Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Chiesa cattolica- Israele, un rapporto importante ma non ancora risolto Le analisi di Ernesto Galli della Loggia e Giorgio Israel
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Ernesto Galli della Loggia - Giorgio Israel Titolo: «Il pacifismo impossibile - La Chiesa, Israele e gli Ebrei»
Due contributi alla comprensione dei rapporti Chiesa-Israele sono pubblicati oggi, 11/01/2009, sul CORRIERE della SERA e sul FOGLIO. Il primo a firma di Ernesto Galli della Loggia, il secondo di Giorgio Israel. Entambi degni di attenta lettura e riflessione.
Corriere della Sera - Ernesto Galli della Loggia " Il pacifismo impossibile "
L'incauto paragone fatto dal cardinale Martino tra Gaza e un campo di concentramento (allestito dagli israeliani, naturalmente) ha riproposto il tema del rapporto tra Chiesa e Israele. Un tema che, al di là del paragone azzardato di cui sopra, e al di là delle ben diverse ed equilibrate espressioni adoperate invece dal Papa, si ripropone regolarmente perché in realtà esso riguarda sì un contenzioso specifico, ma insieme si presta come pochi altri ad essere lo specchio di questioni e dilemmi di portata amplissima che riguardano la storia del Cattolicesimo e dell'Ebraismo in quanto tali, dei loro rapporti, nonché il modo d'essere del primo sulla scena del mondo. Per quanto riguarda il contenzioso arabo-israeliano e il ruolo della Chiesa, su di esso non può non pesare ancora come un macigno il mancato riconoscimento diplomatico del nuovo Stato da parte della Santa Sede. Protrattosi per oltre un trentennio dopo la nascita di Israele, esso sortì l'effetto paradossale di equiparare di fatto il Vaticano, la massima autorità del mondo cristiano, al «fronte del rifiuto» arabo- islamico. Nel 1947 e nei molti anni successivi la diplomazia vaticana e chi la guidava non capì che il riconoscimento di Israele da parte della Chiesa di Roma era un gesto simbolico dovuto alla storia, alle sue ragioni supreme cui era necessario inchinarsi. Che sarebbe stato un gesto di sapore profetico in grado di imprimere una svolta sorprendente ad una storia lunga e tormentatissima, segnandone forse un nuovo inizio. Nella circostanza in questione, invece, gli aspetti simbolici pesarono sì (molto probabilmente) ma solo in senso negativo. Dovettero certo pesare, ad esempio, l'antica avversione per il «popolo deicida» che per la prima volta riusciva ora ad assurgere ad un'autonoma esistenza statale, lo sconcerto nel vedere tale Stato padrone addirittura della culla storica del Cristianesimo, il fatto, infine, che tutto ciò accadesse per una singolare convergenza protestante-marxista in seno alle Nazioni Unite (il voto di Usa e Urss). Mentre dal canto suo l'obiettivo accampato di solito per giustificare quel mancato riconoscimento — e cioè la protezione delle comunità cristiane nei Paesi arabi — non poteva rivelarsi più illusorio. A dispetto delle scelte vaticane, infatti, quelle comunità sono andate da allora riducendosi progressivamente di numero e d'influenza fino ad essere oggi sul punto di scomparire. Al mancato riconoscimento diplomatico si aggiunsero poi altri gesti di segno ancora più inequivoco: memorabile la scoperta di un vescovo cattolico, monsignor Capucci, sorpreso negli anni '70 a trasportare armi nel bagagliaio della propria auto per conto delle organizzazioni armate palestinesi. Come avrebbe reagito in un caso analogo, ci si deve chiedere, un'opinione pubblica diversa da quella israeliana, per esempio italiana? E che cosa avrebbe pensato dell'assenza di qualunque sanzione nei confronti del suddetto prelato da parte delle autorità religiose? Israele reagì accentuando l'atteggiamento di risentimento e di ostilità, anche se celato dietro un'apparenza di gelida correttezza formale, che aveva tenuto fin dall'inizio nei confronti della presenza cattolica nel suo territorio, e che estese dopo il 1967 ai territori occupati.
Lo fece, e continua tuttora a farlo, non solo non distinguendo in alcun modo tra arabi cristiani e musulmani, trattando entrambi con pari ostilità, ma soprattutto facendo sentire tutto il peso della propria autorità e quindi del proprio controllo occhiutamente oppressivo, sui luoghi santi della tradizione cristiana. Israele, insomma, ha colto senza pensarci due volte la singolarissima occasione che la storia gli ha offerto di rovesciare le parti: la condizione di sottomissione che per secoli gli ebrei hanno dovuto subire all'interno delle società cristiane è divenuta la medesima, almeno simbolicamente, che ai cristiani e alle loro istituzioni tocca ora sopportare all'interno della società ebraica. Ma l'atteggiamento della Chiesa nel conflitto arabo-israeliano si colora di un aspetto tutto particolare per un'altra ragione, che va oltre il rapporto cristianesimo-ebraismo. Si tratta del fatto che mai come a proposito di quel conflitto — che una vasta parte dell'opinione pubblica occidentale tende a considerare come una guerra «giusta» o perlomeno inevitabile — si manifesta il carattere problematico delle posizioni che la Chiesa è venuta assumendo sempre di più negli ultimi anni sulla scena internazionale. Una posizione che, come si sa, si compendia in pratica (anche se non in teoria: ma finora nella pratica non ricordo che vi siano state eccezioni) nel rifiuto/denuncia della guerra, virtualmente di ogni guerra. Questo pacifismo suscita inevitabilmente, però, una questione di grande rilievo, destinata a emergere di continuo nelle accese discussioni pubbliche che accompagnano sempre il conflitto mediorientale, come per l'appunto si vede anche in questi giorni. Essa riguarda il carattere quasi sempre non neutrale del pacifismo, spesso a dispetto dei suoi stessi promotori. In molte circostanze, infatti, schierarsi per la pace non significa per nulla essere davvero equidistanti tra le parti o al di sopra di esse. Specialmente perché un pacifismo coerente dovrebbe indurre non solo ad essere contro la guerra, ma a denunciare di continuo con eguale forza anche ogni manifestazione di conflittualità, di qualunque tipo o misura, che spesso costituisce la premessa obbligata del successivo scoppio delle ostilità vere e proprie. È dunque lecito chiedersi: la Santa Sede che è contro le odierne operazioni belliche di Israele, lo è stata allo stesso modo, con la stessa nettezza, lo stesso tono e soprattutto con la medesima pubblicità, nei confronti per esempio della politica estera di Siria e Iran? O di tante quotidiane manifestazioni violentissime del fronte palestinese? Ognuno può rispondere da sé. Resta da dire che una vera politica pacifista è in realtà impossibile per qualunque organizzazione vasta e complessa, tutrice di vari e molteplici interessi, perché, intesa coerentemente, essa implicherebbe la rinuncia di fatto a svolgere un qualunque vero ruolo politico — basato, come questo inevitabilmente è, sulla contrattazione (anche del silenzio) e le alleanze — per limitarsi, viceversa, ad un ruolo di esclusiva testimonianza morale, sempre e comunque. La scelta della Chiesa di Roma non sembra proprio andare in questa direzione. È lecito aggiungere, per fortuna?
Il Foglio - Giorgio Israel - " La Chiesa, Israele e gli Ebrei "
I rapporti ebraico-cristiani sembrano essersi incagliati dentro un arcipelago di scogli: quando sembra che ne sia stato evitato uno ne emerge un altro e le cose sembrano andare di male in peggio. Cosa accade? Cosa sta bloccando un processo che fino a poco tempo fa sembrava orientato nella direzione più promettente? Cominciò con il Concilio, con la “Nostra Aetate”, proseguì con la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma e poi al Muro del Pianto di Gerusalemme. Il processo sembrava inarrestabile. Lo contrassegnava l’ammissione dei torti inflitti al popolo ebraico, la cancellazione dell’accusa di deicidio, il riconoscimento del legame profondo tra la Casa di Israele e la Civitas cristiana: fratelli “maggiori” e “minori”. Questa via dei rapporti era giusta e inevitabile ma, alla lunga, non poteva (non può) bastare. Il riconoscimento di un legame non può arrestarsi alla declamazione ma deve proiettarsi nel futuro e sostanziarsi di fatti nuovi. La doverosa ammissione dei torti inflitti non può tramutarsi in un processo infinito, in un elenco senza fine e continuamente riaperto: nessuno può restare in perpetua penitenza per le colpe compiute dai padri. D’altra parte, nessuno può pretendere di mettere una pietra sopra la storia dell’antisemitismo. Bisogna saper tracciare un confine tra memoria e analisi storica da un lato e azione presente dall’altro: se l’una pesta continuamente i piedi dell’altra diventa impossibile pensare in modo oggettivo il passato e costruire in modo libero il futuro. La memoria è fondamentale ma deve saper essere usata. Viene in mente, al riguardo, quel che scriveva Henri Bergson del cervello: non una macchina per immagazzinare ricordi, ma piuttosto per selezionarli in funzione del nostro slancio vitale, e che ci permette di vivere e costruire il nuovo in quanto esclude dalla nostra visione gran parte del passato che nella sua totalità preme su di noi e ci soffocherebbe. La continua intersezione tra memoria e azione – di cui sono prova le polemiche su Pio XII, sempre in bilico tra storiografia libera dai condizionamenti del presente e polemiche contingenti – è una delle ragioni per cui è impotente il tentativo di esorcizzare con la memoria il ritorno delle intolleranze passate. Il 17 gennaio non si terrà l’annuale incontro ebraico-cristiano, mentre il 27 gennaio dilagherà la Giornata della memoria. Non è un buon risultato. Esso testimonia il prevalere del passato sul presente. Non è la via giusta per superare incomprensioni, combattere i pregiudizi e, in particolare, l’antisemitismo. In fondo, il modo migliore per combattere quest’ultimo è affermare la vitalità positiva della presenza ebraica nel mondo. Il modo migliore di sviluppare i rapporti tra ebraismo e cristianesimo è di rivolgere lo sguardo al futuro. Va riconosciuto al cardinale Ratzinger di aver compreso questa necessità e di aver tentato di superare i limiti del dialogo dei primi decenni. Egli ha preso di petto la questione alla maniesato ra sua, andando oltre i sentimenti e la storia, e affrontando la questione teologica. Il documento del 2001 della Pontificia commissione biblica su “Il popolo ebraico e le sue Sacra Scritture nella Bibbia cristiana” rappresenta il contributo più decisivo in questa direzione. Esso si basa su tre principi: 1) l’Antico Testamento è fondamentale per il cristianesimo, perché ove esso se ne congedasse decreterebbe il suo dissolvimento; 2) cristianesimo e giudaismo si sono divisi sul tema della divinità di Cristo ma questo dissenso deve essere rigorosamente epurato da ostilità che conducano all’antigiudaismo; 3) il dialogo è possibile sulla base di questo patrimonio comune. Dovremmo aggiungere che questo è molto più di un dialogo, perché l’esistenza della matrice comune rende il rapporto inevitabile, imprescindibile. Il libro “Gesù di Nazaret” è uno sviluppo della direzione indicata nel documento del 2001. Non a caso esso ha come nucleo di partenza il confronto con le tesi dell’autorevole rabbino Jacob Neusner. Naturalmente, un simile confronto è possibile se esclude ogni forma di pasticciato sincretismo: esso ha senso se ciascuna parte sta solidamente assisa sulla propria fede. E’ un approccio che dovrebbe essere apprezzato da chi teme la tentazione del proselitismo e del dialogo fatto con l’intenzione di convertire anziché con quella di ascoltare e capire. E in tal senso è stato apprezzato da molti sia in ambito cattolico che ebraico. Per esempio, secondo il rabbino David Berger, una volta rimosso l’“insegnamento del disprezzo” e il suo cardine, la “teologia della sostituzione” – ovvero la tesi secondo cui l’elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita alla Ecclesia cristiana – i cristiani hanno il diritto di affermare che l’ebraismo sbaglia attorno a questioni centrali come quella della divinità di Gesù e hanno anche il diritto di aspirare a che gli ebrei la riconoscano alla fine dei giorni o di affermare che la salvezza è più difficile per chi non è cristiano. Secondo Berger, la posizione ratzingeriana, in quanto evita un “doppio standard”, è più rispettosa per l’ebraismo di molte altre. Ma non tutti l’hanno vista in questo modo, e hanno anzi reagito a questo indirizzo con fastidio, parlando di nuovi tentativi di conversione e di appropriazione. E così è riemerso tutto il vecchio bagaglio delle diffidenze, in una confusa miscela che ha messo insieme le conversioni forzate con la questione di Pio XII e con la preghiera del Venerdì santo, e financo le diffidenze politiche nei confronti del Papa “di destra”. Come spiegare altrimenti l’indulgenza con cui furono accolte certe pesanti dichiarazioni circa “la necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche” (con esplicito e polemico riferimento all’ebraismo) quando venivano dal cardinale Martini, ovvero dalla chiesa “democratica” e “di sinistra Sta di fatto che con il discorso di Ratisbona Benedetto XVI ha mostrato in modo inequivocabile quale matrice culturale desiderava valorizzare: il messaggio etico giudaico-cristiano nella sintesi storica che ha trovato con il razionalismo della cultura greca. Oggi qualcuno ha letto come una rinunzia, come un abbandono, la sua recente dichiarazione che, in senso stretto, il dialogo interreligioso non è possibile. In realtà, quella dichiarazione, da un lato ripropone il consueto richiamo a non cadere nel sincretismo; d’altro lato non riguarda in senso stretto il tema che ci riguarda. Come abbiamo sottolineato, qui parlare di “dialogo” è persino improprio. Difatti, il dialogo avviene tra posizioni che hanno matrici diverse, mentre il rapporto tra ebraismo e cristianesimo si colloca oltre il dialogo: essi hanno una radice comune che può essere oscurata dalle incomprensioni ma è là, solida come una pietra. Chi legge senza pregiudizi e con mente aperta le Sacre Scritture riscopre continuamente come entrambe le fedi si nutrano del medesimo comune patrimonio, in cui primeggia la preoccupazione di porre la verità come base fondamentale dell’esistenza: “Il Signore è vicino a tutti quelli che lo avvicinano./ A tutti quelli che lo invocano in verità” (Salmo 145). E’ stato quindi un errore ritenere che quell’affermazione riguardasse strettamente i rapporti ebraico-cristiani e, in particolare, che escludesse il confronto sul terreno teologico. Che cosa sono stati il documento del 2001 e il libro “Gesù di Nazaret” se non un confronto sul terreno propriamente teologico con l’unica religione con cui il cristianesimo può farlo? Certo, accanto a molti che hanno salutato con favore un approccio di questo genere – come il già citato rabbino Neusner – le resistenze vi sono state e sono state tante. Sarebbe lungo elencarle. Vi è senza dubbio ancora in campo un accanito antigiudaismo cattolico. Ne abbiamo avuto la prova in questi giorni. Tutto va bene fino a che non ti permetti di criticare: alla minima osservazione c’è chi salta su come morso dalla tarantola. Poi c’è il diffuso terzomondismo del mondo cattolico di sinistra che sfocia in un filoislamismo privo di qualsiasi seria base culturale, ostinato fino all’autodistruzione e che finisce col tingersi di antigiudaismo. Delle resistenze in ambito ebraico abbiamo accennato ma per approfondirle converrà fare un’osservazione generale. In un libro, recentemente tradotto in italiano (“L’idea messianica nell’ebraismo”), Gershom Scholem ha ricordato che l’ebraismo si è sempre mosso storicamente attorno a tre forze: conservatrici, restauratrici e utopiche. Le prime mirano a preservare l’esistente e a difendere l’identità ebraica racchiudendola dietro la difesa della “siepe della Torah”, ovvero il rispetto rigoroso dei precetti (Halakhah). Le secondemaniesato perduto. Le terze sono alimentate da una visione utopica del futuro. La tensione messianica, osserva Scholem, si è sempre sviluppata nel campo delle ultime due, mentre la prima non vi ha giocato alcun ruolo, pur avendo avuto una fondamentale funzione nel preservare l’identità dell’ebraismo in esilio. Dal 1945 l’ebraismo europeo si è praticamente dissolto e il baricentro dell’ebraismo mondiale si è trasferito negli Stati Uniti e in Israele. Due erano le componenti principali dell’ebraismo europeo: quella laica e illuministica che aveva abbandonato la tradizione per la cultura scientifica e politica europea, e l’ebraismo della “siepe della Torah”. La tensione messianica aveva poco spazio, anche perché il sionismo era minoritario: in fondo, alla fin fine i dreyfusardi avevano vinto. Nel 1945 l’ebraismo della “siepe della Torah” appare distrutto dal nazismo, l’ebraismo illuminato in parte è distrutto, in parte è dissolto nell’emigrazione o aderisce al sionismo. La Seconda guerra mondiale poteva segnare la fine dell’ebraismo mondiale – e di fatto ne ha segnato la quasi completa dissoluzione in Europa – se il sionismo non avesse rappresentato una nuova vitalità nella direzione dell’utopia messianica. Perciò il fattore vitale dell’identità ebraica contemporanea con cui occorre fare i conti per stabilire un dialogo autentico è, in primo luogo, il sionismo. Accanto a esso, occorre tener conto di tutte quelle correnti dell’ebraismo mondiale che sono attivamente impegnate a sviluppare il senso del messaggio ebraico sulle questioni etiche e morali, secondo il principio bene espresso da Scholem che “un ebraismo vivo non può non opporsi risolutamente al naturalismo”. L’ebraismo della “siepe della Torah”, persa la sua funzione di difesa identitaria a oltranza (che nella società contemporanea è un’illusione senza speranza), non ha interesse né per la questione teologica né per le questioni etiche, in quanto concepisce la religione come un’ortoprassi e perciò risolve in questa le norme etiche e chiude ogni spazio alla dimensione teologica. Nel 1945 l’ebraismo poteva morire se si fosse proposto soltanto come un’isola identitaria che chiedeva al mondo il diritto di sopravvivere senza dare nulla in cambio. Così non è stato, non soltanto perché la cultura ebraica ha continuato a svilupparsi per il mondo (e non per sé stessa) ma, soprattutto, perché è nato Israele. E oggi Israele non è soltanto un rifugio degli ebrei ma un modello di come la democrazia basata sui valori della morale testamentaria e della fiducia nella ragione di matrice greca possa avere ancora senso per il mondo. Ricominciamo di qui: da un confronto su quello che le due religioni possono dare in termini di etica, morale, democrazia e in difesa di quello che è stato conquistato con enormi sacrifici in questi secoli, proprio sulla base dei fondamenti comuni. Ma da parte cattolica occorre accettare il fatto che oggi l’identità ebraica è in primo luogo Israele, e che la premessa per un dialogo senza diffidenza è dire forte e chiaro che la vita di Israele non è materia di trattative.
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