Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Tre ore di tregua nel conflitto tra Israele e Hamas la cronaca di Francesco Battistini
Testata: Corriere della Sera Data: 08 gennaio 2009 Pagina: 9 Autore: Francesco Battistini Titolo: «Acquisti, funerali, visite ai feriti per tre ore si torna alla «normalità»»
Da pagina 9 del CORRIERE della SERA dell'8 gennaio 2009, riportiamo l'articolo di Francesco Battistini "Acquisti, funerali, visite ai feriti per tre ore si torna alla «normalità» ":
GERUSALEMME — Trenta morti per tre ore di respiro. Se questo è il prezzo, a Gaza non c'è tempo per pensarci troppo su. L'apertura delle botteghe coincide più o meno con l'apertura delle fosse. Si seppelliscono i bambini uccisi martedì nella scuola dell'Onu, la Fakura, e le strade si riempiono d'altri bambini, per mano ai genitori, che vanno a comprare quel che si può. All' una di pranzo, un minuto dopo il via libera, sono tutti fuori. Tacciono i cieli, dopo dodici giorni e centinaia di bombe. Tacciono le sirene, ad Ashkelon e a Sderot, e anche lì c'è il tempo per dimenticare i rifugi di cemento. Cartoline di pace, prove tecniche di tregua, mentre le diplomazie ne discutono. «Per la prima volta, oggi sono uscito dal pronto soccorso — racconta Abdel Aba, un infermiere dell'ospedale Shifa —. Ho camminato un po' in strada, sono andato a vedere la casa colpita d'un mio parente. Ho passato giorni a caricare feriti e scaricare cadaveri. Non è finita, lo sappiamo tutti. Ma adesso scusa, niente telefono, devo tornare a lavorare...». Cento camion d'aiuti, medicinali e cibo. È qualcosa, anche se Israele per la verità non ha mai smesso di farli entrare nella Striscia. Il corridoio umanitario è soprattutto un sollievo psicologico. Dice Abdel che, «se qualcuno era riuscito a comprare cose sotto le bombe, al mercato nero, adesso approfitta di queste pause per fare visita ai feriti». Non c'è molto da portare, a chi l'ha scampata: un'arancia, un oggetto da casa, un abbraccio... Si fanno i conti della carneficina, anche: su settecento ammazzati di questi dodici giorni, un terzo, 220, sono bambini. La strage dell'Epifania è stata solo l'ultima, anche se la più dolorosa. E raccontano che qualche grido — «assassini! Li vendicheremo! » — s'è alzato durante i funerali di qualche piccola vittima. Tsahal, l'esercito, insiste: i colpi di mortaio sono stati tirati sulla scuola, ma solo perché là dentro c'erano miliziani di Hamas che sparavano. L'Onu nega «al 99,9 per cento» che l'edificio fosse usato come scudo dai terroristi e, piuttosto, chiede un'inchiesta internazionale. Se ci sarà, una testimonianza da ascoltare sarà forse quella di Hasan Al Mahbouh, 38 anni, che a Beit Lahya è direttore dell'altra scuola dell'agenzia Onu per i profughi palestinesi (Unrwa) e abita a trenta metri dalla Fakura, centrata martedì. È un dipendente delle Nazioni Unite: «Stavo uscendo dalla moschea — spiega — e andavo a casa mia. Ero a duecento metri dalla scuola, più o meno. Ho visto parecchia gente in strada, lì davanti. Erano tranquilli, non c'era aria di combattimenti. Ho sentito la prima esplosione e ho guardato in cielo: pensavo fosse il missile d'un aereo. Tre secondi dopo, un altro scoppio. Tre secondi dopo, un altro ancora. Allora ho capito che i colpi venivano da una zona del quartiere. Io non ho sentito altre esplosioni, prima di quelle tre. Ma l'unica cosa che so dire è che venivano da terra. È stato un inferno. Sono corso su Fakura Street. C'erano pezzi di gambe, corpi mozzati. Ho preso il primo che mi sono trovato davanti, un bambino che sembrava vivo, l'avevo in braccio e correvo, per caricarlo su una macchina...». Quei morti sono serviti a un po' di pace. Tre ore di respiro, per macinare altra rabbia. Alle quattro e due minuti, scaduta la tregua, partono subito due razzi verso Beersheva. E mentre si fa la conta dei morti, appena cala la sera l'aviazione riprende a bombardare Rafah, vicino alla frontiera con l'Egitto. Decine di carri armati, raccontano molti testimoni, entrano dal Sud nella Striscia dal valico di Kisufim e si dirigono verso la città di Khan Yunis.
Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera cliccare sulla e-mail sottostante