, condivisa dalla Francia. Il Libano e queste minoranze sono state da sempre sentite come una realtà capace di fare la differenza per un Medio Oriente non tutto musulmano. La fragilità della minoranza cristiana si è vista nella guerra all’Iraq: il crollo della dittatura baathista di Saddam (inammissibile, ma considerata triste garanzia per i cristiani dall’allora patriarca Bidawid) ha lasciato campo all’aggressività islamica. Un elemento non considerato, quando si decise la guerra. I cristiani siriani temono qualcosa di analogo. I cristiani iracheni sono ridotti a quasi la metà di prima della guerra. Lì è avvenuto il crollo più vistoso e rapido della presenza cristiana in Medio Oriente da più di cinquant’anni.
Al di là del Medio Oriente, c’è da chiedersi se, nel XXI secolo, la posizione della Santa Sede non sia illusoria, frutto di purismo astratto. Il Vaticano non pretende di essere un tribunale internazionale che condanni di volta in volta le violazioni, le politiche aggressive o altro. Anche se talvolta i papi ne parlano, non è la missione prioritaria. Ma ammonire sui rischi della guerra è un compito a cui la Santa Sede non rinuncia. Sembra che la sua esperienza storica la confermi nella convinzione che guerre e rivoluzioni lasciano il mondo peggiore di come lo hanno trovato. Inoltrarsi nel terreno della guerra rappresenta un’«avventura senza ritorno», per usare le parole di Giovanni Paolo II. È una coscienza che la Chiesa di Roma ha maturato da più di due secoli. Meglio è per lei consigliare il dialogo, l’applicazione del diritto internazionale, il negoziato. La Chiesa non si sente pacifista, ma pacificatrice (papa Wojtyla non si è confuso con il pacifismo). Sa che torti e ragioni non si dividono mai equamente tra le parti, ma considera la guerra come una soluzione che non risolve e alla fine travolge.
Il cattolicesimo differisce dall’ortodossia, identificata con le battaglie della nazione: si pensi alla benedizione del patriarcato russo alla guerra di Stalin. La differenza si fa più profonda con le altre religioni, come l’islam. La posizione cattolica non ha fatto l’unanimità dei governi, è stata considerata utopista, insensibile alle ragioni della giustizia. Ma è stata quella dei papi del XX secolo. Rappresenta anche una risorsa unica della coscienza occidentale rispetto ad altri mondi. Non è un caso che gli Stati Uniti, dal 1939 a oggi, non sempre in coincidenza di vedute con il Vaticano (dal giudizio positivo di Roosevelt su Stalin alle guerre in Iraq), abbiano però considerato la Santa Sede un interlocutore rilevante anche sul quadrante internazionale. La visione delle relazioni internazionali della Chiesa di Roma è un elemento che rende originale e più complessa la coscienza occidentale di fronte a fatti decisivi come la pace e la guerra. Anche in questo campo, tra Dio e Cesare c’è distinzione.

Sul tema più generale dei rapporti tra Chiesa ed ebraismo interviene a pagina 1 dell'inserto del FOGLIO, Giorgio Israel, intitolato "Il cattolicesimo ambrosiano e l'ebraismo di sinistra marciano divisi per meglio colpire il ratzingerismo"


E’ significativo che il violento attacco con cui il rabbino capo di Venezia Richetti ha accusato Benedetto XVI di aver demolito 50 anni di dialogo ebraico-cristiano sia apparso sul mensile dei gesuiti Popoli. Peraltro, basta attenersi ai fatti, senza ricorrere alla mediocre pratica della dietrologia, per rendersi conto che in questa diatriba vi sono moventi che con il merito hanno poco a che fare.

Si noti che nessuno degli argomenti opposti ai duri attacchi di parte del rabbinato italiano è stato mai preso in considerazione. Anzi, dopo che il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha apprezzato l’affermazione del Papa secondo cui, in senso stretto, il dialogo interreligioso è impossibile – perché, dice Di Segni, è meglio evitare il dialogo teologico – ecco che Richetti la indica, all’opposto, come prova che non si vuol dialogare! Il fatto è che, mentre Di Segni, per quanto cauto e diffidente, segue una linea di razionalità – “Il dialogo è un processo che deve andare avanti malgrado le difficoltà. Papa Benedetto XVI continua a dare un originale e determinante contributo, anche se le sue posizioni non sempre sono condivisibili” –  c’è chi ha deciso che bisogna litigare a tutti i costi col Papa e non fatica a trovare dall’altra parte chi risponde con simmetrico zelo, anche a costo di riattizzare mai spenti sentimenti antigiudaici. Qui siamo in presenza di uno scontro interno al mondo cattolico in cui una parte del mondo ebraico italiano si sta prestando alla funzione del Settimo Cavalleggeri.

Vorrei citare un episodio sintomatico che risale a un anno e mezzo fa. Mi colpirono allora alcuni passaggi del libro “Le tenebre e la luce” del cardinale Martini. Vi si faceva riferimento al processo a Gesù come alla prova del “crollo di un’istituzione (il Sinedrio) che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove” e che invece testimoniava la “decadenza di un’istituzione religiosa”: “si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare”. E si concludeva duramente circa la “necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche” indicando la seguente visione del dialogo: “il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso” – parole espresse nel Discorso della montagna, “assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate”. Chiesi come si potesse accettare una simile visione del dialogo basata su un’idea di conversione: altro che preghiera del Venerdì santo! Oltre alle prevedibili stizzite risposte di qualche seguace del cardinale, l’attacco più virulento mi venne dalle colonne del Bollettino della Comunità ebraica di Milano, dove fui addirittura accusato di “pugnalare alle spalle” vilmente un amico degli ebrei e con esso tutto il dialogo…

Poi sono venute le polemiche sulla preghiera del Venerdì santo che hanno condotto all’attuale sospensione del dialogo, decretata anche nei termini di un divieto alle Comunità di incontrare ecclesiastici. Da tale sospensione dissentimmo Guido Guastalla e io in una lettera al Corriere della Sera (26 novembre 2008) dai toni pacati e senza ombra di polemica. Ne ricevemmo in cambio una violenta risposta firmata dal rabbino Laras (Presidente dei Rabbini italiani), dal Presidente dell’Unione Giovani Ebrei e (fatto significativo) non dal Presidente ma da un ex-Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche, nella persona di Amos Luzzatto. In questa lettera – in cui si intimava a non occuparsi del dialogo, in quanto di esclusiva competenza dei rabbini (soli “interlocutori” e “ufficiali responsabili della rappresentanza religiosa”) – la “capitale” del dialogo ebraico-cristiano veniva indicata in Milano e nelle persone dei cardinali Martini e Tettamanzi da un lato e da Laras e altri; e si osservava che in tale elenco noi mancavamo… Guarda caso, si tornava sempre lì, a Milano, attorno al cattolicesimo ambrosiano e a un certo ebraismo di sinistra.

Si affermava inoltre che “i rapporti tra ebraismo e islam generalmente sono stati più proficui e sereni rispetto a quelli intercorsi tra ebraismo e cristianesimo” ricevendo subito un’entusiastica risposta da parte di alcuni rappresentanti della Grande Moschea di Roma, che attestavano quanto la lettera fosse stata apprezzata. Naturalmente, in questo idillio la domanda del perché mai quegli stessi rappresentanti non ne vogliano sapere di varcare la soglia della Sinagoga di Roma resta inevasa, anzi non viene neppure fatta. Si tratta di atteggiamenti che appartengono a una categoria arcinota. Sono gli atteggiamenti di chi preferisce andare assieme a coloro con cui ha consonanza politico-ideologica “a prescindere”. E’ la consonanza ideologica tra un certo cattolicesimo di stile ambrosiano – lo stesso che assiste condiscendente alle parate islamiche – e un ebraismo di sinistra indifferente al sentirsi proclamare “tradizione religiosa degradata”: l’importante è colpire assieme il comune nemico, l’odiato ratzingerismo neocon. Inoltre, è sempre meglio dialogare con l’islam che con il Papa, e perfino meglio che con se stessi, come ha bene espresso su queste pagine Alberto Melloni dicendo che ebraismo e cristianesimo sono religioni pesanti, complicate ed esagerate, mentre l’islam è semplice, essenziale e chiede poco (chissà perché non si converte).

A questo punto salta anche agli occhi di un cieco che le questioni di merito c’entrano come il classico cavolo a merenda. Esse sono soltanto un pretesto per saldare uno schieramento politico e rafforzare una battaglia interna al mondo cattolico, ma anche per colpire l’attuale dirigenza dell’Unione delle Comunità Ebraiche e della Comunità di Roma, ritenute “troppo di destra”. Che in una situazione drammatica come questa ci sia chi ha voglia di fare simili manovre, a costo di provocare scontri, divisioni e anche di riattizzare vecchie incomprensioni e risentimenti contro i quali il dialogo dovrebbe essere perseguito con la stessa cura con cui si assume un medicamento, è un segno di come l’ideologia possa condurre alle più gravi manifestazioni di irresponsabilità.

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