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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera-La Stampa-Il Foglio Rassegna Stampa
10.01.2009 Il voto all'Onu, la tregua, Barack Obama, stragi non avvenute
nei servizi di Molinari,Battistini,Frattini,Rocca

Testata:Corriere della Sera-La Stampa-Il Foglio
Autore: Francesco Battistini-Davide Frattini-Maurizio Molinari-Christian Rocca
Titolo: «Vari»

Dal CORRIERE della SERA  di oggi, 10/01/2009, riprendiamo i servizi di Francesco Battistini, Davide Frattini. Dalla STAMPA, Maurizio Molinari, che riferisce esattamente come la pensa Obama su Hamas. Obama smentisce il Guardin, nella corrispondenza da New York sul FOGLIO in prima pagina.

Corriere della Sera -Francesco Battistini - " Hamas e Israele dicono no alla tregua Onu "

GERUSALEMME — Come siano usciti, non si sa. Come rientreranno, se rientreranno, nemmeno. È pomeriggio, al Cairo. Tre medi papaveri di Hamas spuntano dal deserto. Sono Jamal Abu Hashem, il deputato Salah al Bardawil, Ayman Taha e non vengono dalla Siria, come i soliti emissari. Arrivano da Gaza: è la delegazione mandata a trattare con gli egiziani. Sono passati per un tunnel di Rafah (ma non erano stati tutti distrutti?) e portano l'unica parola che tutti sembrano conoscere: no. Dopo il rifiuto alla proposta Sarkozy e il mezzo rifiuto alla Mubarak-Sarkozy, dopo il veloce benservito a russi ed europei, torna al mittente anche la risoluzione 1860 del Consiglio di sicurezza dell'Onu che francesi, arabi e americani avevano faticosamente incollato l'altra notte, chiedendo «un cessate il fuoco immediato e duraturo ».
Hamas: «Non ci riguarda, non fa i nostri interessi». Il governo israeliano: «L'ennesimo lancio di razzi dimostra che la tregua non è realizzabile. E non sarà mai accettata dalle organizzazioni terroristiche palestinesi ». Poi Meir Sheetrit, ministro israeliano dell'Interno, punta il dito contro gli americani «rei» di non aver mantenuto la promessa di bloccare con il veto la risoluzione (si sono invece astenuti): «Hanno ceduto alle insistenze dei Paesi arabi», dice alla tv pubblica.
Non ce n'è. Il giorno 14 è come il 13: combattimenti nella Striscia, Qassam e Grad (trenta) su Israele. «La pressione su Hamas continua», dice il premier Ehud Olmert, e ogni momento è buono per l'inizio della terza fase, l'offensiva finale nell'abitato di Gaza City. Del piano Onu, quel che da Gerusalemme non accettano è la richiesta di ritirare subito le truppe dalla Striscia.
Hamas non gradisce i controlli sul traffico d'armi dal-l'Egitto e il fatto che non si parli, nella 1860, di fine del blocco economico imposto a Gaza. Mancano dieci giorni all'insediamento di Obama e anche se la ministra degli Esteri, Tzipi Livni, chiarisce che «agiamo solo sulla base delle nostre valutazioni », ci sono valutazioni ineludibili. Una è la questione umanitaria: secondo l'Organizzazione mondiale della salute, c'è un rischio epidemie legato all'impossibilità dei medici di muoversi sotto le bombe, alla rottura delle fogne (diarree e malattie virali) e alla sospensione delle vaccinazioni dei bambini, che potrebbe «rendere anche letali malattie facilmente evitabili come il morbillo, l'epatite e la polio». Onu e Croce Rossa hanno ricevuto garanzie da Israele che i loro mezzi non verranno più colpiti, anche se pure fra gli umanitari circola il sospetto che qualche caso (vedi i colpi sul convoglio dell'Unrwa) sia stato creato ad arte da cecchini di Hamas. La Corte suprema israeliana è comunque intervenuta a chiedere spiegazioni a Tsahal sui ritardi nell'evacuazione dei feriti e sul blocco dell'elettricità nella Striscia. «È difficile evitare di colpire civili in una zona così popolata », dice il segretario uscente americano, Condoleezza Rice.
Nelle ultime sparatorie, è finita anche la scuola delle suore cattoliche. E l'altra mattina è morto Ihab al-Wahidi, un pezzo di storia della Palestina. Fu il fotografo personale di Arafat, immortalò il suo capo con decine di capi di Stato. L'hanno trovato fra le macerie. Sepolto coi suoi scatti.
Nella capitali arabe, ieri, «venerdì di rabbia per Gaza». Al termine della preghiera, imponenti manifestazioni hanno invaso le strade di tutto il mondo arabo- musulmano, da Algeri a Bagdad, a Giacarta.

Davide Frattini -" Lo Stato ebraico ora teme < finiti i giorni di grazia >

GERUSALEMME — Deserto del Negev, trentaquattro gradi, l'aria che si incolla addosso. A Sderot, ricordano ancora che Barack Obama, in pieno luglio, non perdeva una goccia di sudore e ricordano le parole dell'allora candidato: «Se qualcuno tirasse razzi sulla mia casa, dove le mie figlie dormono la notte, farei qualsiasi cosa in mio potere per fermarli ».
Per gli israeliani quella frase è stata una bandiera, adesso ci si aggrappano come alla coperta di Linus. Il governo di Ehud Olmert comincia a sudare. «Abbiamo perso i giorni di grazia, l'insediamento di Obama si avvicina e sarà lui a discutere i termini del cessate il fuoco», commenta una fonte da Gerusalemme. Altri sono convinti che sia già lui a decidere. «La sua influenza si fa sentire sul comportamento di Condoleezza Rice — scrive Amir Oren sul quotidiano
Haaretz —. Lei sta cercando di lasciare un ricordo migliore, mostrando una posizione moderata che la distingua da George W. Bush ».
Il segretario di Stato americano — ironizzano gli analisti — è più impegnata a scrivere le memorie che il documento per l'accordo di tregua. «La sua motivazione a immergersi nella acque sporche del Medio Oriente nella fase finale — commenta Alex Fischman su Yedioth Ahronoth
— non è altissima. E' chiaro a Olmert che la data limite è il 20 gennaio. Da quel giorno le regole del gioco potrebbero cambiare».
Gli israeliani sperano che la continuità diplomatica arrivi da James Jones. Inviato nella regione dalla Rice, ha coordinato l'irrobustimento delle forze di sicurezza palestinesi legate al presidente Abu Mazen. Il generale dei marines in pensione è stato scelto da Obama come consigliere per la Sicurezza nazionale. «In queste settimane la voce che si sente— continua Amir Oren — è quella della Rice, le mani che si muovono sono quelle di Jones. La strategia è già coordinata con la nuova amministrazione ». I quindici uomini che siedono nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno imparato a riconoscere la donna che indossa sempre tailleur, i capelli argento tagliati corti. Al Palazzo di Vetro, lo Stato ebraico è per la prima volta rappresentato da un'ambasciatrice: Gabriela Shalev, giurista specializzata in negoziati, arrivata solo a giugno e che si è ritrovata ad affrontare la crisi. «All'Onu i diplomatici si aspettano un grande cambiamento di linea — spiega ad Haaretz — con l'arrivo di Susan Rice come ambasciatrice per gli Stati Uniti. E' molto vicina a Obama ».
L'offensiva nella Striscia di Gaza va avanti, anche dopo il voto del Consiglio di sicurezza. «Abbiamo una lunga storia di risoluzioni ignorate — commenta Ben Caspit su Maariv —. Ma così non offriamo a Barack Obama un bel regalo di benvenuto e rischiamo di far cominciare la relazione con il piede sbagliato».
Il primo test sono considerate le audizioni di Hillary Clinton, per la conferma della nomina a segretario di Stato. «Che cosa dirà della guerra nella Striscia? — si chiede Shmuel Rosner sul Jerusalem Post —. Dobbiamo rendere la vita migliore per i palestinesi e più sicura per gli israeliani. Dobbiamo appoggiare i moderati contro gli estremisti. Insomma, dirà quello che avrebbe detto Condoleezza Rice, se fosse stata riconfermata ».
Onu - L'ambasciatrice israeliana Gabriela Shalev e Condi Rice



Corriere della Sera - Francesco Battistini .- " Rinchiusi nel deposito e poi bombardati. Israele: Mai sparato "

GERUSALEMME — Un magazzino colpito, trenta morti, decine di feriti.
Ancora a Zeitun. Il sobborgo di Gaza City dove giovedì erano state trovate quattro larve di bambini, vivi, intorno alla mamma morta da giorni. Il luogo dove ora si racconta di un'altra casa degli orrori. Un caso che arriva all'Onu e probabilmente porterà a un'inchiesta: 110 civili, donne, vecchi, bambini, sarebbero stati costretti nei rastrellamenti israeliani a lasciare le loro abitazioni e a rinchiudersi tutt'insieme in una specie di deposito, ventiquattr'ore, per poi venire bombardati. L'ufficio per gli Affari umanitari delle Nazioni Unite non ha dubbi, parla d'«inaccettabile violenza su persone indifese». Un portavoce dell'esercito israeliano, il maggiore Jacob Dalal, sostiene che l'episodio non è vero: «Stiamo facendo le verifiche. Ma non ci risulta che in quel giorno sia mai stato impartito l'ordine d'evacuare un palazzo di civili, né di trasferirne gli occupanti in un altro luogo. Non c'è mai stato un ordine specifico di colpire abitazioni civili con l'insistenza descritta. Abbiamo fatto anche un controllo negli ospedali di Gaza: non risulta un evento com'è stato raccontato».
Abbiamo raccolto la testimonianza di uno che c'era: Ahmad Talal al Samuni, 23 anni, insegnante di religione. Quella mattina del 5 gennaio ha perso padre, madre, diciotto parenti. Ecco la sua versione: «Da sei mesi, da quando mi sono sposato, abitavo in una casa di tre piani a Ezbet al Samun, zona sud di Zeitun. Con me c'erano mia moglie, i miei sei fratelli, le loro cinque mogli, i bambini. Più di venti persone. Il primo bombardamento comincia il 3 gennaio, di pomeriggio. Dal mare, dal cielo, da terra. Pesante. Ci rifugiamo tutti al pianoterra, 12 metri per sei. La sera, la notte, non fanno che sparare. I proiettili entrano in casa, centrano il terrazzo. Stiamo tutti abbracciati, non dorme nessuno. Domenica all'alba, arrivano due altre famiglie, Abu Adnan e Nafez al Samuni, con dodici bambini. Alle 7, il mio vicino Faris al Samuni mi chiama, grida che il terzo piano sta bruciando. Saliamo, proviamo a spegnere le fiamme. Inutile. Quando scendo, da una finestra vedo una ventina di soldati, hanno accette in mano e grandi jeep, la faccia sporca di nero. Stanno lì fuori, mentre la mia casa brucia. Alle sette e mezzo, battono alla porta. Ci puntano le armi, dicono a mio padre che dobbiamo uscire tutti. Obbediamo. Camminiamo 600 metri verso est, sulla Salah Eddin, e raggiungiamo il magazzino d'un parente, Wael al Samuni. C'è solo un muro intorno, una piccola entrata, un grande spazio. Saranno 200 metri coperti. Ci mettiamo lì. Un'ottantina di persone, credo. La domenica 4 passa senza cibo, né acqua. E la sera si dorme per terra, senza coperte. Uomini, donne, bambini, tutt'insieme al freddo. Fuori sparano così forte che non riusciamo a distinguere gli Apache dai tank. È una notte orrenda. Mia moglie ha la febbre, i miei fratelli vomitano. Non c'è nemmeno un po' di latte per i bambini. Arriva così il lunedì mattina, 5 gennaio. Alle 6 e mezzo, c'è un'esplosione alla porta: mio cugino Muhammad, 25 anni, muore subito. Poi arrivano altri colpi dall'alto: uccidono la moglie di mio fratello, Maha, 20 anni, incinta di due mesi. Altre esplosioni. C'è un fumo nero, denso. Non riesco a vedere le mie dita. Però vedo un corpo senza testa, lo riconosco dai vestiti: è mia madre. Si chiamava Rahmeh. Aveva 45 anni. Ci sono cadaveri tutt'intorno. Dico: Dio, dammi la forza d'uscire vivo. Appena si fermano i colpi, scappiamo fuori. Siamo una cinquantina.
Qualcuno è ferito. Mia nonna Shifa ha 72 anni, molto malata, non può muoversi, non c'è tempo di portarla: la lasciamo lì. Camminiamo due chilometri. Mio fratello Iyad sanguina alle gambe, gli stringo dei lacci. Passa una macchina. Alt! Lo caricano con altri sei. Lo portano all'ospedale Al Quds. Prima d'andarmene ho contato 25 morti. Dieci adulti. Gli altri, bambini. Mia nipotina Sala aveva 5 anni e un'enorme ferita alla testa. Ha roteato gli occhi, ha detto: "Baba! Baba!". Mi è morta davanti. Non ho mai visto ammazzare così la gente. Dio punisca chi ha fatto questo. Ma il Dio vero, non quello di cui parla Hamas. Loro se ne stanno a Gaza nei rifugi, o a Damasco a dare ordini. Hanno da mangiare, sono al sicuro. Dicono a noi di resistere, di gridare slogan. Hamas è la nostra disgrazia. Non c'è resistenza che possa fermare le armi sofisticate. E se la tempesta è troppo forte, devi pensare alla gente che non può ripararsi. Il giorno del funerale, un uomo ha detto che dovremmo andare tutti nelle strade di Gaza. Tenerci per mano. Dire una sola cosa a israeliani e a Hamas: piantatela di ammazzarci».

La Stampa - Maurizio Molinari - " Obama con me mai più tortura"

CORRISPONDENTE DA NEW YORK
Barack Obama presenta il team dei capi dell’intelligence e parla per la prima volta di politica estera in qualità di presidente eletto: niente torture, rispetto della Convenzione di Ginevra, dialogo con Teheran, nessun dialogo con Hamas, attenzione verso l’Asia e largo ai giovani al Dipartimento di Stato.
La scelta di tempi e modi svela l’approccio di Obama ai temi della sicurezza. L’occasione è la presentazione della «troika» che ha scelto per difendere l’America e anzitutto descrive la realtà in cui opereranno: «Un mondo di minacce non convenzionali, dalla diffusione di network di terroristi senza patria alle armi di distruzione di massa, ai gravi pericoli posti da Stati falliti e regimi canaglia». Il linguaggio è quello della guerra al terrorismo iniziata dopo l’11 settembre. Per affrontarla Barack parte dall’intelligence perché è stato questo il tallone d’Achille dell’amministrazione Bush.
«Avere una buona intelligence non è un lusso ma è una necessità - dice Obama - perché l’11 settembre abbiamo appreso che a proteggerci non ci sono gli oceani o la nostra capacità di deterrenza verso il nemico». L’intelligence di qualità dunque è la priorità assoluta. Da qui la scelta dei nuovi capi. L’ex ammiraglio Dennis Blair, nuovo direttore nazionale delle 16 agenzie di intelligence, «ha appreso di persona la necessità di buone informazioni per chi veste l’uniforme» e quindi la sua nomina lascia intendere un più stretto rapporto fra 007 e Pentagono. Ma Blair è anche l’ex comandante delle forze Usa nel Pacifico e «conosce profondamente l’importanza critica dell’Asia», il primo continente di cui Obama parla, forse preludio a importanti passi con Pechino.
Subito dopo Obama passa a Leon Panetta, il californiano di origini calabresi designato alla guida della Cia, che definisce uno «dei funzionari pubblici migliori del nostro tempo» sottolineando che quando era alla Casa Bianca come capo di gabinetto con Bill Clinton «dimostrò completa integrità in momenti critici». È la qualità che non ebbe George Tenet, capo della Cia ai tempi dell’attacco all’Iraq. L’ultimo uomo della «troika» è John Brennan, un veterano della Cia, che diventa consigliere del Presidente per la sicurezza interna. Obama ne loda l’«esperienza e la visione» e tanto basta perché si tratta di un nome di forte continuità con l’intelligence di Bush, al punto da essere inviso alla sinistra liberal.
Sono le domande dei giornalisti nel botta e risposta finale a consentire a Obama di recapitare gli altri messaggi preparati dallo staff per l’occasione. Primo: «Durante la mia amministrazione non sarà tollerata la tortura» e dunque cambieranno i metodi di interrogatorio della Cia con l’abolizione del «waterboarding», l’affogamento simulato. Secondo: «Rispetteremo la Convenzione di Ginevra» e di conguenza sarà smantellato il carcere di Guantanamo. Terzo: «L’Iran è una seria minaccia per la sicurezza nazionale americana ma dobbiamo adoperare la diplomazia come meccanismo per raggiungere i nostri obiettivi» e dunque si avvicina il momento dell’apertura all’Iran.
La curiosità dei media si concentra sulle indiscrezioni del quotidiano britannico «Guardian» sull’intenzione di aprire ad Hamas ma Obama non ne parla perché la smentita è stata recapitata poco prima dal portavoce Brooker Anderson: «Obama ha ripetuto spesso che Hamas è un’organizzazione terroristica che punta alla distruzione di Israele, non dobbiamo trattare con loro fino a quando non riconosceranno Israele, non rinunceranno alla violenza e non rispetteranno gli accordi esistenti» fra Israele e Autorità palestinesi. Insomma, la stessa posizione del Quartetto (Usa, Onu, Russia e Unione Europea).

Il Foglio - " Barack non tratta " Obama smentisce il Guardian:

New York. Il quotidiano inglese The Guardian, citando fonti anonime, ha scritto che Barack Obama è pronto ad avviare una trattativa con Hamas, una volta entrato alla Casa Bianca. Il giornale sostiene che Obama vorrebbe autorizzare colloqui a basso livello con i leader islamisti, forse addirittura con inviati segreti e incontri coperti. Ieri Obama ha fatto smentire categoricamente, rompendo per la prima volta il silenzio sulle questioni di politica estera che si è imposto fino al 20 gennaio. La sua posizione, del resto, è esattamente opposta. In campagna elettorale, mentre l’ex presidente Jimmy Carter incontrava i leader di Hamas in Siria, Obama aveva detto che “Hamas non è uno stato, ma un’organizzazione terrorista. Non dobbiamo negoziare con un gruppo terrorista sull’intenzione di distruggere Israele, ci dobbiamo sedere a un tavolo con Hamas se rinunciano al terrorismo, riconoscono il diritto all’esistenza di Israele e rispettano gli accordi passati”. Quando ha scoperto che un suo consigliere, Robert Malley, aveva incontrato i capi di Hamas, l’ha licenziato. Obama, però, ha vinto le primarie del Partito democratico promettendo di incontrare “senza condizioni” i nemici dell’America e questo sarà l’approccio della sua Amministrazione, influenzato dalle idee di Brent Scowcroft e Zbigniew Brzezinski. Ma il presidente eletto ha sempre escluso che il gruppo islamista possa rientrare nella lista: “Non include Hamas – ha detto a maggio alla Abc – Non sono capi di stato, credo sia totalmente legittimo fare distinzione tra i capi di un paese e chi propugna il terrorismo”. Il partito di Obama, intanto, giovedì sera al Senato, ha votato all’unanimità, assieme ai repubblicani, una mozione dal titolo “sostegno a Israele nella sua battaglia con Hamas e al processo di pace israelo-palestinese” che è la più ferma e decisa dichiarazione di solidarietà a Israele che si potesse scrivere in un documento pubblico. La squadra di politica estera assemblata da Obama è sulla stessa linea, a cominciare da Hillary Clinton. A Washington si dice che l’inviato in medio oriente sarà Dennis Ross, già mediatore ai tempi di Bill Clinton e, a nel 2000 Camp David, testimone della precisa volontà di Yasser Arafat di non concludere un accordo di pace. Con lui ci sarà il mastino Richard Holbrooke a formare la coppia di diplomatici più tosta possibile, nel caso di colloqui con Hamas e Iran.

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