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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
09.01.2009 Lancio di razzi dal Libano contro Israele
Le cronache di Davide Frattini e Francesca Paci, le analisi di Fiamma Nirenstein e del Foglio, le dichiarazioni del generale Graziano

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - un giornalista - Reuel Marc Gerecht - Davide Frattini - Francesca Paci - un giornalista
Titolo: «Razzi dal Libano, per Gerusalemme l'incubo del secondo fronte, Troppo poco e troppo tardi. Hezbollah non è d'aiuto per Hamas, Teheran (sciita) sostiene Hamas (sunnita) per scalzare i sauditi e farsi perdonare dai Fratelli musulmani , Karmon ci spiega la g»

Razzi dal Libano, per Gerusalemme l'incubo del secondo fronte, Troppo poco e troppo tardi. Hezbollah non è d'aiuto per Hamas, Teheran (sciita) sostiene Hamas (sunnita) per scalzare i sauditi e farsi perdonare dai Fratelli musulmani , Karmon ci spiega la guerra contro l' asse della instabilità , Razzi katiusha dal Libano su Israele: il nord e il sud, un unico fronte , I terroristi s'illudono, i razzi dal Libano non ci piegheranno , Il generale Graziano chiede moderazione

Pubblichiamo una serie di articoli sul lancio di razzi Katiusha dal Libano su Israele. Sul GIORNALE di oggi, 09/01/2009, a pag. 8, l'analisi di Fiamma Nirenstein " Razzi dal Libano, per Gerusalemme l'incubo del secondo fronte "

David Berger, un sopravvissuto alla Shoah che per un miracolo non è stato colpito dal katiusha piombato sul suo ospizio a Naharia, dopo il botto ha indossato la giacca a vento arancione e blu, ha preso la porta e a suo figlio, che era corso a prenderlo, ha detto: «Io là dentro non ci torno più». Ma il problema non è l’ospizio colpito, i suoi due ospiti feriti e i tre altri ricoverati dopo che tre katiusha lanciati dal Libano erano atterrati nella loro casa: il fatto è che per Israele intento al combattimento al sud, nella Striscia di Gaza, l’apertura di un eventuale fronte nord, ovvero una eventuale terza guerra libanese, di un micidiale faccia a faccia con gli Hezbollah, i migliori amici degli iraniani e dei siriani, armati con 42mila missili, sarebbe una avventura strategica molto difficile. Quando, alle otto meno dieci di ieri sono piombati su Israele i razzi che per anni, fino alla guerra del 2006, hanno ossessionato le gente del nord, Israele ha fatto sapere che comunque era pronta a ogni evenienza, e che riteneva il governo libanese responsabile di qualsiasi attacco al suo Paese. L’esercito ha piazzato anche alcuni colpi di artiglieria nella zona da cui erano giunti i missili, giusto per far sapere che ne aveva identificato la provenienza: erano gli stessi luoghi dove il 28 dicembre erano stati trovati otto razzi già puntati verso Israele. Dopo qualche ora di allarme, le autorità hanno esortato la cittadinanza a tornare alla vita normale, e hanno dato segno di souplesse, mentre i soldati italiani dell’Unifil, la forza internazionale delle Nazioni Unite che presidia la zona, rafforzavano i pattugliamenti.
Intanto gli Hezbollah sostenevano di non avere niente a che fare con i missili, un loro ministro, Mohammed Feish, negava qualsiasi coinvolgimento, il primo Ministro Fuad Seniora condannava l’accaduto e Abu Mazen dichiarava di sperare che si trattasse di un evento isolato. Né Israele né il Libano hanno interesse a una guerra. Solo alcuni gruppi palestinesi, dalle loro basi libanesi e siriane, non negavano né confermavano. Ma è quasi impensabile che chicchessia possa lanciare dal Libano del sud qualsivoglia ordigno contro Israele senza il permesso di Hezbollah e senza che esso gli fornisca i mezzi per farlo. Nasrallah ha minacciato che, a fronte di un nuovo attacco israeliano contro il Libano, avrebbe fatto apparire la guerra del 2006 come un scampagnata.
Ma soprattutto, con una manifestazione dei suoi sotto l’ambasciata egiziana a Beirut, coperta di insulti e minacce, ha deciso di sferrare una guerra anche contro l’Egitto, il nemico moderato dei suoi amici estremisti. L’ha accusato di aver abbandonato vilmente Hamas, rivendicando di essere il suo autentico scudo. I razzi provenienti dalla sua zona, dunque, chiunque li abbia lanciati, sono in linea con il suo volere. Tuttavia, strizzando l’occhio, Nasrallah lascia che i palestinesi li rivendichino. Hezbollah, infatti, che dall’accordo di Doha dello scorso maggio ha diritto di veto sulle scelte del governo e che ha lucrato potere politico sulla guerra del 2006 e sul vergognoso scambio fra i corpi dei soldati rapiti, Regev e Goldwasser, e l’arciterrorista Samir Kuntar, vuole arrivare alle elezioni, che si terranno fra 6 mesi, senza portare con sé la responsabilità di un’eventuale reazione israeliana a un attacco più cospicuo. Ma vuole anche essere il feroce paladino di Hamas, quello che mentre tutti chiacchierano, agisce. Ma agisce poco, perché altrimenti distruggerebbe la strategia di istituzionalizzazione che potrebbe consentire al suo fronte di conquistare il Libano alle prossime elezioni.

Dalla prima pagina del FOGLIO l'interessante analisi " Troppo poco e troppo tardi. Hezbollah non è d'aiuto per Hamas " 

Gerusalemme. Douglas Bloomfield racconta sul Jerusalem Post il briefing riservato dell’uomo della Cia a un gruppo di pochi membri del Congresso americano, nel 1981, dopo il bombardamento israeliano contro il reattore nucleare di Saddam. “Che stanno facendo i paesi arabi, come stanno reagendo?”. “Buuando”, dice l’uomo Cia. “Buuando? E’ una parola araba?”. “No, vuol dire che si limitano a fare buuu in pubblico”. Ieri mattina presto è sembrato che Hezbollah, dal sud del Libano, avesse smesso al quattordicesimo giorno di guerra – finalmente, direbbe Hamas – di limitarsi a fare buuu. Cinque razzi da 120 millimetri: due hanno colpito la cittadina di Nahariyah, nel nord di Israele, uno ha centrato il tetto di un ospizio, è esploso fra le cisterne d’acqua, ha devastato le camere per fortuna vuote e ha terrorizzato gli anziani a colazione al piano di sotto, in sala da pranzo. La prima spiegazione è lo scattare, in ritardo, della tenaglia contro Israele: il piano di accerchiamento in cui Teheran getta uomini e denaro da anni, gli sciiti libanesi di Hezbollah da nord e i sunniti di Hamas da sud, dalla Striscia. L’attacco, attribuito non a Hezbollah ma a gruppi radicali palestinesi, potrebbe avere ragioni più complesse. Di sicuro il lancio è avvenuto con il consenso degli hezbollah, che – a differenza del contingente Unifil – controllano bene il territorio: ieri hanno scelto di chiudere un occhio. In questo modo, i palestinesi radicali, presenti in massa nei campi profughi di Tiro e Sidone, hanno manifestato la loro solidarietà bellica a Hamas, sotto attacco a Gaza; e Hezbollah evita la rappresaglia militare di Israele – solo cinque colpi di cannone di avvertimento contro l’area di partenza dei katiusha – a meno di sei mesi dalle elezioni libanesi a cui tiene tanto. Hezbollah non riconosce la paternità dell’azione e un reporter “con contatti”di al Jazeera spiega che il Partito non usa più quel tipo di missili, troppo obsoleto, e che ne avrebbe sparati centinaia, non cinque. Dopo il lancio di ieri mattina, il discorso minaccioso del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, pronunciato la sera prima – “Se Israele ci attacca la nostra risposta farà sembrare la guerra del 2006 una gita nel parco” – assume un significato meno banale: “Non ci assumiamo la responsabilità del lancio di razzi, ma combatteremo in caso di rappresaglia”. Del resto anche il presidente del Parlamento libanese, Saad Hariri, aveva assicurato che Hezbollah non intende intervenire per aiutare Hamas sotto attacco (rassicurazione arrivata a lui non da Hezbollah, ma dal segretario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale dell’Iran, Saeed Jalili). Anche l’Iran si trattiene. Nonostante i continui incontri al vertice tra iraniani, siriani e leadership “in esilio” di Hamas – tutti fra le mura dell’ambasciata iraniana a Damasco, la centrale di comando del fronte anti Israele – Teheran non aiuta i miliziani di Gaza. Ieri il fratello del presidente Mahmoud Ahmadinejad è andato all’aeroporto internazionale della capitale iraniana per sciogliere il sit-in di aspiranti volontari suicidi in partenza per la Striscia: “Non andrete da nessuna parte”. Il generale Muhammad Ali Jafaari, capo dei pasdaran, così li ha consolati: “Il vostro sia un jihad mentale e politico”. Se i lanci da nord dovessero proseguire nei prossimi giorni, vorrà dire che Hamas a Gaza non ha proprio più risorse e chiede agli alleati uno sforzo disperato. Ma vorrà anche dire che la soluzione di peacekeeper internazionali in Libano si dimostra poco efficace, e getta un ombra anche sul piano franco-egiziano per Gaza, ieri rigettato da Hamas: “Poco solido”.

Sempre sul FOGLIO , a pag. 1 dell'inserto, due articoli che evidenziano le responsabilità dell'Iran, mandante sia di Hezbollah sia di Hamas .

Reuel Marc Gerecht, " Teheran (sciita) sostiene Hamas (sunnita) per scalzare i sauditi e farsi perdonare dai Fratelli musulmani "

Chiunque abbia una certa conoscenza del medio oriente sa benissimo che i radicali sunniti e sciiti non lavorano mai fianco a fianco… Ehm, ogni tanto invece sì. La prova che la communis opinio è del tutto sbagliata ce la offre la città di Gaza, dove proprio in questo momento si sta svelando il destino manifesto della Repubblica islamica dell’Iran. Teheran aiuta e finanzia Hamas ormai da parecchi anni con l’obiettivo specifico di radicalizzare la politica in tutto il medio oriente arabo. E ora la risposta di Israele alle migliaia di razzi lanciati da Hamas sembra destinata a farlo diventare realtà. Il 12 dicembre scorso il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ha partecipato a una dimostrazione anti israeliana a Teheran: un’immagine lo ritrae davanti a un poster del defunto leader spirituale e fondatore di Hamas, lo sheikh Ahmed Yassin. Nata negli anni Ottanta dalle macerie dell’Olp e dal suo corrotto e decadente nazionalismo laico, Hamas è un movimento islamico sunnita che ha permesso all’Iran sciita di diventare un protagonista di primo piano nel conflitto israelo-palestinese. Prima della nascita di Hamas, i mullah iraniani avevano finanziato il Jihad islamico palestinese e i suoi attentatori suicidi. Ma quest’organizzazione è rimasta ai margini della società palestinese. Come hanno dimostrato le elezioni del 2006, la grande maggioranza della popolazione è schierata dalla parte di Hamas. Anche se in occidente è spesso sottovalutato, lo slancio ecumenico della rivoluzione iraniana è sempre rimasto un elemento costante dell’atteggiamento iraniano nei confronti dei musulmani sunniti. Alla retorica anti sciita di molti gruppi fondamentalisti sunniti l’élite dominante iraniana non ha quasi mai replicato con decisione. Fin dalla morte dell’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1989, i mullah al potere hanno cercato costantemente di attenuare il contenuto settario del proprio messaggio militante. Il successore di Khomeini, Ali Khamenei, ha unito alla sua tradizionale violenta retorica anti americana (il “Grande Satana” di Khomeini è diventato addirittura la “incarnazione di Satana”) un appello globale ai fedeli musulmani invitandoli a unirsi per la battaglia contro gli Stati Uniti e i loro alleati. Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, il politico più capace dei religiosi protagonisti della rivoluzione, quando è stato presidente del Parlamento e poi presidente del paese (1989-1997), ha ripetutamente appoggiato e organizzato manifestazioni congiunte di sciiti e sunniti. Al pari di Khamenei, con il quale ha collaborato strettamente su questioni di sicurezza nazionale autorizzando tutte le principali operazioni terroristiche compiute dopo la morte di Khomeini, Rafsanjani è un politico estremamente pragmatico, pronto a fare compromessi persino con i radicali sunniti più fortemente anti sciiti. I collegamenti con al Qaida L’ala più radicale dell’organizzazione del Jihad islamico egiziano e il suo membro più famoso, Ayman al Zawahiri, sono stati negli anni Ottanta e Novanta uno dei soggetti preferiti dal regime iraniano per i manifesti propagandistici, anche se il Jihad islamico, esattamente come altri gruppi estremisti sunniti, maledice gli sciiti quasi con lo stesso gusto con cui maledice gli infedeli occidentali. I lasciapassare concessi dall’Iran a membri di al Qaida prima dell’11 settembre 2001 (si veda il rapporto della Commissione per l’11 settembre), l’addestramento dei combattenti di al Qaida da parte dell’Hezbollah sciita libanese (si veda ancora il medesimo rapporto) e la “detenzione” di importanti membri di al Qaida fuggiti dall’Afghanistan dopo l’invasione americana non sono che le tre ultime tessere dell’ormai trentennale impegno profuso dai mullah iraniani per guadagnare il favore di tutti i sunniti radicali che odiano gli americani ancor più di quanto detestano gli sciiti. Nel 2003 l’Iran ha aperto due canali televisivi satellitari in lingua araba, affidando la direzione di entrambi all’ex comandante delle guardie rivoluzionarie Ali Larijani, un elegante e forbito puritano con un PhD in filosofia, che per un breve periodo, all’inizio degli anni Novanta, ha permesso una certa apertura intellettuale nel mondo dei media iraniani. Pupillo di Khamenei, Larijani ha dato grande spazio a servizi che inneggiavano ad Hamas, esaltavano gli attentatori suicidi, propagandavano l’antisemitismo e esortavano a un’insurrezione generale di tutti i musulmani in Iraq. La sorprendentemente moderata retorica iraniana contro gli arabi che dal 2004 al 2007 hanno appoggiato apertamente gli insorti che massacravano gli sciiti iracheni è strettamente legata alla determinazione di Teheran di mantenere l’attenzione dei musulmani concentrata sulla questione più importante: la lotta contro l’America e Israele. L’appoggio fornito dall’Iran a Hezbollah nella guerra del luglio 2006 contro lo stato d’Israele (conflitto scatenato in sostanza dalla stessa Teheran e dalla sua alleata Siria attraverso l’aggressivo sostegno militare dato a Hezbollah) ha contribuito a distrarre ulteriormente le attenzioni dei sunniti dalle lotte intestine che si stanno combattendo in Iraq. La guerra in Libano del 2006, durata 34 giorni, nella quale le forze di Hezbollah, addestrate dagli iraniani, hanno messo in grave difficoltà l’esercito israeliano, ha fatto del pupillo preferito di Teheran, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, uno degli uomini più ammirati in tutto il mondo arabo sunnita. Si tratta di un sorprendente successo se si considera che Hezbollah aveva aiutato l’Iran ad addestrare un certo numero di militanti sciiti che, in quel medesimo anno, stavano compiendo terribili massacri degli arabi sunniti di Baghdad – una carneficina costantemente mostrata sulla tv satellitare araba. Il massacro di Hafez Assad a Hama Autorevoli leader sunniti, tra cui lo stesso presidente egiziano Hosni Mubarak e il re di Giordania Abdullah, hanno protestato contro questo “arco di potere sciita” che si sta formando in medio oriente, ma la loro voce non ha ricevuto grande attenzione al di fuori dei media controllati dallo stato. Nonostante i governanti arabi sunniti abbiano talvolta mostrato notevole preoccupazione per la prospettiva di un Iran dotato di bomba atomica, le organizzazioni fondamentaliste sunnite affiliate ai Fratelli musulmani, la casa madre di tutti gli islamisti sunniti, hanno mantenuto un atteggiamento particolarmente moderato e conciliante. Grazie ai suoi stretti legami con i gruppi fondamentalisti egiziani, Hamas ha dato all’Iran un importante alleato all’interno delle cerchie fondamentaliste dei Fratelli musulmani. Finora, infatti, una delle principali delusioni della rivoluzione iraniana è stata la sua incapacità di raccogliere un significativo numero di sostenitori tra i membri dei Fratelli musulmani e delle numerose organizzazioni ad essi affiliate. La rivoluzione è stata certamente un modello d’ispirazione per molti esponenti dei movimenti fondamentalisti egiziani e siriani. Ma i rapporti dell’Iran con l’élite alawita dominante in Siria (una setta sciita eretica che i fondamentalisti sunniti detestano profondamente) ha reso più difficile l’opera di propaganda tra i militanti sunniti. Quando, nel 1982, il dittatore siriano Hafez Assad fece massacrare migliaia di fondamentalisti sunniti nella città di Hama senza che i capi della rivoluzione iraniana sollevassero alcuna protesta, la reputazione di Teheran tra i Fratelli musulmani è crollata quasi completamente. La seconda chance di Abu Mazen Con Hamas, l’Iran ha l’opportunità di farsi perdonare. I mullah hanno l’occasione per prendere il posto dell’Arabia Saudita, la fonte del più virulento odio anti sciita, come principale sostenitore dei fondamentalisti palestinesi. Ancor più del libanese Hezbollah, che rimane legato e ostacolato dai complicati meccanismi della politica libanese, Hamas sembra capace di assorbire enormi perdite nel suo jihad contro Israele. Mentre l’Arabia Saudita si è mostrata indecisa e a disagio in occasione delle lotte intestine tra i palestinesi (finanziando tanto Hamas quanto l’Autorità palestinese di Abu Mazen), l’Iran si è schierato apertamente a favore di Hamas. Anche se Fatah (la fazione dominante all’interno dell’Anp) potrebbe ottenere una seconda chance a causa degli eccessi compiuti da Hamas e delle perdite subite a causa di Israele, che ne ha eliminato gran parte dei quadri direttivi, è difficile che questa fazione riesca nuovamente a affermarsi come un’auspicabile alternativa politica agli occhi dei palestinesi Fatah è irrimediabilmente corrotta, spesso spietata e priva di una raison d’etre ispiratrice: una Palestina formata esclusivamente dalla Cisgiordania e da Gaza è, come Hamas ha correttamente sottolineato, una prospettiva storicamente inadeguata e un caos geografico. Fatah riesce a suscitare entusiasmo soltanto quando dà voce alle sue più profonde radici anti israeliane e antisemite. Se Hamas riesce a sopravvivere all’attuale attacco israeliano, il suo fascino diverrà assolutamente invincibile. E l’influenza dell’Iran tra i palestinesi potrebbe aumentare in modo esponenziale. Attraverso Hamas, Teheran potrebbe riuscire a ottenere il premio più alto, l’adesione dei fedeli egiziani. Per ragioni antiche e moderne, l’Egitto è probabilmente il paese con l’identità religiosa più ben disposta verso gli sciiti di tutto il mondo arabo sunnita. Finché Hamas rimane al centro delle aspirazioni palestinesi – e, se non perde il proprio controllo militare su Gaza, continuerà certamente a monopolizzare l’attenzione dei media arabi e occidentali – la politica egiziana è destinata a restare oscillante e potenzialmente imprevedibile. Teheran non si fa alcuna illusione sulla forza e la solidità della dittatura militare egiziana, ma in questo momento in Egitto c’è maggiore incertezza di quanta ce ne sia mai stata fin dall’assassinio di Anwar Sadat nel 1981. Il presidente Hosni Mubarak, successore di Sadat, è ormai vecchio e in precarie condizioni di salute. Potrebbe succedergli suo figlio o un generale. Nessuna delle due possibilità sarà in grado di ripristinare la legittimità del regime, che è ormai screditata anche tra l’élite più occidentalizzata. La popolarità e l’influenza dei Fratelli musulmani, che sarebbero probabilmente i vincitori nel caso di libere elezioni, continuano ad aumentare. I disordini e le violenze di Gaza, dove i fedeli musulmani appaiono sulla tv in costante lotta contro gli odiati ebrei, potrebbero far salire ulteriormente le tensioni che già caratterizzano la politica egiziana. Le probabilità di un crollo del regime egiziano sono minime (se provocato, lo stato egiziano reagisce con feroce autorità e severità poliziesca), ma tuttavia sufficienti per giustificare l’impegno degli iraniani. Se l’ayatollah Khomeini credeva nella forza rivoluzionaria del soft power (si pensava che l’esempio iraniano avrebbe provocato il rovesciamento di tutti i dittatori filoamericani del medio oriente), i suoi successori sono convinti sostenitori dell’hard power, delle operazioni segrete, del doppio gioco e della tenacia nel perseguimento dei propri obiettivi. Ora che Gaza e l’Egitto appaiono concretamente alla portata della sua influenza, il regime di Teheran saprà pazientare mantenendo a Gaza la massima tensione possibile. E’ anche possibile che l’Iran agisca con la mano pesante nelle vicende palestinesi, come ha fatto nel caso degli sciiti iracheni, trasformando musulmani semplicemente simpatizzanti in patrioti nazionalisti profondamente ostili e diffidenti. Tsahal potrebbe riuscire a smantellare la leadership di Hamas, e Gaza resterebbe un caos di brulicante fondamentalismo che susciterebbe soltanto commiserazione e non le incandescenti passioni che si accendono quando i jihadisti sconfiggono gli infedeli in battaglia. Ma con l’imminente prospettiva di un Iran dotato di atomica, i mullah useranno ogni mezzo per presentarsi come modello d’ispirazione. La loro capacità di aspettare In definitiva, è difficile che Teheran si lasci convincere dall’offerta di maggiori rapporti diplomatici fattale dal nuovo presidente americano Barack Obama o intimidire dalle minacce di più pesanti sanzioni economiche da parte dell’Europa. Il prezzo del petrolio può anche scendere: i mullah hanno superato fasi economiche ben più gravi. Da trent’anni a questa parte, non hanno mai visto una costellazione di forze più beneaugurante di questa. E, come recita una preghiera sciita, forse questa volta anche i sunniti sapranno riconoscere la luce. Inshallah.

"Karmon ci spiega la guerra contro l' asse della instabilità "

Roma. Quella di Gaza è la guerra di Teheran. Ad esserne convinto è Ely Karmon, esperto israeliano di terrorismo islamico e strategie politiche e ricercatore all’Institute for Counterterrorism all’Idc di Herzliya. Il vero conflitto, secondo Karmon, è quello fra Iran-Siria ed Egitto-Arabia Saudita, quello degli islamisti che cercano di strappare la regione ai nazionalisti arabi. “In questo scontro – spiega Karmon al Foglio – esistono attori diversi. C’ è l’Egitto: Hamas bussa ai suoi confini e rappresenta una minaccia anche per il Cairo, perché fomenta l’opposizione contro Hosni Mubarak. Poi c’è la coalizione fra Iran, Siria, Hamas e Hezbollah, ‘l’asse dell’instabilità’”. Israele deve affrontare un’alleanza responsabile della destabilizzazione dell’intero medio oriente. “Hamas – spiega – è importante per l’Iran perché è sunnita. Dallo scoppio della seconda Intifada Teheran gli garantisce assistenza e soldi”. Dal 2005 Hamas ha inviato in Iran centinaia di miliziani perché fossero addestrati. E’ necessario sovvertire questi equilibri, e bisogna farlo adesso. E’ indispensabile vincere questa guerra, o fra un paio di anni, sostiene Karmon, al confine meridionale di Israele potrebbe nascere uno stato alleato con Iran, Siria e Hezbollah, con buone possibilità di attentare alla stabilità di Giordania ed Egitto. Teheran punta a ricreare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza un altro Libano, ed è pronta a usare la collaborazione con Hezbollah per intervenire nel conflitto di Gaza. L’Egitto non può stare a guardare. “Per anni ha avuto la funzione di cerniera fra Israele e gli arabi – spiega Karmon – e i Fratelli musulmani combattono al suo interno. Per questo si impegna a mediare. Nei giorni scorsi due leader di Hamas sono arrivati al Cairo e Mubarak vorrebbe aprire il confine sotto la sorveglianza dell’Anp e delle forze internazionali. E’ importante per lui restare nella sua posizione di negoziatore”. Mentre crescono le pressioni per un cessate il fuoco, cosa succede nell’asse della destabilizzazione? “L’Iran aspetta le mosse del nuovo presidente americano, Barack Obama, e intanto è felice che Hamas combatta. Nel frattempo Hezbollah continua a mandare armi e denaro ad Hamas”. Secondo Kermon, Israele non sta affatto usando la mano pesante. “Hamas ha scavato tunnel per ottanta chilometri e ha nascosto i suoi quartieri generali sotto punti sensibili usando la strategia degli scudi umani. Era chiaro che prima o poi avremmo agito. Ci sono caduti razzi sulla testa tutti i giorni, abbiamo accettato di ritirarci unilateralmente dalla Striscia di Gaza e abbiamo firmato una tregua che Hamas non ha rispettato”. L’operazione militare è complicata: bisogna sbaragliare i vertici militari dell’organizzazione per intaccare il potere di Hamas, “altrimenti fra un anno saremo da capo”. Israele ha aperto i valichi per permettere l’arrivo degli aiuti. “I mass media – conclude Karmon – protestano contro Israele, ma al Jazeera non ha mai fiatato sul Libano, quando a colpire era Hamas. La televisione israeliana invece ha anche chiesto scusa per le vittime civili”.

Da pag. 9 del CORRIERE della SERA la cronaca di Davide Frattini, "Razzi katiusha dal Libano su Israele: il nord e il sud, un unico fronte "

La nuova edizione del libro ha perso due volti sull'ultima pagina. Ehud Goldwasser ed Eldad Regev sono ritornati a casa da Beirut in una bara. Gilad Shalit è ancora prigioniero a Gaza e la piccola galleria Edge continua a pubblicare la favola scritta da bambino dal caporale dell'esercito israeliano. La sala è vuota, la gente ha poca voglia di uscire. Quando l'operazione Piombo Fuso e i jet sono decollati per colpire la Striscia, a Nahariya sono rimasti ad aspettare. Questione di tempo, come due anni fa. «Se vai alla frontiera con il Libano— scherza Lee Rimor, la curatrice — puoi vedere Gaza con il binocolo».
Amos Yadlin, capo dell'intelligence militare, aveva avvertito il governo pochi giorni fa: il sud e il nord sono un unico fronte. I due katiusha caduti ieri su Nahariya gli hanno dato ragione. I leader di Hezbollah si sono affrettati a negare di essere responsabili dell'attacco. «Per lo Stato maggiore israeliano non fa differenza — spiega Yoav Stern, analista del quotidiano Haaretz —. Chiunque abbia sparato i missili (sarebbe stato un gruppo palestinese), il mandante è l'Iran».
La guerra dell'estate 2006 e i suoi riverberi di queste settimane hanno ridisegnato la mappa di Israele. Una volta l'espressione «quelli di Hadera- Gedera» designava con disprezzo le élites che vivono al centro del Paese. Adesso «quelli di Hadera- Gedera» sono diventati gli unici a non essere stati bersagliati.
Hadera a nord, Gedera a Sud. In mezzo, la striscia di pianura che scende verso il mare, laboratori hi-tech e il reddito pro-capite più alto d'Israele, diviso tra i 7.100 abitanti per chilometro quadrato (contro una media nazionale di 315). È Tel Aviv che si espande in un'unica grande metropoli, anche se lungo l'autostrada le città cambiano nome. «Stanno tutti là. Ci stiamo trasformando in una delle nazioni più brutte e ammassate del mondo», si lamenta Avishai Braverman, economista e parlamentare laburista.
Per sedici anni presidente dell'università Ben-Gurion a Beersheva, ha provato a spostare capitali e cervelli verso il sud. Adesso i razzi di Hamas hanno raggiunto per la prima volta la capitale del Negev. «Le lezioni sono state interrotte, il 50 per cento degli studenti arriva dal resto del Paese. Tutto si è fermato. L'area sotto la minaccia dei missili diventa sempre più grande, è inaccettabile. Le critiche della comunità internazionale suonano ipocrite. Gli israeliani sono sempre più impauriti e arrabbiati, appoggiano le soluzioni militari». Braverman — ha sfidato Ehud Barak da sinistra per la leadership del partito — resta convinto che l'unica strada sia un accordo e la nascita di uno Stato palestinese. «È sempre più difficile, Hamas non vuole un'intesa».
I Grad di fabbricazione iraniana — missili-Lego che si smontano in quattro parti, facili da contrabbandare attraverso i tunnel — permettono al movimento fondamentalista di minacciare un milione di israeliani. Hezbollah ne ha immobilizzati quasi tre milioni, per trentaquattro giorni di conflitto (e quattromila proiettili). «Il Paese è ormai diviso in tre. I due milioni che vivono nell'area di Tel Aviv possono immaginare di essere in America o in Europa. Al nord e al sud si combatte ancora una guerra nazionalista, come nel XIX secolo», commenta il filosofo Seffi Rashlevsky, tra i consiglieri più vicini a Tzipi Livni, il ministro degli Esteri. «È inevitabile che tutto si sia frammentato — continua —. Israele non è ancora uno Stato, perché non ha delle frontiere definite. Ci siamo sviluppati in modo caotico. Va costruita una nazione liberale all'interno dei confini del 1967».
I riflessi blu dei grattacieli annunciano i confini dello Stato di Hadera-Gedera. In questi due anni e mezzo, Hezbollah avrebbe accumulato negli arsenali — sostiene l'intelligence israeliana e proclamano le minacce del leader Hassan Nasrallah — missili che possono raggiungere questa roccaforte del potere e del denaro. «Non avere profondità strategica, essere una nazione così piccola, può avere i suoi vantaggi — commenta Yehezkel Dror, uno dei saggi che ha stilato il dossier Winograd sulla guerra in Libano —. Siamo in grado di muovere le truppe da un fronte all'altro con rapidità o anche combattere su tutt'e due allo stesso tempo». In una delle torri di Tel Aviv, vive Ehud Barak. Il ministro della Difesa guida la guerra a Gaza e da ieri guarda a Beirut.

Da pag. 6 della STAMPA il reportage di Francesca Paci, "I terroristi s'illudono, i razzi dal Libano non ci piegheranno ":

Ho sentito la sirena mentre ero ancora a letto, erano le sette. Dopo un secondo mi sono ritrovata tutta la famiglia in camera, dormo nella stanza più sicura della casa, l’unica con le pareti rinforzate». Neta, 25 anni, prepara un caffè afuk, il cappuccino locale, dietro il banco del Derek Café, l’ultimo avamposto israeliano prima della frontiera libanese distante appena tre chilometri. Uno dei razzi katyusha lanciato ieri dalle colline al di là del confine è atterrato a pochi isolati da qui, di fronte alla villetta in cui vive con la famiglia, nel kibbutz Mazuba. Un’altra salva ha colpito il lato opposto della statale numero 4, la periferia della città di Nahariya, 55 mila abitanti e il ricordo fresco dei 600 missili piovuti due anni fa durante l’ultimo conflitto contro le milizie sciite di Hezbollah. In un ospizio è stata colpita la cucina e due pensionati sono rimasti feriti.
All’alba del tredicesimo giorno di guerra Israele si sveglia con l’incubo paventato dall’inizio dell’operazione Piombo Fuso, l’apertura del fronte settentrionale. L’eco dei combattimenti di Gaza, dove ieri la sinistra conta dei morti ha raggiunto quota 763, giunge sulla costa coltivata a banani accompagnato dal rombo degli aerei da ricognizione tra le rade nubi primaverili.
«Non ce l’aspettavamo ma siamo pronti», dice Oren, 40 anni, titolare del Daily Market di Weitzman road, il negozio di alimentari nel cuore di Nahariya. La radio militare posizionata accanto alla cassa informa che le cinque persone ferite dai razzi stanno bene. Oren ha paura, come chiunque da queste parti, ma non se ne andrà: «Sono nato qui e qui abita la mia famiglia». Suo cugino Jackie Sabag è stato eletto sindaco nella lista di Kadima, il partito del ministro degli esteri Tzipi Livni.
All’estremo Sud come nel profondo Nord del Paese, nei quartieri popolari di Sderot e tra i kibbutz marittimi che si allungano in direzione di Beirut, la gente è abituata a tenere gli occhi al cielo. «Il mio ristorante è aperto dal 1940 e non saranno gli arabi a farmelo chiudere», giura Ilan Openhaimer, sessantenne e battagliero proprietario del Pinguin Caffè, una vera e propria istituzione a Nahariya come raccontano le fotografie color seppia con l’edificio all’epoca dei primi pionieri. Dalle vetrine in legno che ricordano un bistrot si vede il passeggio di Haagaton street. O meglio, s’immagina: «La città è vuota, nessuno esce di casa. Io non mi stresso, durante la guerra del 2006 sono stato l’unico a rimanere aperto. Ma capisco i miei concittadini, sono stremati». Tutti. Compresa Suad, commessa araba-israeliana che presidia il negozio d’abbigliamento Artzen deserto. Paura? Fa spallucce, preferisce non dire nulla. E però, a mezza bocca, ammette che non vede l’ora di tornare a casa ad Akko, «lontano da qui».
A Nahariya il Libano è un’ossessione antica. Non come quella personale di Ari, il protagonista del bellissimo film di Ari Folman «Walzer con Bashir», che ricorda il massacro di Sabra e Chatila. È un tormento collettivo, l’ansia quotidiana del target predestinato, angoscia tangibile sin da quel mattino del 1979 quando il diciottenne palestinese Samir Kuntar, salpato dalla costa nemica con un commando guerrigliero, sbarcò sulla spiaggia e uccise Danny Haran e la figlia di 4 anni. Seguì una prima guerra, una seconda. La terza, seppure ancora dietro l’angolo, è quasi già un ricordo.
«La memoria è una brutta bestia». dicono Bella e Asher Orovitz, coniugi pensionati ospiti del figlio a Tel Aviv. Una lunga vacanza: «Siamo fuggiti da Nahariya nel 2006, dopo che un razzo ha colpito il cortile del nostro palazzo. Adesso, l’idea di ricominciare è troppo dura». Ieri la figlia Sharon, assistente sociale, gli ha portato la nipotina Stab: «Era terrorizzata, le abbiamo spiegato come fare quando sente la sirena, correre nella stanza bunker e stare tranquilla, lì non può succederle niente».
Israele attende guardingo. Il ministro libanese del lavoro di Hezbollah, Mohammed Fneish, ha negato ogni responsabilità: «Non c’entriamo con questi Katyusha». Difficile crederlo per gli alti papaveri dello Stato ebraico consapevoli che il partito sciita controlla ogni metro del Sud del Libano. Eppure, per ora, gli esperti escludono l’ipotesi di un nuovo fronte.
«Credo che si tratti di un’episodio isolato, magari un cenno di solidarietà ad Hamas assediato a Gaza», sostiene Shlomo Gazit, ex capo dell’intelligence di Gerusalemme. Le elezioni libanesi sono alle porte e uno scontro alla vigilia del voto non sarebbe la miglior propaganda neppure per gli irriducibili di Nashrallah.
Dal silenzio del suo studio pediatrico vicino al mare e agli stabilimenti balneari animati dai cani, il dottor Polak, 60 anni, auspica la pace ma teme che ci vorrà ancora molto tempo. «Come si fa a vivere sotto la minaccia dei razzi? È come due anni fa, le scuole chiuse, le mamme che chiamano per un tranquillante da dare ai bambini». Squilla il telefono alle sue spalle, bip: è la signora Rachel che chiede una ricetta via fax.

Sempre da pag. 6 della STAMPA, un articolo che riporta le dichiarazioni del generale Graziano, capo dell'Unifil. L'Unifil è l'organismo che avrebbe dovuto impedire il riarmo di Hezbollah. Avrebbe dovuto, ma non l'ha fatto. Ora che Israele è stato attaccato chiedere moderazione è un esercizio di ipocrisia. " Il generale Graziano chiede moderazione "

«Massima moderazione per evitare un aggravamento della situazione», in seguito al lancio di razzi sul nord d’Israele, è stata sollecitata alle parti in causa dal generale Claudio Graziano, comandante in capo dell’Unifil II, la Forza Interinale delle Nazioni Unite nel Libano meridionale, ampliata dopo la guerra-lampo dell’agosto 2006 tra le forze israeliane e le milizie sciite libanesi di Hezbollah. I «caschi blu», ha precisato, si sono immediatamente attivati per identificare i responsabili dell’attacco oltre confine, dal quale si sono chiamati fuori sia lo stesso Hezbollah sia i radicali palestinesi di Hamas, contro cui è in corso da tredici giorni l’offensiva dello Stato ebraico nella Striscia di Gaza. L’Unifil ha rafforzato il proprio dispiegamento di soldati lungo la frontiera, ha precisato il portavoce militare Andrea Tenenti, e altrettanto hanno fatto le truppe regolari di Beirut. Alla Forza delle Nazioni Unite, ha detto il portavoce, non risulta siano finora pervenute rivendicazioni per i razzi scagliati contro il territorio d’Israele. L’Italia partecipa alla missione Onu con un contingente militare di circa 2.500 militari all’opera nell’operazione «Leonte» in un’area a sud del fiume Litani.

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