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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
13.01.2009 Odio, ipocrisia, oppure belle parole inapplicabili alla realtà
gli editoriali di Tahar Ben Jelloun e Dacia Maraini, un'intervista ad Ala Al-Aswani

Testata:La Repubblica - La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Tahar Ben Jelloun - Ibrahim Refat - Dacia Maraini
Titolo: «Ma questa volta nessuno dice Siamo tutti abitanti della striscia - Gli intellettuali ebrei devono ribellarsi - Sopra bombe e aerei la voce della ragione»

La REPUBBLICA del 13 gennaio 2009 pubblica a pagina 10 l'editoriale di Tahar Ben Jelloun "Ma questa volta nessuno dice "Siamo tutti abitanti della striscia"

La guerra a Gaza, per Ben Jelloun,  è un  "massacro dei deboli ad opera di uno Stato potente".
I terroristi che hanno preso il potere a Gaza (massacrando rivali di Fatah) sono "palestinesi democraticamente eletti sotto l´insegna di Hamas, movimento islamista".
Quella di Israele non è " legittima difesa, ma assassinio di massa deliberato", ma gli israeliani si sbagliano se sperano di ottenere la "sottomissione della popolazione di Gaza" o  "l´abdicazione della resistenza" .

Alla menzogna che attribuisce a Israele la volontà di colpire deliberatamente la popolazione civile palestinese (che è invece vittima della strategia di Hamas), Ben Jelloun aggiunge, quando cade la sua ipocrisia, una chiara presa di posizione. Il terrorismo per lui è "resistenza". Abu Mazen è solo un "poveruomo" che non rappresenta i palestinesi. Israele deve trattare con Hamas, che ne vuole la distruzione. Hamas, dal canto suo  "dovrebbe rinunciare alla sua posizione radicale del tutto o niente e acconsentire, in pegno di buona volontà, al riconoscimento dello Stato di Israele".
Riconoscere il diritto all'esistenza sarebbe un "pegno di buona volontà" ?

Ecco l'articolo

«Siamo tutti Americani», aveva scritto un giornalista francese dopo la tragedia dell´11 settembre 2001. Oggi che le vittime della guerra condotta da Israele contro Gaza si contano a centinaia e i feriti a migliaia (più di 900 morti e 4.000 feriti), chi dirà «siamo tutti cittadini di Gaza»? Forse la vita di un abitante di Gaza vale meno di quella di un americano. Gaza, per il fatto che è diretta da palestinesi democraticamente eletti sotto l´insegna di Hamas, movimento islamista, è votata alla distruzione, ai massacri d´innocenti come il bombardamento di una scuola delle Nazioni Unite, e tagliata in due perché i soccorsi e gli aiuti alimentari non possano raggiungere gli abitanti.
Devo reagire e esprimere la vergogna e il disgusto, non come cittadino arabo ma come semplice essere umano. Vergogna per il silenzio degli Stati arabi (eccetto l´emiro dell´Qatar), vergogna di assistere impotente al massacro dei deboli ad opera di uno Stato potente. Ho immaginato di essere a Gaza, dove il sogno e il sonno sono diventati impossibili perché l´esercito israeliano, per sua stessa ammissione, preferisce agire di notte. La morte che distribuisce con generosità somiglia a quella che ha dispensato spesso: è una morte che cade dal cielo come un fuoco d´artificio. Le bombe sono scoppi di luce che fanno una danza spettacolare nel cielo e poi scelgono i loro obiettivi per uccidere in totale impunità.
Abbiamo visto corpi dilaniati e grida spezzate dalla sofferenza, abbiamo sentito osservatori occidentali, medici e infermieri venuti da tutto il mondo esprimere la loro rabbia perché i feriti muoiono durante il tragitto per via delle strade interrotte.
Abbiamo visto dimostranti nei Paesi arabi e in Europa manifestare la loro indignazione, ma a tutto questo il governo israeliano oppone la legittima difesa. Ai razzi lanciati da Gaza per creare insicurezza, gli Israeliani hanno risposto scatenando una guerra senza pietà. Vivere nel timore dell´arrivo di un razzo non può giustificare una risposta così mortifera. Non è più legittima difesa, ma assassinio di massa deliberato.
Che cosa sperano di ottenere? La sottomissione della popolazione di Gaza? L´abdicazione della resistenza? Israele, seminando la morte con tale arroganza, nonché con incoscienza crudele, raccoglierà decenni di odio, di paura e di bisogno di vendetta. Come si può parlare ancora di un piano di pace, dopo tante ferite nel cuore e nel corpo di migliaia di palestinesi?
Commettendo un «disastro umanitario», come ha detto un uomo politico occidentale, affamando un popolo, distruggendo una grossa porzione della città, Israele si pone al di fuori dalla legalità internazionale e commette crimini contro civili. Ma la sua impunità sistematica benedetta dagli Stati Uniti non favorisce assolutamente la speranza di pace e questo non è nuovo: il massacro di Cana nel 1996, l´assassinio mirato dei dirigenti dei Palestinesi e la guerra contro il Libano nel 2006 sono fatti quasi dimenticati; i vivi e i morti sono stati seppelliti nello stesso sudario: quello dell´impotenza e dell´ingiustizia. Rispondendo all´arma del debole (i razzi) con distruzioni di massa fisiche e umane, Israele abolisce il futuro: infatti, come ha detto lo scrittore Abraham Yehoshua, «prima o poi vivremo insieme». Ma per vivere insieme bisogna ammettere l´esistenza e la necessità di vivere nella dignità e nel rispetto dell´altro: Israele, in quanto Stato forte, deve riconoscere Hamas e negoziare anche con essa e non soltanto con il presidente dell´Autorità palestinese Mahmoud Abbas, un pover´uomo che ha perso la sua credibilità e che da quando passa da una riunione all´altra non ha più ottenuto nulla. Hamas, per parte sua, dovrebbe rinunciare alla sua posizione radicale del tutto o niente e acconsentire, in pegno di buona volontà, al riconoscimento dello Stato di Israele. Per questo occorre che gli Stati che la finanziano smettano di utilizzarla per le loro strategie, e in particolare mi riferisco all´Iran. Ma finché l´esercito israeliano pratica la punizione collettiva e uccide dei civili, non è possibile nessuna speranza di riconciliazione e di pace. La guerra di oggi prepara i kamikaze di domani, promuove ed esaspera l´odio tra i popoli. Veniamo destinati a una guerra di cent´anni.

La STAMPA pubblica a pagina 7 un'intervista di Ibrahim Refat allo scrittore egiziano Ala Al-Aswani, che attacca gli intellettuali israeliani ed ebrei che non si allineano alla propaganda di odio verso lo Stato ebraico, compresi pacifisti come Amos Oz: 

Gli intellettuali ebrei devono ribellarsi

Lo scrittore Ala Al-Aswani ci riceve nel suo angusto ambulatorio dentistico nel quartiere residenziale del Cairo «Garden City», in riva al Nilo, abbastanza lontano dal «Palazzo Yacoubian» dove aveva ambientato l’omonimo romanzo che gli ha procurato fama e ricchezza. È un uomo ospitale, dai modi franchi, che non piace certamente all’establishment in Egitto. La prima domanda non poteva che cadere sulla tragedia di Gaza.
È possibile avviare un dialogo fra scrittori arabi e israeliani sostenitori della pace, come Amos Oz, Abraham Yehoshua, David Grossman, per fermare il massacro in corso a Gaza?
«In linea di principio sono a favore di qualsiasi scrittore israeliano che dissenta dalla politica bellicosa d’Israele. Il dissenso per altro è dovere di qualsiasi scrittore. Tuttavia non sono a favore del dialogo con gli scrittori israeliani a prescindere della loro posizione politica».
Perché?
«Perché la Federazione degli scrittori arabi da tempo ha preso questa decisione, nell’ambito del boicottaggio arabo nei confronti dello Stato di Israele. È un modo pacifico deciso da noi intellettuali per esercitare pressioni sul governo israeliano».
Non crede che lo scopo debba essere quello di formare un fronte dell’intellighenzia per fermare la guerra in Medio Oriente?
«Il problema è che gli intellettuali israeliani sono intrisi d’ideologia sionista. Un anno fa mi trovavo in Francia durante un dibattito con lo scrittore israeliano Amos Oz. A un certo punto cominciò a parlare della sua infanzia in Palestina all’epoca del mandato britannico, dicendo che quella era la terra d’Israele, la sua patria. Sono dovuto intervenire per correggerlo, spiegando agli ascoltatori che su quella terra vivevano anche i palestinesi che furono cacciati dagli israeliani nel 1948. Allora Oz disse che la sua fantasia di scrittore non teneva conto dei fatti storici. Non ci possiamo fidare di loro».
Di chi credete di potervi fidare?
«Ci sono ebrei che vivono nella diaspora, antisionisti convinti, come Noam Chomsky. Oppure storici come Joel Beinin, autore de "La dispersione degli ebrei egiziani". Loro sì che smascherano le menzogne di Israele».
Quando gli intellettuali arabi abbandoneranno il circolo vizioso del rifiuto dell’altro e del pregiudizio?
«Io sono contro lo Stato coloniale d’Israele, basato sulla violenza. La presenza degli intellettuali in quello Stato e la loro accettazione di quella realtà è una contraddizione inaccettabile».
Dunque, per dialogare con loro bisogna che rinuncino alla cittadinanza israeliana oppure emigrino all’estero?
«Molti dei cittadini di Israele non sono nati lì…».
Forse questo era così sessant’anni fa. Adesso esiste una terza generazione nata in Israele.
«Non sono per la politica dell’esodo forzato degli ebrei da Israele, ma a favore della creazione di uno Stato unico laico e democratico in Palestina. Non di due Stati: uno palestinese e l’altro israeliano, perché il primo sarà sempre succube del secondo più forte, come accade adesso a Gaza. Bisogna porre fine allo Stato confessionale in modo da consentire a tutti pari diritti».
Il problema è che finora il mondo arabo non è riuscito ad esprimere un solo Stato democratico.
«Non è colpa dei palestinesi. La verità è che i regimi arabi dispotici, che tra l’altro sono la vera causa delle tragedie del mondo arabo, senza il sostegno dell’Occidente e degli Stati Uniti non potrebbero sopravvivere un solo giorno».

Dacia Maraini nell'editoriale pubblicato a pagina 38 del CORRIERE della SERA invoca "la voce della ragione" nel conflitto tra Israele e Hamas, ma si guarda bene dal suggerire una soluzione concreta che consenta a uno Stato che, come Israele, è aggredito dal terrorismo islamista di difendersi senza sparare un colpo.

Ecco il testo,  "Sopra bombe e aerei la voce della ragione "

Si è parlato molto di questa guerra atroce. Si preferirebbe tacere. Eppure il sentimento di impotenza ci spinge a parlarne ancora. Sperando che tante voci possono diventare un coro. E' sempre flebile, quasi inudibile il suono del dissenso, della critica rispetto allo strepito degli aerei e delle bombe. Ma nondimeno, chi crede nel dialogo e nella pace ha il dovere di continuare a parlare, a dissentire, perché chi tace si fa complice, anche non volendo.
«Ho sempre combattuto Hamas, ma non ho mai pensato che la sua sconfitta potesse venire da una prova di forza militare», dichiara Hanan Ashrawi, più volte ministra dell'Anp, prima donna portavoce della Lega Araba, paladina dei diritti umani nei Territori. «Già in passato Israele ha provato a decapitare la leadership di Hamas, assassinando il suo stesso fondatore (lo sceicco Ahmed Yassin, nota la redazione del Centro Ricerca per la Pace). Il risultato è stato il rafforzamento di Hamas. Israele aveva una carta da giocare per sconfiggere veramente Hamas: realizzare una pace giusta, fondata sulle risoluzioni Onu».
Dall'altra parte sentiamo le parole di un israeliano che non crede nelle armi: Avraham Burg, autore di un saggio apparso su «Haaretz» il 5 gennaio di quest'anno dal titolo «Perché l'Occidente non può vincere» (oggi pubblicato da Neri Pozza), dopo avere dimostrato che nessuna delle tante guerre degli ultimi cinquant'anni è stata mai veramente vinta, conclude: «Sembra pertanto che nella guerra di Gaza la leadership d'Israele sia destinata a fallire nel nostro nome: esattamente come i leader religiosi dei palestinesi, che stanno conducendo la loro gente verso un altro fallimento, radicato nell'ignorare la metamorfosi del concetto di vittoria, che non implica più sottomissione, ma apertura di discorso, non mattanza, ma costruzione di ponti. Come ponti furono alla fine gettati sopra le acque tempestose tra Pearl Harbour e Hiroshima, tra Dresda e Londra, e tra la Dublino cattolica e quella protestante, così vi è già un ponte tra Sderot e Gaza. Coloro che non intendono camminarvi sopra condurranno le loro nazioni al fallimento in tutte le loro guerre».
Le immagini che il mondo osserva in questi giorni, sui morti di Gaza, in maggioranza civili, non possono che rinvigorire il fanatismo islamico, non possono che creare sentimenti frustrati di vendetta. Questo l'hanno capito benissimo i tanti intellettuali, i tanti studenti, le tante associazioni israeliane che in questi giorni stanno chiedendo altri modi per combattere Hamas e i suoi missili.
Abbiamo visto quello che è successo in Iraq con la inutile guerra di Bush. Ci sono voluti anni, ma infine la maggioranza degli americani ha capito quanto fosse nociva per il Paese quella guerra. Come se si potesse imporre la democrazia con le bombe, come se si potesse risolvere il terrorismo con i fucili e la tortura.

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