Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Scontri alle porte di Gaza City: le strategie militari e politiche cronache e analisi di Davide Frattini, Gian Micalessin e Francesca Paci
Testata:Corriere della Sera - Il Giornale - La Stampa Autore: Davide Frattini - Gian Micalessin - Francesca Paci Titolo: «Scontri alle porte di Gaza city In battaglia anche i riservisti - Gli sporchi trucchi di Hamas e Tsahal - Il raid non si fermerà prima dell’era Obama»
Da pagina 8 del CORRIERE della SERA del 12 gennaio 2008, riportiamo la cronaca di Davide Frattini, "Scontri alle porte di Gaza city In battaglia anche i riservisti "
YAD MORDECHAI (confine con Gaza) — Il palazzo presidenziale, l'università islamica e il complesso di Sariya, considerato il quartier generale di Hamas. Stanno tutti nel quartiere di Rimal, parte occidentale della città di Gaza. Le truppe israeliane si muovono verso questa zona, l'obiettivo sarebbe conquistare i simboli del potere nella Striscia, dimostrare che gli integralisti hanno perso il controllo. Per la prima volta, i riservisti sono entrati in battaglia. L'invio dei rinforzi è il segnale che la terza fase della guerra è cominciata, come è stato pianificato dallo Stato Maggiore. Gli scontri con i miliziani sono stati i più duri dall'inizio dell'offensiva di terra. Almeno venti palestinesi sarebbero morti, 889 da quando l'operazione Piombo Fuso è decollata, oltre la metà civili, stimano fonti mediche da Gaza. Cinque poliziotti e due bambini egiziani sono rimasti feriti durante un bombardamento vicino al confine, nel sud della Striscia. Il governo israeliano rifiuta di discutere un calendario per il cessate il fuoco, i ministri parlano di tempi diversi. «Abbiamo quasi raggiunto gli obiettivi che ci eravamo fissati. Bisogna avere pazienza », dice il premier Ehud Olmert. «La risoluzione dell'Onu lascia poco margine di manovra, la fine del conflitto è vicina», calcola invece Matan Vilnai, che è il vice di Ehud Barak, ministro della Difesa. «Non possiamo aspettarci che Hamas alzi bandiera bianca », spiega Amos Yadlin, capo dell'intelligence militare. «L'organizzazione è stata danneggiata, molti suoi comandanti uccisi e i depositi di armi distrutti. Ma continueranno a combattere». Ieri venti razzi sono stati lanciati contro le città israeliane. I servizi segreti sono convinti che i leader del movimento fondamentalista si nascondano nei bunker costruiti sotto agli ospedali e in alcune ambasciate. Testimoni palestinesi hanno accusato le forze israeliane di aver sparato proiettili al fosforo, proibiti nelle zone popolate dalla convenzione di Ginevra. I portavoce militari hanno negato. «Alcune case nel villaggio di Khouza — dice il medico Yusuf Abu Rish — hanno preso fuoco. Una donna è morta e sono arrivati cento feriti, ustionati e intossicati dai gas». L'esercito ha condotto un'inchiesta interna sulla strage alla scuola delle Nazioni Unite, dove sono morti almeno 43 palestinesi (un numero di vittime contestato dagli israeliani) che vi si erano rifugiati. Uno dei colpi di mortaio usato dai parà per rispondere al fuoco dei miliziani sarebbe finito fuori bersaglio di trenta metri. «Gli ufficiali avevano deciso di usare un missile guidato, che però non ha funzionato — spiegano alcuni ufficiali al quotidiano Haaretz —. È stato sbagliato scegliere un'arma poco accurata ». Tsahal sembra aver lasciato cadere la versione che i soldati di Hamas attaccassero da dentro il cortile della scuola. Al confine con la Siria, miliziani palestinesi hanno sparato contro un gruppo di soldati israeliani che pattugliava la frontiera.
Da Il GIORNALE, l'articolo di Gian Micalessin "Gli sporchi trucchi di Hamas e Tsahal":
È una guerra sporca, infida e crudele. Non la vedono i giornalisti stranieri tenuti alla larga dalla Striscia di Gaza dai divieti israeliani. Non la raccontano quelli palestinesi minacciati e vessati da Hamas. È un buco nero da cui non affiorano neppure le foto dei telefonini «ingoiate» a mezz'aria dalle nuove tecnologie dello Shin Bet, il servizio segreto interno dello stato ebraico. E l'inferno in terra di Gaza dove Hamas si fa scudo dietro alle proprie donne e ai propri figli, mentre Tsahal, l'esercito israeliano, non più disposto a mettere a repentaglio i propri soldati per risparmiare la popolazione, combatte senza risparmiare i colpi. «Siamo violenti, usiamo ogni arma a disposizione, non siamo più disposti a compromessi perché Hamas grazie ai soldi e alle armi dell'Iran è diventato un esercito vero e proprio, capace di mescolare terrore e guerriglia» – spiega un ufficiale di Sayeret Yahalom, l'unità «diamante», la forza élite dei guastatori incaricati di aprire la strada agli altri soldati nei formicai di Gaza.
Hanno imparato la lezione nella tremenda estate libanese del 2006, sanno che Hamas conta sugli stessi maestri di Hezbollah e che ogni passaggio, ogni strada, ogni casa, nasconde una trappola. Avanzano a colpi di esplosivo, fanno saltare i muri laterali degli edifici, i blindati vi accostano, le truppe saltano nelle voragini, aprono il fuoco contro chiunque si muova, seguono i cani anti-mina che sniffano il tracciato, si riparano dietro il giubbotto anti proiettile di chi sta davanti. Se in una casa c'è puzza di nemico l'unico espediente per risparmiar i civili è la «bussata sul tetto». Non è una gentilezza e neppure una cortesia. È un missile contro l'ultimo piano del palazzo, lì dove Hamas concentra gli abitanti dei condomini e nasconde i cecchini che battono i dintorni. Il missile esplode senza penetrare nel tetto, ma l'effetto è terrorizzante. E su chi non fugge immediatamente s'abbattono, subito dopo, le Gbu 39 americane, i nuovi minuscoli ordigni intelligenti per bombardamenti urbani capaci con solo 40 chili di carica di far implodere un edificio. «Mors tua vita mea» è l'unica e l'ultima legge della sopravvivenza in un teatro dove ogni militare di Tsahal è una preda preziosa.
Ron Ben-Yishai, unico corrispondente di guerra israeliano al seguito dei militari ha incontrato la «trappola del manichino», un pupazzo vestito da guerrigliero seminascosto nel cortile interno di un palazzo. «Se gli spari - racconta – innesca una carica, fa crollare il pavimento, ti fa precipitare in un antro sotterraneo dove Hamas attende i suoi prigionieri». In due anni i «topi» fondamentalisti hanno attrezzato l'intero sottosuolo con basi e arsenali e tunnel, emergono da un capo all'altro delle città, combattono in abiti civili, spariscono di nuovo. Si guardano bene dallo sfidare elicotteri e aerei senza pilota. Colpiscono da lontano utilizzando, come hanno imparato dagli istruttori di Hezbollah, i nuovi mortai iraniani da 81 millimetri. Cercano le unità di Tsahal nascoste nei palazzi, c'infilano dentro i razzi delle nuovi micidiali armi anticarro. Ma restano in superficie solo il tempo indispensabile, poi riguadagnano i tunnel e riemergono altrove. I loro capi, dati ieri in fuga verso l'Egitto, si sarebbero nascosti per 14 giorni in un bunker sotto una delle due ali dell'ospedale di Gaza.
Da La STAMPA, l'articolo di Francesca Paci"Il raid non si fermerà prima dell’era Obama":
Per chi suona la campana dei morti di Gaza? A tre settimane dall’inizio dell’operazione Piombo Fuso, Israele mostra le prime crepe nella granitica fiducia nazionale nella guerra. Non è questione di sfiducia: il morale dei soldati come quello della popolazione resta alto. Nessuno mette in dubbio l’entusiasmo del governo, che affida al segretario di Gabinetto Obid Yehezkel il punto sulla situazione. «Hamas è isolato a Damasco, paralizzato a Gaza, sbalordito sul campo di battaglia», riassume Yehezkel. Il problema è il tempo. Quanto durerà l’ottimismo? «Dobbiamo decidere se raggiungere il cessate il fuoco nel giro di tre giorni o lanciare una grande offensiva militare di almeno due settimane», osserva il generale Giora Eiland, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Sharon. L’esercito, a suo giudizio, non può andare avanti così a lungo: «Finora abbiamo girato intorno al punto centrale, è il momento di fare una scelta». La comunità internazione preme. Le vittime palestinesi volano verso quota 900, Gaza è al collasso. Israele ripete la lista degli obiettivi - la fine del lancio dei missili sulle città del Neghev, il blocco del traffico di armi, il ripristino della sicurezza al sud del Paese - come per esorcizzare l’ansia da prestazione. «Considereremo la missione compiuta quando la nostra vittoria sarà inequivocabile», spiega lo storico Michael Oren, riservista illustre nelle file dei portavoce militari. Lo spettro è l’esito insidioso della guerra del Libano, quando di fronte al disfattismo israeliano il leader di Hezbollah Nashrallah ripensò l’originaria percezione di ko e dichiarò il trionfo delle milizie sciite. «In Medio Oriente non c’è posto per uno Stato ebraico e uno Stato di Hamas», insiste Yossi Klein Halevi, editorialista del Jerusalem Post. Scartata la soluzione politica, restano tre opzioni: distruggere Hamas fino all’ultimo uomo, incoraggiare un golpe dei fratelli coltelli di al Fatah, rioccupare la Striscia di Gaza. La prima chance è esclusa a priori, pena lo scontro frontale con la comunità internazionale. La seconda, secondo Martin Kramer, esperto dell’Adelson Institute for Strategic Studies di Gerusalemme, bilancerebbe l’equilibrio delle forze: «Poiché il presidente Abu Mazen non ha il controllo totale dei territori palestinesi, per Israele è fondamentale modificare la distribuzione del potere a Gaza e restituire visibilità ad al Fatah». Ma, nonostante abbia probabilmente sottovalutato l’entità della risposta israeliana alla fine della tregua, Hamas sembra assai lungi dalla resa delle armi agli arcinemici di Ramallah. La strada sembra obbligata: affondare finché si può, fin quando si può. E pazienza per la strategia di lungo respiro. Resta poco più di una settimana, avverte il professor Yossi Alpher, ex consulente strategico di Barak e degli 007 del Mossad: «Abbiamo tempo fino al 20 gennaio. Con l’insediamento del presidente Obama si chiuderanno i giochi: chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto». L’ipotesi di rioccupare Gaza per la terza volta, dopo i quattro mesi del 1956 e i 38 anni seguiti alla guerra dei Sei giorni appare per ora fantapolitica. «Non lo faranno mai, gli israeliani non si riaccolleranno un milione e mezzo di gaziani», scommette Hafez Barghouti, direttore del quotidiano palestinese al Hayat al Jadidah, organo semiufficiale di al Fatah. Dietro la tattica, la strategia del divide et impera: «Israele vuole disarmare per sempre Hamas come ha già fatto con l’Autorità Nazionale Palestinese. Per questo non promuoverà alcun golpe di al Fatah, molto meglio mantenere i palestinesi divisi tra loro». Su questo la lettura di Barghouti fa implicitamente il paio con quella di Ehud Yaari, analista del Washington Institute convinto che Hamas abbia già subito una sconfitta «regredendo» da movimento popolare e politico a milizia militare e underground: «Ormai l’unico esito possibile del conflitto è un accordo che escluda Hamas dalle trattative, solo allora Israele riaprirà i valichi di Gaza. Ma nessuno s’illuda sul ripristino dei collegamenti tra Cisgiordania e Gaza: Israele ha impiegato anni a smantellare la rete terroristica di Ramallah, Jenin, Nablus, non permetterà che riceva nuova linfa». La clessidra incalza e la campana dei morti di Gaza suona per tutti, al di là e al di qua del confine.
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