Il denominatore comune fra i diversi gruppi che stanno protestando in questi giorni contro la guerra Israele – Hamas è l’antisemitismo. Se la situazione non fosse tragica e triste (vedere i muri sfregiati da svastiche e scritte antisemite è avvilente), sarebbe divertente notare come il “nemico” comune riesca ad avvicinare tutti, ma proprio tutti. L’antisemitismo italiano (ed Europeo) è equamente suddiviso, non tiene conto degli schieramenti politici e per questo non dobbiamo stupirci di vedere neonazisti a fianco di comunisti, tutti uniti a urlare gli stessi slogan perversi. Sempre in questi cortei è interessante notare che, stando a quanto afferma Alberto Giannoni sul GIORNALE di oggi, la percentuale palestinese è minima. Forse Hamas non piace tanto ai Palestinesi (che devono viverci a stretto contatto), quanto al resto dei manifestanti, che in essa vedono (erroneamente) una specie di paladina degli oppressi. Sono tutti concordi nel riconoscere nella popolazione di Gaza la vera vittima del conflitto. I morti palestinesi fanno più pietà perché sono più numerosi. Già, perché ormai non conta più chi ha iniziato, chi è l’aggressore e chi si sta difendendo: ciò che importa è contare i morti, confrontare i dati e stabilire che lo schieramento con più cadaveri (quella palestinese) è dalla parte del giusto, e chi se ne importa se tutti questi morti sono, in realtà, causati da Hamas. Noi occidentali (non tutti, per fortuna) siamo scesi in campo (anzi, in piazza) per dire la nostra. Noi siamo per la democrazia (per questo ci piace tanto Hamas, perché non l’abbiamo mai sperimentata sulla nostra pelle, né da palestinesi , né da Israeliani) e chiediamo la fine dello sterminio dei palestinesi (operato, secondo noi, da Israele, e non da Hamas e da tutti gli stati arabi del Medio Oriente che li tengono segregati in campi profughi senza concedere loro la cittadinanza). Ci piace anche parlare di Apartheid e di diritti umani. Ogni uomo deve avere gli stessi diritti di tutti gli altri. E il ragionamento fila…peccato che non ci piaccia allo stesso modo estenderlo anche agli ebrei. Però noi occidentali che scendiamo in piazza contro Israele bruciandone anche la bandiera non siamo contro gli ebrei, no, siamo contro il loro stato. Noi ci ricordiamo di Sabra e Chatila. Abbiamo la memoria proverbiale degli elefanti (peccato che sia anche selettiva…ricorda solo le nefandezze israeliane e rimuove completamente quelle della parte araba). Ci piace dare segnali forti per sottolineare le nostre idee: per questo sfregiamo i muri con scritte e prendiamo d’assalto con uova marce e quant’altro le sedi delle testate giornalistiche. E non facciamo differenze: colpiamo indistintamente anche quelle che la pensano come noi e che pubblicano articoli filo palestinesi (come è successo ieri alle sedi della REPUBBLICA e del MESSAGGERO). Forse questo ci sfugge perché con tutto il lavoro da fare per organizzare una manifestazione in piazza, poi non ci resta il tempo per informarci (o compiacerci, dipende da cosa scegliamo di leggere) dai giornali. L’antisemitismo di oggi ama nascondersi dietro altri nomi (quello più à la page è “antisionismo”). Nessuno di questi signori che parla di Gaza come di un nuovo campo di concentramento (gestito da Israele, ovviamente) o che dice che gli israeliani sono i nuovi nazisti, o che scrive che Hitler, tutto sommato, non era poi così folle vuole sentirsi chiamare antisemita: sono tutti squisitamente antisionisti. Forse basterebbe rinfrescare loro la memoria e ricordare che l’idea delle liste di professori ebrei, le liste di negozianti ebrei, le svastiche, ecc., erano già venute in mente a qualcun altro qualche decennio fa. La storia insegna? A noi, forse, no, dal momento che preferiamo schierarci con il terrorismo fondamentalista piuttosto che con una democrazia.
Di seguito pubblichiamo alcuni articoli sul tema. Particolarmente interessante è l'articolo di Alberto Giannoni che sottolinea i legami fra estrema sinistra e fondamentalismo islamico nell'ambito delle manifestazioni anti israeliane di questi giorni.
Da Il GIORNALE Alberto Giannoni, "Nei cortei anti Israele anche i filo Br", pag. 10
I fiumi sembrano tornati in piena, e dentro ci sguazzano estremisti d’ogni colore e fede. Le piazze filopalestinesi di questi giorni sono un fenomeno che inquieta non solo per la confusione fra islam e politica, slogan e preghiere, piattaforme pacifiste e prediche d’odio. Ma anche perché sembrano sancire una nuova saldatura, fra il fanatismo jihadista e la galassia dell’estremismo politico, anche di casa nostra. Col paradosso che alla fine, nei cortei che si sono succeduti in questi giorni a Milano, i palestinesi erano solo una piccola minoranza (del resto a vivere in Italia sono solo qualche centinaio).
Chi ha visto da vicino le marce di quegli eserciti di fedeli sa che in gran parte sono egiziani, marocchini, algerini. Si sentono parte di quella grande nazione panaraba, ma allora la rivendicazione della terra palestinese non è più un obiettivo politico concreto, bensì un mito. Non a caso ai comizi politici delle organizzazioni e delle comunità palestinesi la platea dei militanti risponde sempre e in ogni caso con l’invocazione ad Allah. Nel capoluogo lombardo i palestinesi sono una estrema minoranza. Gli egiziani sono 30mila, su una comunità musulmana di circa 80mila persone. Moltissimi i marocchini, gli algerini. Nazionalità ampiamente rappresentate ai vertici dei centri islamici. Egiziano, vero nome Al Husseini Alì Erman, è l’imam del discusso centro di viale Jenner, Abu Imad che in patria fu incarcerato dalle autorità del Cairo all’indomani dell’assassinio del presidente Anwar El Sadat. Egiziani sono i vertici del centro di via Quaranta, che avevano messo in piedi una scuola araba, poi chiusa e trasferita. Libico è l’architetto che dirige viale Jenner, Abdel Hamid Shaari. Algerino è l’imam di via Padova, Abdullah Tchina. L’ossatura di quel servizio d’ordine che sabato ha controllato in modo rigido la sfilata per impedire una nuova invasione del Duomo.
Ma soprattutto, in quel fiume di gente c’era, insieme a qualche «pesciolino rosso» (studenti), anche qualche vecchio «pescecane». Bastava dare un’occhiata al corteo milanese di sabato per notare un’altra inquietante alleanza: quella fra i giovani che inneggiano all’Intifada e i (meno giovani) militanti di quell’area che ha civettato con tutti gli estremismi in nome del nemico comune: gli Usa, Israele, le democrazie occidentali. Dietro i centri islamici, dietro i filopalestinesi, dopo i «cani sciolti» esaltati dai vessilli di Hamas e degli hezbollah libanesi sfilavano le sigle della sinistra antagonista. Non solo qualche sessantottino ormai sfiatato. Non solo le radical chic che sfoggiavano la kefiah impreziosita dagli strass. Non solo Sinistra critica e il Partito comunista dei lavoratori. Ma una miriade di sigle: Partito marxista leninista, Socialismo rivoluzionario, Proletari comunisti, Per il blocco popolare-Lista comunista, anarchici, e con loro anche i Carc, i Comitati di appoggio alla resistenza comunista, che distribuivano i loro volantini: «Che la Striscia di Gaza sia una nuova Stalingrado». I Carc sono nati nel ’92. Una sorta di discarica ideologica in cui è finito tutto il vecchio ciarpame degli anni Settanta. Arrestati, inquisiti, perquisiti, nelle loro case è stato trovato del materiale che gli inquirenti giudicarono decisivo per capire i legami fra gruppi di autonomi e nuove Br. E con le Br hanno solidarizzato: «Nostri compagni». «Solidarietà con i compagni arrestati e inquisiti» l’hanno manifestata due anni fa, anche gli esponenti del centro sociale «Vittoria», anch’essi in piazza sabato a Milano. Contiguità allarmanti. Come l’assalto compiuto a Mestre contro la sede della compagnia marittima israeliana «Zim Line», presa di mira dal blitz di cinque incappucciati. Gli inquirenti puntano su ambienti diversi, compresa l’area dei Disobbedienti e dei centri sociali, storicamente caldissimi nel Veneto.
Ma non è solo estremismo rosso. A Roma le svastiche, le scritte antisemite e inneggianti ad Hamas sono comparse in zone della città tradizionalmente di destra, come piazza Bologna, o nelle periferie, e davanti al monumento ai partigiani in piazza delle Camelie a Centocelle. Come dire: non importa che il gatto sia rosso o nero. Ciò che conta è che mangi Israele.
Sempre da Il GIORNALE Francesco De Remigis, "Jibril, un duro alla guida dei giovani islamici d'Italia "
È un venticinquenne di origini sardo-egiziane, Omar Jibril El Tabbakh, il nuovo presidente dei Giovani musulmani d’Italia (Gmi). A lui si deve la nuova svolta radicale che l’associazione sta vivendo in queste ore, con molti membri che hanno partecipato attivamente alle manifestazioni milanesi pro Hamas. In un comunicato sulla crisi in Medio Oriente, il nuovo direttivo è infatti intervenuto il 2 gennaio scorso facendo una sorta di conta dei morti, dedicando il primo editoriale proprio al conflitto israeliano. Il titolo è emblematico: «Le aggressioni su Gaza 2008-2009». Nel testo si spiega che i razzi che hanno scatenato la risposta di Israele, lanciati dai militanti di Hamas dalla Striscia di Gaza, «hanno provocato soltanto danni materiali per lo più trascurabili, e con un’infima incidenza di vittime civili» per Gerusalemme. «La violentissima offensiva aeronavale israeliana sulla Striscia di Gaza – si legge nel volantino diffuso via Internet – sta assumendo giorno dopo giorno i tratti inconfondibili del massacro». E ancora: «La popolazione palestinese è oggi sottoposta a durissimi bombardamenti, che in poche ore hanno già provocato centinaia di morti e migliaia di feriti». Fra i membri dell’associazione figurano i figli di dirigenti dell’Ucoii, ma anche molte donne.
Da quando è nata, poco dopo l’11 settembre 2001, alla guida dell’Associazione dei Giovani musulmani si sono alternati leader diversi, provenienti da ogni parte d’Italia. Ma è a Milano che oggi ha sede il cuore pulsante, lo zoccolo duro dove ogni settimana si ritrovano decine di militanti. Molti di loro erano presenti alla preghiera di piazza Duomo. E non è un caso che sia stato proprio un musulmano milanese a essere scelto per guidare la nuova fase dei Gmi dal 1° gennaio. Nella recente Assemblea generale, convocata in sessione ordinaria per il rinnovo degli incarichi, è stato eletto Omar Jibril, rampante laureato in ingegneria che vive e lavora a Milano. Jibril conosce bene la città. Lì si è sposato. Lì ha ricoperto incarichi nella sezione locale contribuendo alla sua affermazione e ha ottenuto il successo grazie a una campagna elettorale distribuita su tutto il territorio.
«Il primo intervento è caratterizzato da una visione tutt’altro che moderata», è l’ammissione di alcuni membri dell’associazione. Così il dibattito che ha animato la recentissima votazione si rinnova dopo questa sua prima presa di posizione. Nel direttivo uscente Jibril curava i rapporti con le sezioni locali e la carica di vice-presidente. Non è ancora molto noto ai media. Ma negli anni ha costruito una rete di promozione che ha contribuito alla sua legittimazione politica, dall’Emilia Romagna alla Lombardia, dal Piemonte alla Toscana, dal Trentino Alto-Adige all’Umbria, fino alla Campania.
da il CORRIERE della SERA Andra Garibaldi, "Torino, il Pdci difende le bandiere bruciate "
I Comunisti italiani di Torino hanno le idee chiare sulle bandiere di Israele bruciate in piazza. E queste idee suscitano critiche nette. Il Pdci torinese, in un comunicato, fa un paragone con la guerra del Vietnam di 40 anni fa: «Durante il conflitto del Vietnam — scrive — cittadini statunitensi bruciavano bandiere a stelle e strisce: si trattava di una forma di acuta condanna alle scelte belliche degli Usa, che usavano anche armi chimiche dagli effetti devastanti. La storia riconosce l'orrore di quella guerra e l'aver bruciato le bandiere non ha portato alla distruzione degli Stati Uniti, anzi quelle manifestazioni hanno contribuito a porre fine al conflitto ». Come a dire: i roghi ebbero effetti positivi. «Polemizzare perché viene incendiata una bandiera israeliana — prosegue il Pdci torinese — significa non riconoscere il valore della protesta. Bruciare una bandiera non ha alcuna conseguenza, mentre a Gaza si stanno ammazzando donne, bambini, anziani».
Sabato, durante la manifestazione a Torino, promossa dall'Assemblea Free Palestine, bandiere d'Israele sono state messe a fuoco davanti alla sede di Italia-Israele e alla Rai. A Roma, la bandiera palestinese — nera, rossa, verde e bianca — è stata issata sulla sede nazionale del Pdci, piazza Augusto imperatore. Jacopo Venier, responsabile esteri del partito, non era a conoscenza dell'iniziativa dei compagni di Torino, ma ne condivide il senso. Le bandiere con la stella di Davide si possono bruciare? «Bruciare bandiere di Israele è un errore politico, poiché sposta l'attenzione dell'opinione pubblica, dalla trave alla pagliuzza. Molto più grave, infatti, è massacrare un intero popolo». Venier ci tiene a dirlo: «Mai un compagno del Pdci brucerà una bandiera. Sabato a Roma saremo alla manifestazione nazionale di solidarietà con il popolo palestinese e non sarà dato fuoco a bandiere, di sicuro». Il segretario del partito, Diliberto, fu al centro di due casi nel 2006: bandiere di Israele bruciate durante cortei nei quali sfilava. Dichiarò: «Imbecilli ci sono sempre. Chi fa quelle cose è nemico della causa palestinese».
Torino fu già teatro, a maggio, delle proteste contro il Salone del libro dedicato a Israele. Tullio Levi, presidente della comunità ebraica cittadina, dice che la vigilanza è sempre alta: «Il comunicato del Pdci esprime una valutazione manichea degli eventi. Dire che la colpa è tutta da una parte è operazione di propaganda ». Umberto Ranieri viene dal Pci, oggi è storico esponente del Partito democratico. Si aggancia al richiamo del Pdci alla guerra del Vietnam: «La mia generazione manifestò contro quella guerra. Il Pci non ha mai consentito ai giovani di bruciare bandiere americane nei cortei». Dice Ranieri: «La fermezza nella critica alla politica di uno Stato non comporta che ne siano bruciati i simboli. Bruciare le bandiere è primitivismo politico e culturale». Giuliano Pisapia, giurista ed ex deputato di Rifondazione comunista, rammenta che si era battuto per depenalizzare il vilipendio di Stato estero. Il reato però è rimasto, niente arresto, ma sanzione fra i 100 e i 1.000 euro. Dice: «È deleterio sotto ogni profilo bruciare bandiere. Oggi, questi gesti non sono solo imbecilli e del tutto isolati, ma anche controproducenti per la causa palestinese. Certo, si tratta di ben poca cosa rispetto ai più di 800 morti e alle migliaia di feriti causati in Palestina dall'esercito israeliano...».
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