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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio - Il Riformista Rassegna Stampa
13.01.2009 D'Alema torna ad attaccare Israele e di fatto a sostenere Hamas
gli editoriali di Paolo Guzzanti e del Foglio, l'intervista di Antonio Polito

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Il Riformista
Autore: Paolo Guzzanti - la redazione - Andrea Marcenaro - Antonio Polito
Titolo: «D'Alema l'ultimo amico di Maometto - Perché D'Alema parla così - Andrea's version -»
Dalla prima pagina de Il GIORNALE del 13 gennaio 2009, riportiamo l'articolo di Paolo Guzzanti "D'Alema l'ultimo amico di Maometto":

Io ho sempre preso molto sul serio Massimo D’Alema, anche perché a memoria d’uomo solo pochi intimi hanno potuto vederlo sorridere o ridere. Questo leader politico incarna, vorremmo dire veste, la serietà quasi antropologicamente: baffi, occhiali, taglio degli abiti, brizzolatura, tutto indica serietà, ancora serietà, e - l’avrete capito - serietà, la quale per definizione suggerisce autorevolezza. E in questa serietà prossima alla cupezza sta l’antica scuola, la genetica mitica del vero Pci del tempo che fu.
E ora con la massima serietà D’Alema dice che Hamas ha ragione, e che Israele ha torto ed è l’aggressore, che Hamas non è un’organizzazione terrorista perché ogni famiglia palestinese ne ha uno di loro in famiglia, che Hamas è stata votata dal popolo e che dunque è un interlocutore politico e militare del conflitto. Ne consegue, come in un teorema, che l’operazione militare israeliana per farla finita una volta e per sempre con il lancio di migliaia di missili, razzi e colpi di mortaio sulle città israeliane (riconosciuta lecita per questo proprio da Obama e dal Congresso americano), non è altro che una «spedizione punitiva», espressione importata dal lessico fascista e dunque parafrasi di un’accusa di fascismo nei confronti di Israele.
D’Alema, da ministro degli Esteri italiano, andò sottobraccio con alcuni esponenti di Hezbollah in Libano (nella foto) e anche allora, serissimo ai confini del funebre, spiegò che Hezbollah fa parte del quadro politico libanese e dunque va considerato come legittimo interlocutore. Ciò ci ricorda la grande tradizione togliattiana dell’attenzione: i veri comunisti della miglior scuola, sono prima di tutto attenti alle forze in campo, e poi alla morale, alle idee, ai principi. Togliatti era fermamente ateo, ma raccomandava la massima attenzione verso cattolici intesi non come forza etica, ma forza in campo, componente della partita che aveva come obiettivo la conquista del governo in Italia. D’Alema non vuole conquistare, almeno che si sappia, il Libano o Gaza, ma ripete egualmente la lezione: tu esisti, tu dimostri di essere una forza dunque io ti riconosco. Dice poi D’Alema che una sproporzione più o meno di 900 palestinesi morti contro dieci israeliani non va chiamata guerra. La serietà implica correttezza lessicale. E infatti quella di Gaza è una operazione militare antiterroristica su vasta scala: se dalla Svizzera piovessero per un anno missili sulla Lombardia, prima o poi un tale inconveniente diventerebbe un problema militare con la simpatica confederazione. Ma per D’Alema questi sono pensieri rozzi adatti agli americani i quali sono i più rozzi di tutti. Noi togliattiani pratichiamo altre logiche.
Quel che a D’Alema sembra sfuggire del tutto è che Hamas cerca a ogni costo di incassare il più alto numero di proprie vittime civili possibile perché intende imporre esattamente la logica che conduce alle conseguenze perfettamente sciorinate da D’Alema il quale sembra non accorgersi che Israele ha tutto l’interesse a uccidere il meno possibile come prova il fatto ch l’Idf telefona in anticipo agli abitanti delle case da colpire perché contengono rampe o mortai, affinché si mettano in salvo.
Ed ecco perché Hamas vuole, al contrario, che tutti muoiano affinché possa subito incassare la provvigione politica delle «sproporzioni» alle quali è sensibile D’Alema, perfettamente adattato alla logica di Hamas. Per limitare le perdite palestinesi Israele allestisce sulla striscia di Gaza ospedali da campo in cui sono curati i feriti e ricovera nei propri ospedali i più gravi.
Diciamo pure che lo fa, oltre che per lo spirito umanitario della religione ebraica che esalta la vita e disprezza il suicidio, anche per un motivo pratico: ridurre al massimo l’aspirazione al martirio di massa di Hamas che persegue dichiaratamente - abbiamo ascoltato comizi di Hamas in questo senso - lo scopo di «produrre morte al livello industriale: noi desideriamo la morte quanto voi israeliani desiderate la vita». E non sono parole insensate o fanatiche o fondamentaliste: sono parole politiche che contano sul fatto che a recepirle ci sia la serietà di D’Alema e di chi me condivide la struttura mentale.
La morte dei bambini è per Hamas la più grande provvista propagandistica. Ho davanti a me le foto dei bambini di Hamas in uniforme a tre anni, con la pistola, il mitra, il volto coperto da vernici, gridare e urlare odio, morte e desiderio di morte. Della propria morte. Ho anche davanti agli occhi i miliziani che marciano facendo il saluto nazista. Sfugge al serissimo D’Alema tutto questo perché a lui importa soltanto sottolineare che una controparte, non importa quanto violenta e sanguinaria, se ha seguito popolare - e Hamas ha addirittura vinto le elezioni battendo il Fatah di cui ha scaraventato in galera o messo al muro i membri - è di per sé legittima, perché democraticamente legittimata.
Forse gli andrebbe ricordato che quando gli alleati fecero strage di cittadini tedeschi ammazzandone a centinaia di migliaia con bombe incendiarie come a Dresda e in altre città, nessuno si intenerì: i tedeschi avevano votato per Hitler, e adesso ne pagavano il fio. I prigionieri tedeschi in mano all’Armata rossa finirono per lo più a fare terra per ceci e nessuno si commosse. Non è questo che vuole Israele, ma la logica della legittimazione democratica ci sembra goffa e insostenibile.
Ci rendiamo conto che è impossibile far capire a D’Alema che lo scopo di Hamas è stato proprio quello di scatenare questa operazione militare israeliana che non poteva essere evitata e che non poteva che comportare una scelta infernale: o concedere ad Hamas il diritto di terrorizzare un’intera nazione costringendola a vivere nei rifugi o passare a un’operazione militare per quanto possibile chirurgica, non terroristica, ritenendo ovvio che il peso morale delle vittime innocenti e specialmente dei bambini deve ricadere su chi ha provocato una reazione di difesa.
Ma a tanta spregiudicatezza logica D’Alema non arriva. In compenso, venendo meno al suo look severissimo, ha voluto regalarci una stupenda barzelletta quando ha detto davanti alle telecamere di Red che i nostri media, giornali e televisioni, sono quasi tutti nutriti dalla propaganda di Israele. Allora abbiamo veramente riso di gusto tutti, tranne lui, che ha fatto finta di credere alla propria battuta restando impassibile da grande professionista, come Buster Keaton.

Da pagina 3 del FOGLIO, l'editoriale "Perché D'Alema parla così":

Parlando di “spedizione punitiva” israeliana contro una organizzazione di popolo, Hamas, che pratica il diritto alla resistenza, Massimo D’Alema ha varcato ieri la sottile linea rossa che divide un giudizio politico controverso da una presa di posizione militante fino alla cecità e al fanatismo. Non essendo un fanatico, perché è intelligente e realista, a quelle cose D’Alema non crede. Se le dice, forzando, è per essere credibile con i suoi. Da anni D’Alema gioca simbolicamente sulla propria identificazione con la figura di un leader che non porta la modernizzazione postideologica fino alla luttuosa conseguenza di rivedere uno dei tratti identitari decisivi della formazione sua e del suo popolo: si sta contro i sionisti e con i palestinesi, qualunque cosa questo voglia significare nelle circostanze date. Lo stato degli ebrei è ricco, tecnologico, bene armato, alleato della maggiore potenza mondiale, la sua sicurezza è ampiamente tutelata, il suo comportamento è quello di una potenza coloniale occupante; e i suoi nemici sono giovani poveri e ardenti patrioti che tirano sassi, ragazze e ragazzi islamizzati che si accendono come bombe infliggendo agli altri il loro martirio, lanciatori di razzi a gittata casuale, e poi madri, donne in nero, civili di ogni sorta, e soprattutto un profluvio di bambini raccolti come poveri stracci dopo le stragi belliche di Tsahal. Siamo molto al di là di una discussione anche critica del comportamento di Israele e della tragedia storica nata con l’occupazione dei Territori e della Striscia di Gaza nel 1967, ché su questo è ovvia la diversità delle ricostruzioni e delle opinioni perfino nel cuore della società israeliana. D’Alema non può sottilizzare, disputare, distinguere, come per esempio ha fatto Barbara Spinelli in un durissimo atto di accusa contro la guerra di Gaza all’inseguimento di Hamas sulla Stampa di domenica scorsa. Il capo rivoluzionario che deve tutelare la sua identità segreta, facendosi turiferario di una continuità ideologica che non vuole rendere palese ma esiste e opera con notevole forza culturale e politica, deve escludere le sfumature e il dialogo, deve provocare, anatemizzare, affermare che i giornali italiani sono bollettini israeliani, usare formule che bollino Israele come un “barbaro e secolare nemico” e trascurare la vera natura di Hamas e dei suoi alti protettori prenucleari. D’Alema fa come il cardinal Martino, che vuole mandare un messaggio subliminale chiaro alla base arabocristiana di Terra Santa, e la sua Strafexpedition (spedizione punitiva) è il perfetto equivalente del Konzentrationslager (campo di concentramento) del porporato.

Sempre dal FOGLIO, in prima pagina l'Andrea's version:

“Una vera spedizione punitiva, quella contro Hamas – ha dichiarato ieri Massimo D’Alema – difficilmente, infatti, si può definire ‘guerra’ un conflitto in cui muoiono 900 persone da una parte e 10 dall’altra”. Può darsi. Ma sarebbe forse il caso di ricordare al rimbambito che copia (male) Sofri, che viene immancabilmente sottotitolato come il più intelligente della sinistra, e magari lo è pure, come andarono quei (sacrosanti) 78 giorni di bombardamenti Nato effettuati da 15mila piedi d’altezza sulla Serbia e dei quali perfino un rimbambito dovrebbe ricordare qualcosa. Vennero centrati appartamenti (5 aprile 1999, per esempio, 17 morti), treni civili (12 aprile 1999, per esempio, 55 morti), contadini kosovari (14 aprile, per esempio, 75 morti), televisioni pubbliche (23 aprile, per esempio, 16 morti), autobus (1 maggio, per esempio, 47 morti), ambasciate (cinese, per esempio, 3 morti), carcerati (21 maggio, carcere di Pristina, per esempio, 100 morti), ospedali (31 maggio, ospedale di Surdulica, per esempio, 20 morti), scudi umani (60 civili kosovari usati come tali dai serbi, si disse per esempio il 31 maggio, e nessuno contestò), scuole (31 maggio, 23 bambini a Novi Pazar, per esempio). Oltre cinquecento civili, si disse. Più indefinite migliaia di militari serbi. A zero. Dicasi: a zero. Un supercappotto. Vera guerra quella, eh? Stronzo.

Il RIFORMISTA pubblica un'intervista a Massimo D'Alema del direttore Antonio Polito, che pone alcune domande molto azzeccate.
D'Alema appare ambiguo, e ipocrita quando per esempio sostiene che, noi italiani ed europei,  su Hamas non possiamo esercitare pressioni perché non siamo suoi alleati, a differenza che con Israele.

D'Alema e Israele. E' una spedizione punitiva

Massimo D'Alema è nella sede di Red tv, cioè della tv della sua associazione politica. Dunque è insieme intervistato ed editore. Diciamo che è a casa sua. E si informa infatti anche delle dotazioni tecniche, microfoni compresi, che se prendono troppi rumori esterni rischiano di registrare anche quelli provenienti dalla casa di Silvio Berlusconi, coinquilino nel palazzo di Via Grazioli.
Partiamo dal sanguinoso conflitto tra Israele e Hamas. Lei ha usato toni molto critici nei confronti del governo italiano e del ministro Frattini.
Quello che sta accadendo è, non soltanto dal punto di vista dei costi umani, molto pesante e grave. Noi parliamo di una guerra, ma in realtà si tratta di una vera e propria spedizione punitiva. L'espressione «guerra contro Hamas» è il titolo che i servizi informativi israeliani danno a quello che sta succedendo. Si tratta di una rioccupazione, sia pure temporanea, con bombardamenti quotidiani, rastrellamenti. Un conflitto in cui muoiono novecento persone da una parte e dieci dall'altra difficilmente può essere definita come una guerra. Aggiungo che essendo Gaza un'area densamente popolata e nella quale la metà della popolazione ha meno di quattordici anni è normale che ormai siano circa trecento i bambini uccisi. Dal punto di vista del fondamentalismo, poi, quello che accade è uno straordinario incoraggiamento a una campagna internazionale di reclutamento e di odio contro l'Occidente e contro Israele. Hamas non è un movimento nazionalista palestinese, ma è parte di un movimento internazionale che ha un'ottica totalmente diversa, nella quale i trecento bambini morti sono uno straordinario incoraggiamento alla guerra santa contro l'Occidente.
Lei sta dicendo che le vittime di Gaza sono innanzitutto vittime di Hamas...
Certo, è chiaro che Hamas ha una responsabilità enorme. Ma il problema non è Hamas, perché noi non siamo alleati di Hamas e quindi non possiamo discuterne la strategia. Il problema è cosa fa l'Europa, cosa fa Israele, cosa fanno gli Usa per evitare una spirale che alla fine fa il gioco del fondamentalismo. Hamas uscirà rafforzata da questa tragedia e usciranno indeboliti quei leader moderati che noi diciamo essere i nostri interlocutori.
Cosa si potrebbe fare e non si è fatto per fermare il conflitto?
Moltissime cose. Lo dico perché noi in Italia abbiamo un dibattito gravemente distorto e molto ideologizzato, sulla base di un'informazione limitata. Io ho letto l'editoriale dell'Economist - spero non sia considerato un organo di informazione estremistico - dove credo che ne sappiano più di certo editorialisti nostrani che scrivono di cose che non sanno con rozzezza propagandistica. Dice l'Economist che Hamas continuerà ad esserci, non verrà eliminata: Hamas è una parte della popolazione palestinese.
Con venticinquemila uomini in armi. Cioè un esercito, non solo un partito.
Un esercito, un partito, ma comunque una parte della popolazione del Paese. Non un gruppetto di terroristi nascosti tra i civili. I militanti di Hamas sono i nipoti, i figli, dei cittadini di Gaza. Non c'è famiglia di Gaza in cui non ci sia un militante di Hamas.
Hamas ha fatto anche la guerra a molte famiglie di Gaza. E ne ha uccisi moltissimi di palestinesi.
Ha fatto la guerra ad Al-Fatah, certo. Ha fatto la guerra a chi si opponeva a quella deriva fondamentalista. E' chiaro che quella è la storia, e la conosco bene. Del resto sono amico e collaboratore del gruppo dirigente di Fatah, di Abu Mazen. È un po' buffo che mi si diano lezioni su questo tema.
Segnalavo soltanto altri punti dell'editoriale dell'Economist.
Sì, capisco. Ma il problema non è favorire Hamas; il problema è come si combatte il fondamentalismo. Con i massacri di bambini? No, con i massacri di bambini non lo si combatte ma lo si rafforza. Questo è il messaggio che deve dare la politica. Intanto io ritengo che ora Hamas ci sia e che la tregua non possa che essere concordata con quella parte. Infatti al Cairo stanno trattando con Hamas, al di là delle ipocrisie. Ma il fatto è che Israele il trattato di pace avrebbe dovuto farlo con il presidente Abu Mazen, che nel corso di un anno non ha ottenuto nulla da Israele. Io temo che alla fine si produrrà una situazione che aumenterà l'insicurezza di Israele. Prima si ferma questa tragedia e meglio è. Ho apprezzato la sensibilità della Chiesa. Ma trovo nell'opinione pubblica italiana un'insensibilità che talvolta sfiora la propaganda di guerra anti-islamica.
Che effetto le hanno fatto le bandiere di Hamas alla manifestazione di Milano e la preghiera collettiva?
Non mi sorprendono, per le ragioni che le ho detto.
Quindi lei crede che si rafforzeranno i radicali anche nell'immigrazione islamica in Europa.
Ma non c'è dubbio. Io immagino l'impatto delle immagini diffuse da Al Jazeera perfino sui media americani, che in parte hanno cambiato atteggiamento. L'impatto è enorme. La visione del massacro di Gaza non può che rafforzare l'integralismo.
Pensa che ci sia un legame tra l'Iran e Hamas?
Sì, certamente c'è, un legame tra Iran e Hamas, anche attraverso la Siria. C'è un fronte islamico radicale che si è venuto costituendo nel corso degli anni e che costituisce una minaccia seria per il mondo moderato. Anche perché gode di un crescente consenso popolare.
Venendo ai fatti di casa nostra: perché criticate il governo su Alitalia?
La vicenda Alitalia è stata un tipico imbroglio. Berlusconi ne ha fatto una bandiera elettorale. Alla fine si va verso l'unica soluzione ragionevole, cioè quella che porterà alla fusione tra Alitalia e Air France. Così come aveva detto il governo Prodi. Ci sono però differenze importanti: quando si farà questa fusione i francesi non la pagheranno, a differenza di quello che sarebbe accaduto con la soluzione proposta dal Governo Prodi, perché il costo dell'operazione è stato scaricato sui cittadini italiani che pagheranno tre miliardi di euro. Questo è un esito a mio giudizio scontato, anche perché gli imprenditori che si occupando di Alitalia fanno giustamente gli imprenditori, appunto, e non stanno lì a seguire le direttive del comitato centrale della Lega Nord. Di conseguenza fanno due più due e sono arrivati esattamente lì dove eravamo arrivati noi dopo un lungo esame. In questo c'è una vendetta della razionalità economica contro la propaganda e si svela quello che è stato fin dall'inizio un grande imbroglio.
Si può fare una riforma della giustizia che comprenda anche il Pd sulla base del programma presentato, abbastanza irritualmente, dal presidente Fini?
Tra tante irritualità che avvengono in Italia la proposta di Fini è stata una di quelle positive. È utile che le persone ragionevoli e di buon senso, in un momento così difficile, cerchino di trovare delle soluzioni per il Paese. Le considerazioni di Fini non sono un programma, ma ha messo alcuni paletti ed io credo che ci sia la possibilità e l'utilità di un confronto sui temi della giustizia. Non ho mai considerato questo un tabù.
Passiamo al Pd. So che lei non ama parlare molto delle vicende interne al Pd, ne parlano però tutti i giornali. Non ha incarichi, ma credo di poterla definire un dirigente di quel partito. Il segretario Veltroni ha chiesto ai suoi critici interni una tregua interna fino alle europee. Lei è d'accordo?
Io sono già da tempo impegnato unilateralmente in questo. Infatti, se sfoglia le cronache dei giornali, non mi troverà già da molto tempo a questa parte nelle cronache di queste vicende amareggianti che avvengono.
Cos'è che l'amareggia?
Questa confusione, questa sensazione di mancanza di responsabilità da parte di diversi. Anche prima, francamente, ero tirato per i capelli attraverso cose che non avevo detto; mi si attribuivano complotti di fantomatici dalemiani, e trovo che sia stato sbagliato. Anziché affrontare i problemi di questo partito, è stata alimentata una campagna, per un certo periodo, come se il Pd fosse stato in una situazione splendida salvo che c'era D'Alema che è cattivo, con le sue iniziative e le sue correnti. Non capendo che le iniziative che noi abbiamo preso (la fondazione, l'associazione Red) erano una risorsa di questo partito, perché in una situazione difficile si sono continuate a raccogliere forze ed idee e di mantenere canali di contatto con la società civile. Tutto questo doveva essere apprezzato e non demonizzato. Invece di demonizzare i miei convegni bisognava preoccuparsi di più di governare un partito che viveva una situazione difficile. Io ho sempre detto che sono disposto a dare una mano. Penso che il Pd rappresenti l'unica grande speranza in prospettiva, e penso che oggi sarebbe giusto chiamare a raccolta tutte le maggiori personalità di questo partito per vedere insieme cosa si può fare per rilanciare questo progetto. Non spetta però a me farlo. Io al massimo posso dichiararmi disponibile.
Lei ha parlato di amalgama mal riuscito. Quali sono i problemi del Pd?
I problemi riguardano molti aspetti. Che cos'è la fondazione di un grande partito nuovo? È un'opera di cultura, perché si tratta di definirne i lineamenti. Perché nasce, quali sono le sue radici, qual è la sua collocazione internazionale. Che cosa dev'essere dal punto di vista delle forme organizzative… Ecco, questi sono i problemi. Si fa il tesseramento, non si fa…, in ritardo…, forse… Questa era l'opera che bisognava fare. Che è stata anche fatta, ma con molti ritardi, molta incertezza. Spero che questo processo fondativo trovi un momento forte di rilancio nella Conferenza programmatica. Io posso dare un contributo, io sono pronto. Non ho ricevuto chiamate, però resto pronto.
Quindi l'appello alla tregua era pleonastico nei suoi confronti. Lei è un pacifista in molti campi…
Io sono un uomo pacifico, non un pacifista, che è un termine carico di ambiguità.

Sul quotidiano arancione stupisce lo spazio dedicato all'appello antisraeliano promosso da Angelo D'Orsi, noto come organizzatore di festival storici antisraeliani ( apagina 3, "L'appellocontro Israele dello storico Angelo D'Orsi")

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