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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - L'Opinione Rassegna Stampa
08.01.2009 Operazione "Piombo fuso": le sue cause e le sue conseguenze
rassegna di analisi

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - L'Opinione
Autore: R.A Segre - Christopher Hitchens - Toni Capuozzo - Lanfranco Pace - la redazione - Dimitri Buffa - Michael Sfaradi
Titolo: «Dodici giorni che possono cambiare la Storia - Gaza, lo Stato che poteva essere - Gaza dietro la collina - Le chiacchiere sulla tregua duratura - Gaza, il mito e la realtà - Quando Hamas bombardava Sderot, Onu e Ue tacevano»
Dodici giorni che possono cambiare la Storia - Gaza, lo Stato che poteva essere - Gaza dietro la collina - Le chiacchiere sulla tregua duratura - Gaza, il mito e la realtà - Quando Hamas bombardava Sderot, Onu e Ue tacevano

Da Il GIORNALE dell'8 gennaio 2009, riportiamo l'editoriale di R.A. Segre "Dodici giorni che possono cambiare la Storia" (pagina 7)
 
Si sa come le guerre cominciano ma non come finiscono. Tutte però portano cambiamenti. Nella guerra di Gaza alcuni sono già visibili. Altri emergeranno meno come conseguenza dei combattimenti che della percezione dei loro reali o immaginari risultati.
Di cambiato, in Israele, c'è l'esercito che ha ritrovato la fiducia in se stesso e nei suoi comandanti. C'è un capo di Stato maggiore che comanda e tace con ufficiali e soldati che non hanno più il permesso di telefonare a casa. C'è un premier che evita il protagonismo; un ministro della guerra che promette una lotta dura, lunga e priva di trionfalismo. C'è un ministro degli Esteri che usa poco l'informazione del suo ministero e molto le apparizioni personali per allargare le divisioni sul piano internazionale. Queste divisioni sono risultati evidenti di questa guerra: incapacità dell'Europa di formulare una politica chiara e unita; vacuità del protagonismo presidenziale francese; sostegno tedesco e italiano, prudenza russa, assenza americana.
A livello regionale i cambiamenti sono notevoli: rottura dello schieramento arabo, con rinnovata dimostrazione di impotenza della Lega araba; prudente riemergere della leadership dell'Egitto come fattore capace di apportare soluzioni a favore dei palestinesi di fronte alla passività saudita e alla vuote dichiarazioni di sostegno della Giordania, dei paesi del Golfo, dell'Iran. La sospensione delle azioni militari israeliane per la durata di tre ore onde permettere l'entrata a Gaza di convogli di aiuti umanitari sembra avere anche il compito di privilegiare l'azione diplomatica del Cairo per raggiungere un accordo di tregua più prolungata. Comunque, vedere Khaled Meshal, leader di Hamas residente a Damasco inviare - apparentemente senza coordinamento con il governo di Gaza - due delegati al Cairo per chiedere l'intervento del presidente Mubarak per rinnovare la tregua è significativo anche perché ormai Gaza è passata sotto il controllo dell'ala militare di Hamas: l'organizzazione Izadin al Kassam è desiderosa di continuare la lotta a tutti i costi e considera la popolazione la sua più importante linea difensiva.
In Israele si nota il crescere di autocontrollo dell'opinione pubblica (nonostante l'insistenza di scrittori a dare ai politici e ai militari consigli non richiesti) assieme al crescere del realismo dovuto anche alla stanchezza di un popolo troppo provato dalle guerre. Altro segno: la diminuita sfrontatezza dei nuovi milionari parvenu (anche a causa della crisi finanziaria) e il diminuito tono belligerante della destra, anche se sceso meno dello stridore petulante degli ortodossi che rifuggono dal servizio militare. Le cose cambieranno quando al rombo dei cannoni si sostituirà il rumore della propaganda elettorale. Per tutti gli estremisti di destra e di sinistra sarà difficile tornare alle posizioni di prima perché il pubblico israeliano si rende conto che da questa guerra lo Stato può uscire solo vincitore ai punti con una tregua internazionalmente garantita che non distruggerà Hamas.
Per i Palestinesi la frattura fra Gaza e la Cisgiordania si rivela più profonda di quella fra al Fatah e Hamas. Non ci sono attacchi suicidi invocati dal Libano dal leader degli Hezbollah, che non sembra disposto ad aprire un secondo fronte contro Israele. Quanto al milione e mezzo di arabi israeliani che Gerusalemme sperava di poter politicamente ammansire con l'integrazione economica, scoprono che questa guerra ha già distrutto quel poco di fiducia che gli israeliani ebrei avevano in loro, assieme all'idea di uno Stato palestinese non islamico nel prossimo futuro.

Dal CORRIERE della SERA, l'editoriale di Christopher Hitchens "Gaza, lo Stato che poteva essere":

Non è di gran conforto, di fronte alla morte a Gaza di arabi palestinesi e di israeliani (arabi musulmani e cristiani, drusi e beduini, come anche ebrei, non dimentichiamolo, ad Ashdod e Sderot), rendersi conto che il momento della carneficina è stato determinato dalla coincidenza di tre momenti elettorali particolari. Il primo, e più evidente, è l'interregno nella presidenza degli Stati Uniti, la cui classe politica non si esporrà più di tanto, mentre si stanno stabilendo gli ultimi avamposti e si riassesta il difficile equilibrio di un simultaneo sostegno ai governanti israeliani, egiziani e palestinesi. Benny Morris, uno dei commentatori israeliani più lucidi, aveva detto che Israele avrebbe usato il periodo di transizione tra Bush e Obama per colpire i siti nucleari iraniani. Per ora si è forse sbagliato, ma in effetti l'attacco contro Gaza e Hamas è solo una versione ridotta e per interposta persona della guerra a cui lui pensava.
La seconda coincidenza è quella delle prossime elezioni di febbraio in Israele. Fino alla scorsa settimana veniva considerato molto probabile un ritorno alla ribalta di Benjamin Netanyahu, l'uomo la cui linea dura contro le concessioni territoriali trovava conferma nel fatto che Gaza, da cui gli israeliani sono usciti da tempo, venisse usata come base per estemporanei lanci di missili. Ora sembra difficile che possa battere l'attuale coalizione di governo, almeno attestandosi sulle posizioni dei falchi della destra. (Ricordiamoci che la follia della cosiddetta «intifada di Al-Aqsa», che in passato causò la perdita di tante vite e di tanto tempo, fu innescata da una rivalità elettorale tra Netanyahu e Ariel Sharon, che si mostrò più duro del primo attraversando la Spianata del Tempio con una massiccia scorta militare. Per queste assurdità i bambini piangono in strada sui corpi straziati dei genitori - e viceversa).
La terza circostanza, di cui si è parlato meno, è che in questo mese per iniziativa di Mahmoud Abbas dovrebbero essere indette — se non effettivamente tenute — nuove elezioni per l'Autorità Palestinese. Prima dell'inizio dell'anno alcuni palestinesi ben informati mi dicevano che ad Hamas conveniva che le elezioni non si tenessero troppo presto. Le condizioni di vita nella Gaza islamica non erano tali da diffondere grande felicità e prosperità tra la popolazione: come molti altri movimenti fondamentalisti, l'incarnazione palestinese dei Fratelli Musulmani aveva largamente sovrastimato la sua forza. Probabilmente non sapremo cosa sarebbe accaduto a seguito di libere elezioni, ma penso si possa dire che gli eventi recenti hanno ulteriormente allontanato la possibilità di un'alternativa democratica e laica tra i palestinesi.
Credo peraltro che in Israele, oltre che a Gaza, ci sia chi non vuole veder emergere una forza del genere: ma non fatemi passare per cinico.
È per questo, quindi, che il conflitto si è verificato ora. Ogni quadro dei particolari è però un riflesso del quadro generale, che a sua volta fa pensare che se a Gaza la guerra non fosse scoppiata ora, sarebbe scoppiata in seguito. Ancora una volta ci è d'aiuto l'opera di Morris, uno dei più lucidi storici «revisionisti » della fondazione di Israele, che ha esplorato a fondo gli archivi del suo Paese per dimostrare che nel 1947-48 i palestinesi erano stati vittime di una pulizia etnica deliberata. Morris è abituato a guardare in faccia fatti spiacevoli. Nell'editoriale che ha scritto il 29 dicembre sul New York Times, ha parlato non tanto dei fatti visti da lui, quanto di quel che vedono gli israeliani quando guardano fuori e dentro il loro Paese. A nord, i missili di Hezbollah con il sostegno della Siria e dell'Iran: due dittature, una delle quali potrebbe presto possedere armi nucleari e i mezzi per lanciarle. A sud e a ovest, Hamas a Gaza. Nei territori occupati della Cisgiordania, ancora il vecchio governo coloniale malvisto dalla popolazione e il vecchio incontrollabile conflitto con gli insediamenti degli ebrei messianici. All'interno di Israele, una crescente tendenza degli arabi israeliani a considerarsi arabi o palestinesi, anziché israeliani. Tutto questo è accompagnato da un semplice dato demografico: la legge israeliana e il potere israeliano governano cittadini sempre più non ebrei, e sempre meno disposti al compromesso.
Rispetto alla minaccia posta alla sua esistenza nel 1967, scrive Morris, ora Israele si trova in una posizione migliore solo grazie all'arrivo di altri 2-3 milioni di israeliani e al fatto di possedere un arsenale nucleare. Ma questi fattori quanto possono essere rassicuranti? Dove possono andare i nuovi immigrati, se non in terre contese? E su chi dovrebbero essere lanciate le armi nucleari? Su Gaza? A Hebron? Questi luoghi continuerebbero a essere là, a ridosso della comunità ebraica, anche se Damasco e Teheran fossero ridotte in cenere. Solo i messianici potrebbero ancora contemplare una prospettiva del genere (e purtroppo in Israele ce ne sono molti). Di fronte a questa intricata concatenazione di circostanze, e con alcuni spaventosi errori che ne sono scaturiti — come l'ultima invasione del Libano — alcuni politici israeliani sembrano pensare che adottare una linea dura a Gaza possa aiutare a risollevare il morale, almeno nel breve termine. Allora perché non dire chiaramente che si lanciano bombe per avere voti?
È solo quando si cominciano ad afferrare tutti i precedenti che si capisce quanto sia disgustoso e squallido il comportamento della banda di Hamas. Essa sa molto bene che le sanzioni colpiscono tutti i cittadini palestinesi, ma — proprio come il regime di Saddam in Iraq — rifiuta di abbandonare la violenza indiscriminata e la demagogia razzista e religiosa che sono state il principale motivo delle sanzioni. La Palestina è patria di diversi gruppi religiosi e nazionali, ma Hamas insiste dogmaticamente nel sostenere che l'intero territorio fa parte di un futuro impero esclusivamente musulmano. In un momento in cui nella regione si osservano tendenze riformiste e democratiche, dal Libano al Golfo, la leadership di Hamas è fisicamente ed economicamente parte dell'entourage di due delle peggiori dittature della zona. (Se volete ridere, andate a guardare quegli intellettuali occidentali che credono che il voto per un partito islamista e uno Stato islamico sia un modo per votare contro la corruzione! Non hanno probabilmente studiato l'evoluzione dell'Iran e dell'Arabia Saudita). Gaza avrebbe potuto essere la prefigurazione di un futuro stato palestinese auto-determinato. È stata, invece, sequestrata dai Fratelli Musulmani e resa un luogo di repressione per i suoi abitanti e di violenza contro i suoi vicini. Prevale ancora una volta il Partito di Dio. Se si legge Benny Morris si può dubitare che lo Stato di Israele avrebbe mai dovuto nascere, ma se si vede Hamas all'opera vien da pensare che se qualcos'altro dovesse sostituire o seguire il sionismo, non dovrebbe essere la desolazione della teocrazia islamica.
(Traduzione di Maria Sepa)

Da Il FOGLIO (pagina 4 dell'inserto), l'opinione di Toni Capuozzo, corretto giornalista del TG 5, che nell'edizione delle 13 dell'8 gennaio è stato definito dallo studio "corrispondente dalla Palestina". Preghiamo Capuozzo di correggere i suoi colleghi: è corrispondente da Israele, se lo ricordasse darebbe un contributo alla correttezza dell'informazione.

Ecco il testo (" La guerra vista dal confine è la triste storia di una “resistenza” che vive come una vittoria i suoi stessi morti")


Ashkelon. E’ difficile raccontare com’è una guerra vista da vicino, quando sei lontano. Le colline intorno a Gaza sono affollate da piccoli accampamenti di giornalisti, e tra l’erba alta emergono i trespoli delle telecamere e le sagome concave delle parabole. Tutte le strade di accesso a Gaza sono sbarrate, ed è impossibile avvicinarsi alle postazioni di artiglieria annidate tra le colline. Sentiamo i colpi, potenti, e pochi secondi dopo lo sbuffo silenzioso tra le case di Gaza City: devi immaginare i rumori, le urla, l’odore. La guerra che facciamo noi è quella con la polizia che controlla gli accessi, è quella delle sirene d’allarme. Ieri stavamo mangiando un panino a Sderot, le sirene hanno suonato, il bar si è svuotato. Il cassiere è rimasto sorpreso quando sono andato a pagare, c’è un’abitudine fatalistica anche agli allarmi, e probabilmente si stava chiedendo quanti dei clienti sarebbero tornati indietro a fare il proprio dovere. Il missile è caduto a trecento metri, davanti a una fermata d’autobus deserta. Stamattina un altro è caduto a duecento metri dall’albergo, ad Ashkelon: siamo corsi, e abbiamo visto da vicino il terrore di due donne, illese.

Il nostro riposo è una stazione di servizio, dove si mangia la sera, condivisa con i soldati israeliani che affollano il take away. Ragazzi, ragazze, riservisti con la pancia dei quarant’anni. I militari nostri vicini di tavola, ieri sera, dovevano essere drusi, per come parlavano fluentemente l’arabo con gli inservienti della cucina: una scena che da sola spiegava della guerra molto di più di tanti servizi ed editoriali. Le televisioni sono sempre accese, e ieri sera uno speciale ha ricordato i militari caduti: il filmato di quando il ragazzo biondo si era sposato, l’intervista alla giovane vedova, il pianto di un fratello, il dolore sobrio di un padre che ha combattuto troppe guerre, ed ha perso quest’ultima. Se conosci Israele, li capisci. Ma se conosci Gaza, sai che cosa sta succedendo.

Ne conosco le strade, il mercato del pesce, i campi profughi, la moschea dove predicava Yassin, la casa di Rantissi, i campi sportivi delle parate, le sedi politiche: Gaza sembrava bombardata anche nei momenti migliori, è facile immaginare cosa sia adesso. Dai suoi bordi, o dai bordi di Israele, hai la sensazione di raccontare sempre la stessa storia. Mi ricordo in queste ore dei palestinesi che sparavano dal tetto della Basilica di Betlemme, usando il luogo della cristianità come scudo, ed esca invitante. Mi ricordo il rapimento della pattuglia ai confini del Libano, l’estate di tre anni fa, e la strage di Cana, e le tattiche di Hezbollah: è facile fare resistenza quando anche i tuoi stessi morti sono una vittoria. I Qassam adesso, e allora i missili di Hezbollah, sono soltanto un pretesto, un sovrappiù, facciano morti o non ne facciano, il segreto della vittoria amorale sta nella reazione che provocano, e nei guasti utilissimi che la reazione procura.

Conosco anche l’Italia, che sussulta per Jabailya ma ignorò Srebrenica, e non si scompose per Milica Rakic, la bambina di tre anni uccisa a Belgrado (per non dire dei morti nella televisione di stato e dell’ambasciata cinese, e delle bombe a grappolo su Nis), e solo perché eravamo noi a bombardare – e un governo presieduto da D’Alema –, senza che nessuno lo avesse fatto prima contro di noi. Racconto quello che vedo senza speranza, ma anche senza abitudine. Perché mi pare che Israele non abbia appreso davvero la lezione del Libano, e questo mi sorprende. Mi sembra sia caduta in una trappola. Ad Hamas bastano una dozzina di missili al giorno per dimostrare che c’è, e il piombo dei Qassam non si fonde. Israele, in cambio, assesta colpi duri ma nel dedalo di Gaza è un gioco tremendo da ragazzi farsi scudo dei civili. La tregua, assaporata per tre ore al giorno, arriverà, ed è una corsa a raggiungere i propri obbiettivi, prima. Hamas può essere indebolita, ma non cancellata, l’unica sconfitta possibile è quella che può venire dal rifiuto della sua stessa popolazione. Allora, più che gli obbiettivi militari, Israele farebbe bene a lavorare alla propria immagine, anche nella Striscia, e forse a lavorare su se stessa. Un’organizzazione non governativa israeliana, i Physicians for human rights, ha lanciato una raccolta di fondi per gli ospedali di Gaza. Servono 700 mila dollari per tutto: gas medici, anestetici, guanti da chirurgo, cateteri, letti per rianimazione, ossigeno.

Sono stati raccolti 100 mila dollari, principalmente tra gli arabi israeliani. Il governo dovrebbe mettere i 600 mila che mancano, e dovrebbe spingere l’esercito ad aprire i propri ospedali da campo alle vittime civili. Non basta cercare di evitare i danni collaterali quando si sa che è impossibile. Occorre uno sforzo umanitario più grande che può non oscurare la legittimità dell’autodifesa – quanti nel mondo presero i Qassam come una minaccia, o almeno come un campanello d’allarme ? Convivesse pure Israele con le sue paure, come una colpa da pagare, ma bisogna medicare la sua inevitabile prepotenza, davanti a un nemico che proprio questo cerca. Perché per un paese democratico e per una forza armata che non deroghi, neanche nei conflitti più brutali, ai principi morali su cui si fonda, la difesa dell’onore è anch’essa una difesa collettiva della sopravvivenza dei propri cittadini, minacciati dai danni collaterali quanto e più che dai Qassam. Meglio non ci siano guerre, ma se vi si è costretti, mai assomigliare al nemico, specie se quella è la trappola cui il nemico ti invita. Quando l’orrore ti contagia, ad Abu Ghraib come in un villaggio afghano, a Guantanamo come a Jabailya, conta poco che per la ragione quell’orrore sia un errore, una vergogna da giustificare o dimenticare, mentre invece per il nemico il proprio orrore, l’attentato suicida o l’esecuzione di un ostaggio, sia da esibire compiaciuto. Il risultato è che il terrorismo vince, quando ti obbliga a giocare sul suo terreno, usando i bambini come un nascondino innocente e tremendo.

I risultati raggiunti dall'operazione "Piombo fuso" nell'analisi dello stratega Arduino Paniccia, intervistato da Lanfranco Pace "Altro che corteggiare la siria come i francesi. Fossi nel ministro Frattini andrei subito in Egitto":

Con la decisione di un cessate il fuoco ogni giorno Israele sembra riconoscere l’esistenza di quell’urgenza umanitaria che fino a ieri negava, inoltre – anche se dice di non averlo ancora accettato – mostra un marcato interesse per il piano del presidente egiziano, Hosni Mubarak. E’ una svolta nel conflitto o una frenata tattica dopo la “bavure” alla scuola dell’Onu, dove per rispondere al fuoco di un gruppo di miliziani Tsahal ha fatto decine di vittime tra i civili rifugiati? Lo chiediamo al professore Arduino Paniccia, specialista di questioni geostrategiche, autore di vari saggi e libri sulla guerra asimmetrica. “Non è né l’una né l’altra. La prima tregua umanitaria interviene normalmente a metà operazione. Piombo fuso è strutturata per durare tre settimane, massimo ventotto giorni. Siamo al dodicesimo giorno, quindi nei tempi. I fatti a cui si riferisce, inevitabili in questa guerra molto particolare contro un nemico che si fa scudo delle popolazioni civili, l’hanno tutt’al più anticipata di un paio di giorni. La maggior parte degli obiettivi tattici è già stata raggiunta: circa cinquecento postazioni di Hamas sono state eliminate, gran parte dell’equipaggiamento distrutto, la struttura militare scompaginata e decapitata. Si può dire che il peggio è passato, anche se la riuscita di tutta l’operazione dipende da quanto si potrà fare nelle prossime due settimane per la messa in sicurezza dei tunnel: è chiaro che Hamas non impiegherà molto a riarmarsi da cima a fondo se manterrà l’agibilità e il controllo della rete sotterranea”. Dopo l’insuccesso delle operazioni militari contro Hezbollah in Libano nel 2006, Israele ha bisogno di una vittoria militare e politica netta. Per questo chiediamo a Paniccia se Gaza può essere questo banco di prova oppure se – anche nella migliore delle ipotesi – non ci saranno soluzioni stabili per la regione e dovremo aspettarci nuove guerre tra un anno o due. “Delle tre operazioni di questo decennio, 2002, 2006 e 2008-2009, è proprio questa ultima che potrebbe essere la più importante, con maggiore rilievo strategico. Tatticamente integra i frutti della dottrina Petraeus (che ha determinato una svolta sullo scenario iracheno, ndr): l’ingresso da più parti, da più varchi nella Striscia di Gaza richiama la scomposizione di Baghdad operata dal generale americano ed è l’unico modo per isolare un’organizzazione militare, non importa se combattente o terroristica, che per rifornirsi e riprodursi coinvolge intere popolazioni e territori estesi. Ma sono in ballo anche importanti obiettivi politici. Prima Israele era alle prese con un’organizzazione come Hamas sempre più forte e armata, con un’Autorità palestinese sempre più debole e soggetta al rischio di putsch interno, con un Hezbollah sempre più padrone del Libano. In altre parole era circondata da Iran e Siria, con la minaccia del nucleare iraniano sullo sfondo. Ora non è più così. Israele ha dimostrato che si può aprire una crepa nella compattezza granitica di Hamas. ‘Li piegheremo’, avevano detto all’inizio. E ci sono riusciti. L’organizzazione fondamentalista non è soltanto più debole militarmente: è anche spaccata, forse irreversibilmente, in un’ala dura legata a Iran e Siria e in una più moderata sulle posizioni dell’Egitto e della Giordania. E’ una grande occasione da sfruttare nel modo giusto. Soprattutto da parte del presidente eletto americano, Barack Obama, che avrà, per così dire, dalla sua la freschezza del neofita, un po’ come Bill Clinton nella sua prima presidenza. Il secondo obiettivo di Israele era dimostrare che Ahmadinejad è una tigre di carta. E anche questo obiettivo è raggiunto. Per questo sono cessati i rumors, insistenti fino a qualche settimana fa, che davano per imminente un attacco dell’aviazione israeliana agli impianti nucleari di Teheran”. Poi c’è tutto il fermento diplomatico. Che pensa il professor Paniccia del comportamento dell’Unione europea e dell’Italia in tutta la vicenda? “L’Ue è stata una catastrofe nella catastrofe: non è riuscita a dimostrare che il Mediterraneo e le regioni vicine sono affar suo, come lo stesso Obama si sarebbe aspettato. Per il nuovo presidente americano è oltremodo chiaro che ci sono soltanto due interlocutori politici, la Russia e la Cina. L’Italia si è mossa bene, però ora che l’Ue se ne va per conto suo e parla con cento voci potremmo anche noi darci da fare per conto nostro. E invece di corteggiare senza successo la Siria come fa da decenni la Francia, fossi in Franco Frattini andrei subito in Egitto e stringerei al massimo con Mubarak. Perché fra le tante colpe dell’Europa c’è anche quella di aver dato un mare di soldi alle persone sbagliate, Arafat e Olp, quando sappiamo che per vincere la guerra contro il fondamentalismo bisogna mettere paesi come l’Egitto in grado di diffondere benessere”. La sinistra italiana ha reagito alla guerra a Gaza un po’ in ordine sparso. “Non ha percepito che il mondo sta tornando come era una volta, cioè normale, con atti di potenza tra stati, alleanze tra stati e uso legittimo della forza da parte degli stati. La sinistra pensa di essere la sola a incarnare la Realpolitik, invece questa è un’illusione che la tiene fuori dal mondo”.

Dalla prima pagina del FOGLIO, "Israele apre al piano franco-egiziano per definire il dopoguerra"

Gerusalemme. Israele apre al progetto franco-egiziano, da applicare con l’Anp dopo la fine delle operazioni contro Hamas. Il governo di Gerusalemme “vede positivamente il dialogo tra ufficiali egiziani e israeliani” ed “esprime la sua gratitudine al presidente egiziano e al presidente francese per gli sforzi volti a promuovere una soluzione che metta fine al terrore da Gaza e al traffico di armi verso la Striscia”. Tsahal ha interrotto per tre ore le operazioni nella Striscia – seguito da un’analoga sospensione dei lanci di razzi di Hamas contro Israele – e ha aperto un corridoio “al fine di prevenire una crisi umanitaria a Gaza”. Senza fare i conti con Hamas, il leader francese Nicolas Sarkozy si è “vivamente felicitato dell’accettazione da parte di Israele e dell’Autorità palestinese del piano franco-egiziano”. Fonti israeliane hanno spiegato alla radio che è “prematuro” parlare di un assenso israeliano al piano del leader egiziano, Hosny Mubarak. Il gabinetto di guerra ieri ha votato per intensificare le operazioni nella Striscia. Con precisione cronometrica alle 15 sono ripresi i combattimenti. Ma Israele è cosciente che il tempo sta scadendo. Al tredicesimo giorno di operazioni e dopo l’incidente della scuola di Jabaliya, il rischio è di alienare i governi alleati, sempre più sotto la pressione delle opinioni pubbliche. Anche Sarkozy riconosce che l’offensiva di terra non è finita e l’iniziativa di pace è “fragile” e “vaga”. Il presidente francese spera in un accordo tra Egitto e Israele in “quattro o cinque giorni” e in “un ritiro israeliano da Gaza in otto giorni”, spiegano al Foglio i suoi uomini. Intanto, ha dato ordine al ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, di bloccare una risoluzione del Consiglio di sicurezza: una concessione a Israele, dopo la minaccia francese di presentare un testo che riprendesse alcune richieste dei paesi arabi. Lo sforzo del segretario di stato americano, Condoleezza Rice, in vista della riunione di ieri sera, sembra aver convinto i paesi arabi moderati a rinunciare a un testo. “Approviamo” il piano egiziano, ha detto Rice, che però non ha chiesto la tregua. Il fermento diplomatico si sposta in Egitto, dove il capo dell’intelligence, Omar Suleiman, continua la “shuttle diplomacy” tra Hamas e gli israeliani. Domani sarà al Cairo il presidente palestinese, Abu Mazen. Già oggi arriverà Amos Gilad, l’inviato israeliano che avvierà un processo di verifica del piano egiziano. Ma soltanto alla sua conclusione sarà possibile una decisione, avvertono a Gerusalemme. Il piano egiziano prevede un cessate il fuoco immediato, seguito da negoziati su accordi di lungo periodo per porre fine al blocco di Gaza. Israele, invece, esige la fine dei razzi contro il suo territorio e che sia impedito il riarmo di Hamas. Sarkozy ha suggerito a Mubarak di affiancare ai soldati egiziani “specialisti” internazionali contro i tunnel e l’invio di una forza navale, ma il Cairo è reticente. Anche la richiesta di Sarkozy al leader siriano, Bashar el Assad, di fare pressioni su Hamas è fragile: secondo la difesa israeliana, il braccio armato di Hamas potrebbe decidere di continuare a combattere, anche se la leadership politica accettasse la tregua.

"Pezzi di Hamas", sulla crisi militare e le divisioni politiche del gruppo terrorista:

Gerusalemme. Hamas è in stato confusionale. Al dodicesimo giorno di guerra, la sua linea di comando e controllo è danneggiata in profondità. Il nemico avanza e ormai ha diviso in due non soltanto il territorio fisico della Striscia – isolando lo spazio già stretto in due tronconi più piccoli che non possono aiutarsi a vicenda – ma ha tagliato in due anche il vertice pensante del gruppo. Da una parte c’è la leadership catacombale, che risiede con stabilità a Gaza, fino a tre settimane fa si mostrava in pubblico e ora è sprofondata in clandestinità – emette soltanto brevi spezzoni video in differita stile al Qaida – dall’altra quella che parla dal comodo esilio di Damasco. I capi di Gaza dal fondo dei loro nascondigli tenuti separati per non favorire i bombardieri hanno deciso per la linea malleabile: possibile tregua con Israele, “che questa volta ha varcato tutte le linee rosse, come fosse impazzita”, ed emissari spediti in fretta al Cairo verso il punto di contatto comune con il governo di Gerusalemme, il generale dei servizi segreti egiziani Omar Suleiman. Dall’altra c’è la leadership dell’“armiamoci e partite”: Khaled Meshaal. Da Damasco parla di resistenza fino “alla vittoria”, ma vede l’operazione Piombo fuso soltanto in televisione e agisce sotto lo sguardo ravvicinato dei suoi santi patroni stranieri, Siria e Iran. Sul campo, le cellule dei duri che combattono contro Tsahal non possono comunicare con i telefonini – intercettati se accesi, seguiti sulle mappe satellitari se spenti – e temono le soffiate dei palestinesi non allineati con Hamas. Due giorni fa un’operazione congiunta dei servizi segreti e dell’aviazione ha eliminato Ayman Siam, capo del programma Razzi e artiglieria (mortai) di Hamas. Siam – che è stato ideatore e fondatore della guerriglia con razzi e fino a martedì ne era il supervisore in tutta la Striscia – era già stato ferito dieci giorni fa durante la prima ondata di attacchi aerei. Il fatto che di nuovo sia stato raggiunto e ucciso tradisce il deficit di sicurezza all’interno del gruppo. Le officine per l’assemblaggio di razzi e missili sono state tutte colpite, ormai si prosegue con le scorte. Se il troncone nord della Striscia cede, le linee di lancio dei razzi Qassam, di più scarsa gittata, arretreranno così tanto da rendere gli ordigni quasi inservibili. possibilità di ricevere ordini, si tengono alla larga dai centri militari – tutti colpiti – con in mano soltanto due ultime, generiche indicazioni: “Combattere per la sopravvivenza del gruppo” e “Non giocarsi tutto e subito, trattenersi. Non esporsi a rischi inutili, conservare missili da parte”. I pochi ordini che riescono ad arrivare, non seguono nemmeno la linea di trasmissione corretta. Arrivano da fuori, da Damasco, e non dai leader di Gaza. La Striscia nel 2009 non è il Libano di due anni fa. Lo spazio fisico è differente: Hezbollah aveva alle spalle l’intero Libano, Hamas è ingabbiata in un rettangolo di cinquanta chilometri per otto, dove, per paradosso, è sparpagliata, senza quelle linee telefoniche speciali e private in dotazione al Partito di Dio. Anche lo spazio umano è differente: Hamas sta combattendo una furiosa campagna di eliminazione dei dissidenti – ha ucciso un settantenne che rifutava di indicare il nascondiglio del figlio, appartenente a Fatah – ma a soli due anni di distanza dalla sua presa di potere cruenta, non può ancora dire di avere la lealtà di Gaza dalla propria parte.

Da pagina 3, l'editoriale "Le chiacchiere sulla tregua duratura":

La tregua duratura, obiettivo dichiarato dei colloqui diplomatici in corso sulla crisi di Gaza e sostanza della condivisibile ipotesi su cui hanno lavorato Egitto, Francia e Anp, sarebbe auspicabile, purché sia chiaro il suo significato. Sembra non volerlo capire chi continua a chiedere un cessate il fuoco immediato e unilaterale a Israele, mentre non sa o non vuole imporre ad Hamas la simmetrica cessazione dei lanci di missili che hanno provocato il conflitto. E’ bene ricordare che la tregua c’era, anche se Hamas non l’ha rispettata pienamente, negli ultimi sei mesi dell’anno scorso. Era stata negoziata tramite intermediari e proprio perché rappresentava un’intesa militare e non politica non comportava il riconoscimento reciproco tra i contraenti. Hamas ha denunciato la tregua e ha iniziato la guerra, forse nell’illusione che la stagione elettorale israeliana le permettesse di farla franca. Ora le forze israeliane sono nella Striscia per smantellare le rampe di lancio dei missili che colpiscono il proprio territorio e per chiudere i valichi sotterranei attraverso i quali passano armi e terroristi dall’Egitto a Gaza. Una tregua duratura può esistere solo se questi obiettivi minimi, che oggi Israele persegue con la forza, saranno garantiti dalle trattative. Le diplomazie più attive se ne rendono conto e stanno lavorando per fornire a Israele garanzie che consistono poi nel diritto a non essere bombardato. Gli obiettivi del piano, però, sono l’esatto contrario di quelli di Hamas, esplicitati nel momento della denuncia della tregua. Perciò ad Hamas la tregua permanente nei suoi termini reali dovrà essere imposta, con le buone o con le cattive. Il ritorno alla situazione precedente, con Hamas che bombarda Israele e Israele che non può rispondere, è inaccettabile e per questo, con buona pace di D’Alema, per uscire dalla crisi tutto serve tranne il riconoscimento del regime illegale di Hamas a Gaza.

Di Dimitri Buffa, da L'OPINIONE, "Gaza, il mito e la realtà":

 

 

“Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c’è dubbio. Ma lo sono degli Stati Arabi, non d’Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta…Oggi, ubriacato da una propaganda di stampo razzista e nazionalsocialista, lo sciagurato fedain scarica su Israele l’odio che dovrebbe rivolgere contro coloro che lo mandarono allo sbaraglio. E il suo pietoso caso, in un modo o nell'altro, bisognerà pure risolverlo…Ma non ci si venga a dire che i responsabili di questa sua miseranda condizione sono gli «usurpatori» ebrei. Questo è storicamente, politicamente e giuridicamente falso.”

Era il 16 settembre 1972 quando il grande Indro Montanelli scriveva queste parole sul Corriere della sera che di lì a un paio d’anni lo avrebbe cacciato perché giudicato troppo di destra.

O moderato che dir si voglia.

Oggi, a più di 35 anni da quei tempi, con il povero Indro che sta ormai da tempo due metri sottoterra, le demagogie e le menzogne per spiegare la realtà palestinese sono rimaste pressochè immutate. Perché non c’è peggior sordo di colui che lo è per motivi ideologici, come Massimo D’alema tanto per non fare nomi, e quindi non vuole sentire.

In questa ottica uno sforzo enorme per separare il mito dalla realtà su Gaza e la guerra anti terrorismo che è in atto in quel posto dallo scorso 27 dicembre va fatto. Ed è impresa quasi titanica e che non attira di certo le simpatie delle masse.

Ma anche se il lavoro è duro e qualcuno lo considera pure sporco, bisogna trovare il coraggio di farlo.

In questo senso basta andare e vedere i video su You tube, alcuni dei quali postati a cura delle ambasciate israeliane sparse in tutto il mondo conosciuto, e quella francese è una delle più attive in tal senso, per farsi un’idea delle balle umanitarie che ogni giorno ci vengono raccontate. A cominciare da quella che vuole che a causa dell’embargo contro hamas, la gente in loco muoia di fame. Beh guardatevi su questo link http://it.youtube.com/watch?v=83aJj72UjlM&eurl=http://www.jihadwatch.org/archives/024248.php i supermercati di Gaza city come filmati lo scorso 3 dicembre e qualche dubbio vi verrà.

 E guardate anche le immagini di bancarelle per strada piene di ogni ben di Dio, come di questi tempi neanche in tutto il resto del mondo  sono molto di moda, con la gente che passa calma tra gli scaffali come un qualunque europeo dedito allo shopping alimentare pre natalizio.

 Certo cambiano i volti e i vestiti, gli uomini hanno la kefia intorno al collo e le donne sono tutte vestite come vedove sarde degli anni ’50, ma il resto non fa certo immaginare la solita emergenza umanitaria di cui si riempiono le bocche le varie Unchr, l’Onu o Amnesty international. Magari la voce in sottofondo usa toni un po’ troppo sarcastici per una popolazione che comunque soffre, ma è anche vero che il reddito di aiuti pro capite a Gaza è il più alto del mondo, sempre rispetto a persone che si trovano in analoghe condizioni. E ormai raggiunto la quota globale di oltre quattro miliardi di dollari negli ultimi duemila giorni, cioè sette anni, non si può parlare di gente lasciat a sé stessa.

 In Sudan stanno sicuramente peggio, in Vietnam pure. Ne sa qualcosa Marco Pannella che a Natale neanche ce lo hanno fatto andare perché non testimoniasse il vero colore, rosso comunista, della repressione mondiale.

Anche se quello che hanno a Gaza “non è mai abbastanza”, come commenta ironicamente la voce narrante dei tre minuti di video you tube.

Come non sono niente, perchè semplicemnete non esistono nella cronache di questi giorni,  i 396 camion di aiuti umanitari consegnati attraverso i confini israeliani dal 27 dicembre, giorno dell’inizio della guerra, a oggi.

Come nessuno dice che solo il 5 gennaio Israele ha fatto passare altri 80 camion pieni di viveri e generi sanitari. O dei 20 palestinesi, tra cui due bambini, portati a venire curati in Israele.

Come non si parla degli 800 mila volantini disseminati ovunque per avvertire la gente dell’inizio dei bombardmenti pregandola di stare alla larga da armi e terroristi. Come non esistono i 70 annunci al megafono che hanno preceduto ogni singola incursione aerea, come non esistono le 10 mila tonnellate di auti trasportati a Gaza in questi giorni tramite le organizzazioni umanitarie, l’Anp e vari governi europei e arabi. Addirittura il World food program la scorsa settimana aveva informato le autorità israeliane che avrebbe dovuto sospendere i trasporti di cibo via nave semplicemente perché non c’era più cibo né navi e perché le riserve già inviate e accumulate sarebbero dovute durare almeno due o tre settimane. Questo sempre che i terroristi mafiosi e camorristi di hamas non ne avessero fatto incetta per rivendersi tutto sul mercto nero di Dubai tramite loro amici “fratelli mussulmani”.

Gli stessi “miliziani” che quando un megafono dell’esercito israeliano avverte di non entrare in un palazzo eprchè sta per essere bombardato invita vecchi, donne e bambini a ignorare tale ordine. E anche questo viene documentato dai filmati amatoriali di you tube che informano meglio di dieci corrispondenti Rai, Bbc, Mediaset e Cnn messi insieme.

Peraltro neanche si parla degli zero (dicasi 0) palestinesi cui è stato permesso di andarsi a curare negli ospedali egiziani né dei 10 mila e passa razzi lanciati da Gaza su Israele dal 2001 a oggi, né dei 3200 sparati nel solo 2008.

Per non parlare di chi giudica poca cosa i 28 civili ebrei uccisi dal 2001 a oggi in Israele a causa di questi missili rudimentli che un altro po’ e verranno assimilati ai fuochi d’artificio.

Questa in sostanza è stata negli ultimi anni l’informazione su Gaza fornita in Italia e in Europa dalla maggior parte dei media scritti e dalle televisioni. E questa è la base di consapevolezza con cui alcuni , come D’Alema e Sarkozy, invitano a trattare con hamas.

Un’ultima notazione serve a sfatare la leggenda che la sovrappopolazione di Gaza sarebbe tale da indurre la gente a diventare terrorista anti israeliana per disperazione: ebbene esistono dati certi anche su questo versante e dimostran o he la densità per chilometro quadrato si attesta a 3823 abitanti. Meno di Gibilterra che ne conta 4290, di Hong Kong che raggiunge i 6317, di Singapore con i suoi 6389 abitanti per chilometro quadrato e circa un quinto in meno di Monaco e di Macao, rispettivamente “crowded” con 16,620 e 17,685 abitanti per chilometro quadrato.

Il terrorismo, come la malafede, non hanno mai giustificazioni. E quando le cercano non possono che nutrirle con le falsità.

Sempre da L'OPINIONE
". di Michael Sfaradi, "Quando Hamas bombardava Sderot, Onu e Ue tacevano"
 

L'ultima e più grave notizia che arriva dalla Striscia di Gaza riguarda il bombardamento da parte israeliana di una scuola dell’Onu dentro la quale si trovavano decine di sfollati. La notizia ha fatto il giro del mondo, e le reazioni di sdegno non si sono fatte attendere.
L’unità militare che ha sparato sulla scuola Onu di Jabaliya, secondo fonti dell’esercito israeliano, ha però risposto ad alcuni colpi
di mortaio provenienti dalla struttura o dalle sue vicinanze. Per suffragare tutto ciò le forze armate israeliane dispongono di un
filmato che mostrerebbe le fasi precedenti e successive al bombardamento e la presenza nella scuola di due cadaveri di combattenti
palestinesi di cui sono stati anche pubblicati i nomi: Imad e Hassan Abu Askar. Per questo Israele intende presentare una protesta all’Onu per “aver ospitato nell’edificio” gli uomini di Hamas. L’eserci to israeliano ha più volte dichiarato che sono aumentati gli episodi
in cui miliziani di Hamas hanno attaccato forze israeliane dall’interno di scuole,ospedali, moschee e zone residenziali. La strategia di farsi scudo con i civili è sempre stata una scelta tattica sia palestinese che di Hezbollah, scelta che tanti lutti ha portato nella popolazione civile. A suffragare le dichiarzioni israeliane ci sono diverse fotografie dove si vedono chiaramente razzi lanciati verso Israele che partivano dai centri abitati. Dopo questa tragedia la richiesta di cessate il fuoco si è fatta ancora più pressante e colloqui ad altissimo livello hanno coinvolto esponenti dell’Ue dei Paesi arabi moderati e il presidente francese Sarkozy si e' esposto in prima persona, come fece fra Russia e Georgia, pur di far tacere le armi. Da quando è iniziata l‘offensiva a Gaza, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è riunito a più riprese con la solita richiesta, un cessate il fuoco immediato e senza condizioni, in sostanza una vittoria tecnica e politica per Hamas decisa a tavolino. Ci sono però degli interrogativi che restano a nostro avviso senza una risposta, come ad
esempio: perché il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non si è mai riunito per discutere la drammatica situazione di Sderot, bombardata
dai terroristi di Hamas giorno dopo giorno? Eppure ha avuto otto anni di tempo per farlo. Perché le stesse pr essioni che sono in questi giorni esercitate su Israele non sono mai state esercitate su Hamas per chiedere la cessazione dei bombardamenti delle città israeliane e l’annullamento dell’articolo che prevede la distruzione dello Stato di Israele dal loro statuto? Perche’ l’Egitto si impegna solo ora a bloccare totalmente il contrabbando di armi dal Sinai verso Gaza? Eppure il governo israeliano ha più volte richiesto una maggiore attenzione da parte egiziana sulla situazione dei tunnel che uniscono Gaza all’Egitto. Perché solo ora la presidenza francese si accorge che i Qassam non sono più tollerabili (prima lo erano?) e che l’embrago alla Striscia è la conseguenza di questi lanci? Non poteva dirlo prima? Non si poteva intervenire presso Hamas facedo loro capire che avrebbero fatto pagar caro alla popolazione civile il prezzo della loro pazzia? Sono molti i responsabili di questa situazione ed è comodo dare la colpa di tutto ad Israele. Per concludere è giusto ricordare a coloro che si appellano alle convenzioni di Ginevra a senso unico, che Gilad Shalit, rapito e prigioniero di Hamas da
quasi tre anni, non ha mai ricevuto la visita della Croce Rossa Internazionale.


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