Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Vittime civili: è la strategia di Hamas le cronache di Francesco Battistini, le analisi di Davide Frattini, Guido Olimpio, Pierluigi Battista, Bernard Henri Lévy
Testata: Corriere della Sera Data: 07 gennaio 2009 Pagina: 2 Autore: Francesco Battistini - Davide Frattini - Lorenzo Cremonesi - Guido Olimpio - Pierluigi Battista - Bernard Henry Lévy Titolo: «Fuoco su una scuola dell'Onu Strage di bambini a Gaza - La Cisgiordania stanca di guerre resta in silenzio sull'invasione di Gaza - «Combattenti» o «coinvolti» Quale bersaglio è legittimo? - «Abu Mazen ci ha solo criticato Non ha fatto nulla di concreto»»
Miliziani tenaci e leader tentennanti - Una dichiarazione cauta perché non può ancora agire - Tregua e retorica - Ostaggi di Hamas
Da pagina 2 del CORRIERE della SERA del 7 gennaio 2008, riportiamo la cronaca di Francesco Battistini "Fuoco su una scuola dell'Onu Strage di bambini a Gaza":
SDEROT (Israele) — «Prima finisce, meglio è». Ehud Olmert è appena uscito da una casa centrata dai razzi, il fumo nero di Gaza è dietro di lui. Gli sussurrano qualcosa. Il premier israeliano si volta, non sa che il peggio non è ancora finito, capisce che qualcosa di meglio deve cominciare. È il giorno delle stragi. Il giorno in cui qualcuno, finalmente, dice basta, prima si rallenta e meglio è: Olmert riconosce che c'è una crisi umanitaria e, «al fine di prevenirla», decide che è il momento d'aprire «un corridoio umanitario per assistere la popolazione». Solo alcune aree della Striscia, per qualche ora. Il tempo di dare aiuti ai civili. È il segnale che qualcosa si sblocca, forse. Dal Cairo arriva anche una proposta di tregua ideata da Sarkozy, firmata da Mubarak e approvata da Washington, con Abu Mazen che dice subito sì, coi i due inviati di Hamas che non dicono subito no, «valutiamo», con Israele che prende tempo per rispondere. Prima lo fa, meglio è. Perché i massacri si fanno insostenibili. Lunedì sera, il fuoco amico che ha ammazzato quattro soldati israeliani. Ieri mattina, il fuoco cinico d'un tank che ha tirato su una scuola dell'Onu, tre morti. A metà pomeriggio, il fuoco senz'aggettivi che polverizza un'altra scuola delle Nazioni Unite, la «Fakura», sotto gestione dell'agenzia per i profughi palestinesi, l'Unrwa. Quando arrivano le quattro esplosioni, la Fakura è piena di poveracci scappati dal campo di Beit Lahya. La carneficina più impressionante degli undici giorni di Piombo Fuso: almeno 30 morti, bambini con le loro mamme, 55 feriti. I testimoni palestinesi dicono che non c'era ragione di sparare sull'edificio, perché non c'erano combattimenti in corso. L'Onu ricorda che la scuola serviva da rifugio, è segnalata sulle mappe e la bandiera azzurra del Palazzo di Vetro sventolava, ben visibile. L'esercito israeliano non ci sta, spiega che da là erano partiti diversi colpi di mortaio, che la fanteria ha risposto, e il tutto è stato filmato da un drone, un aereo senza pilota che sorvolava la zona. Tsahal fornisce particolari: fra le macerie, sarebbero stati recuperati i cadaveri dei due cecchini. Si chiamavano Iman e Hassan Abu Askar, «la prova che Hamas ci attacca facendosi scudo di moschee, ospedali, scuole, popolazione civile», esattamente come nel 2006 a Beit Hanoun, quando i terroristi fuggirono riparandosi dietro 200 donne. «Che ci faceva Hamas in una sede dell'Onu? »: una protesta parte verso New York, per l'«utilizzo improprio » delle sedi internazionali. Troppi errori, comunque. Solo ieri, denuncia un'ong israeliana, sono stati presi di mira infermieri in camice bianco che correvano in soccorso di alcuni feriti. E tre ospedali mobili danesi, fortunatamente vuoti, sono stati colpiti. Dieci feriti anche in un'infermeria, sempre del-l'Onu, nel mirino a Burej. In serata, il segretario generale Ban Ki-moon ha condannato gli attacchi israeliani «totalmente inaccettabili» contro le strutture Onu, definendo «ugualmente inaccettabile ogni azione di Hamas che metta in pericolo i civili palestinesi». Una denuncia arriva da Mads Gilbert ed Erik Fosse, norvegesi, i soli due medici occidentali che fra «vetri rotti e feriti che tremano seminudi, quando la notte si scende a sette gradi», amputano e suturano senza sosta nell'ospedale Shifa: «Il mondo non vede. Ma i tank hanno tirato su due nostre ambulanze e hanno ucciso due nostri collaboratori». Il mondo non vede perché non può: la Striscia è chiusa alla stampa internazionale. È stata organizzata una specie di lotteria, fra gli 800 giornalisti accreditati, è intervenuta anche una decisione della magistratura a riconoscere il diritto di cronaca, ma il primo pool di «fortunati estratti» viene ogni giorno rimbalzato. Non ci si può avvicinare a meno di due-tre chilometri, chi è già dentro senza permesso rischia l'arresto: ieri è toccato a un giornalista iraniano, accusato di spionaggio. La strage della scuola scuote le diplomazie. La pressione internazionale cresce, assieme al numero di morti innocenti: almeno 500, quasi tremila feriti, nella contabilità anche i sette fratellini Daya centrati ieri mattina, con l'unica colpa d'abitare nel palazzo d'un leader di Hamas (fuggito). Anche Ismail Haniyeh fiuta l'aria, spinge sulla propaganda, va in tv a dire che «l'attacco di terra è fallito». In realtà, è fallita la difesa della roccaforte di Khan Younis, sono stati tagliati i collegamenti col sud e s'è già all'arma disperata dei kamikaze: uno si sarebbe fatto esplodere per fermare un carroarmato. Le proteste dall'estero non sembrano scalfire troppo l'opinione interna: il sesto funerale d'un soldato israeliano, in tv e sulle radio, è l'abbraccio d'un Paese senza troppi se e senza molti ma. Ci sono i razzi che cadono sempre più vicini (35 km) a Tel Aviv. E c'è la fila all'ospedale di Beersheva, a portare palloncini e cioccolatini ai 31 soldati feriti. Qualche padre che tira un sospiro: «Mio figlio vuole tornare là dentro — dice Amilam Am-Shalem, 57 anni —, ma dovrà stare a letto almeno tre mesi: meglio così». Un ragazzo yemenita, Aidan Levi, 22 anni, che passeggia con le stampelle e ha toni ancora eccitati. Forse, l'effetto degli antidolorifici: «Mi hanno preso a un piede. Ma la mia squadra li ha ammazzati tutt'e quindici. Quelli non sanno sparare. Li butteremo tutti via, come stracci».
Sempre di Battistini, da pagina 5, "La Cisgiordania stanca di guerre resta in silenzio sull'invasione di Gaza":
GERUSALEMME — «Io abito proprio nel mezzo della Cisgiordania », dice Zmiro Hamdan, che da una vita fa il portaborse ai deputati arabi della Knesset: «La prima sera dei raid aerei, ho dormito a Gerusalemme. E neanche la sera dopo volevo tornare a casa: quando qui si vota qualcosa contro la nostra gente, i primi con cui se la prendono siamo noi. Mi trovo sempre la macchina sfondata di sassate. Qualcuno che m'insulta. Stavolta no, invece. Torno a casa tutte le sere, senza problemi. Magari mi fermano per strada, per sapere. Magari mi gridano che questo massacro di Gaza è un crimine. Dico anch'io che lo è. E infatti i nostri deputati hanno votato contro. Però non ho paura. Non so perché, ma mi lasciano stare». Don't cry for me, Palestina. La guerra delle pietre non c'è più. Al massimo, si fa la guerra con le scritte. Su una casa all'ingresso di Hebron, l'altra notte qualcuno ha graffitato: «Hebron è la città di Hamas». Lo spray nero è durato lo spazio d'un mattino, quando sono arrivati i solerti attivisti dell'Autorità palestinese, l'Anp, e hanno sbianchettato in modo islamicamente più corretto: «Hebron è la città di Khalil Al Rahman », nome del profeta Ibrahim. Territori silenziosi. Nell'assordante quiete mediorientale che circonda la tragedia della Striscia — gli Hezbollah libanesi che non si danno troppo da fare, l'iraniano Ahmadinejad di poche, insolite parole —, è la calma della Cisgiordania a stupire di più. Sugli ulivi non volano molte pietre. La pax del Fatah regna sovrana e guai a chi solidarizza troppo. A parole i leader dell' Anp s'indignano. "È una vergogna per tutta l'umanità!» (Abu Mazen). «Siamo tutti cittadini di Gaza!» (Saeb Erekat). Nei fatti, loro stanno là a pigliare le bombe e questi, qua, stanno a disarmare le proteste. Anche all'università di Bir Zeit, cuore di tutte le intifade, l'ennesima manifestazione degli studenti integralisti s'è fermata presto e, a respingerla, ha trovato i manganelli e gli scudi della polizia palestinese, quella addestrata in Giordania coi soldi americani. La giornata della rabbia, venerdì scorso, s'è ridotta a qualche scazzottata. «Diffidiamo chiunque dall'avvicinarsi ai nostri check-point — è stato l'avvertimento del capitano Adnan Dameert, portavoce delle guardie fedeli al Fatah —. Ci sono già abbastanza morti a Gaza, per averne qui». I sondaggi dei canali tv palestinesi dicono che la West Bank è un solo corpo con «la resistenza di Hamas», ma quasi nessuno fiata: «Non vogliamo scontrarci con l'Autorità palestinese — riconosce Abdullah Dwaik, fratello del portavoce (in prigione) che Hamas ha designato come presidente al posto di Abu Mazen —, non è il momento di mostrare le divisioni ».
Sempre da pagina 2 , l'analisi di Davide Frattini sulle vittime civili di parte palestinesi "«Combattenti» o «coinvolti» Quale bersaglio è legittimo?":
GERUSALEMME — «Stavo preparando da mangiare per lui, è morto affamato». Masouda al-Samouni ha perso il bimbo di dieci mesi, quando un missile israeliano ha distrutto la casa. La seconda dove aveva cercato rifugio. La famiglia — racconta il New York Times — ha tentato per due giorni di lasciare il quartiere Zeitun, roccaforte di Hamas nella città di Gaza, e allontanarsi dalla battaglia. La Croce Rossa non è arrivata a tirarli fuori. «Nella Striscia non c'è più un posto sicuro. La gente non sa dove scappare», denuncia John Ging, che dirige l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. In undici giorni di offensiva i palestinesi morti sono almeno 600 — secondo stime del quotidiano Haaretz —, un quarto sarebbero civili, calcola l'Onu. La situazione è peggiorata con l'invasione di terra e l'uso massiccio degli obici sparati dai carriarmati e dall'artiglieria. «Sono armi studiate per "coprire" un territorio e non per centrare bersagli specifici — spiega l'esperto israeliano Ron Ben Yishai —. Quando parte il colpo, spesso non c'è il contatto visivo. Sono molto pericolose nelle zone densamente popolate ». Uno studio dall'Intelligence and Terrorism Information Center di Tel Aviv, un gruppo di ricerca sponsorizzato dal Congresso ebraico americano, mostra come Hamas avrebbe costruito la sua infrastruttura militare nel cuore dei villaggi e nel centro della città di Gaza. «Attirare l'esercito israeliano nelle zone residenziali — spiega il documento — è la principale strategia dei fondamentalisti». Le forze armate considerano un obiettivo legittimo le case o le moschee, se vengono utilizzate come depositi di armi. Nel primo giorno di raid, quaranta reclute della polizia di Hamas sono state uccise alla parata per celebare la fine del corso. B'Tselem, organizzazione di Gerusalemme per i diritti umani, ha scritto una lettera a Menachem Mazuz, procuratore generale dello Stato, per protestare contro l'attacco: gli agenti erano stati addestrati a mantenere l'ordine pubblico — dicono gli attivisti — e a fornire primo soccorso. I servizi segreti sostengono invece che i poliziotti, di notte, cambino divisa e aiutino le cellule che lanciano i Qassam. Il Comitato internazionale della Croce Rossa definisce «combattente» chiunque sia «direttamente coinvolto nelle ostilità». I portavoce israeliani scelgono una formula più ampia. «Chiunque sia coinvolto con il terrorismo dentro ad Hamas è un obiettivo valido — dice Benjamin Rutland alla Bbc —, dalle istituzioni militari a quelle politiche che forniscono fondi e risorse umane al braccio armato ». La replica di B'Tselem: «Sostenere che tutti questi uffici o università sono obiettivi legittimi, perché affiliati ad Hamas, è legalmente discutibile. I Qassam contro i civili israeliani sono un crimine di guerra, ci aspettiamo dal nostro governo che non scenda al livello dei fondamentalisti ». Gabi Ashkenazi, capo di Stato maggiore, ha spiegato al gabinetto di sicurezza che l'uso dell'artiglieria sarebbe stato inevitabile durante l'offensiva di terra, anche nelle aree più popolate. «Quando una squadra di soldati finisce sotto il fuoco ed è in difficoltà — spiegano gli analisti Amos Harel e Avi Issacharoff —, viene fatto partire il fuoco di sbarramento per aiutare l'unità a uscirne». All'inizio dell'offensiva, Ehud Olmert, premier israeliano, si è rivolto agli abitanti della Striscia: «Voi non siete i nostri nemici. Hamas, la Jihad islamica e le altre organizzazioni terroristiche sono i nostri nemici e anche i vostri ». Gideon Levy rappresenta una della voci più pacifiste, tra le firme del quotidiano liberal Haaretz. Sostiene che le élite del Paese (non i generali) e la sinistra siano rimaste apatiche, spaventate. «Quale Israele ci troviamo davanti? Quale sarà la sua immagine nel mondo, dopo la guerra a Gaza? — — scrive —. Nessuno sta arrivando in soccorso degli abitanti della Striscia e dei resti di umanità e della democrazia israeliani». Ben Dror-Yemini, editorialista di Maariv, ha evocato da destra lo spettro della Cecenia. «La devastazione portata dai russi non ha risolto la crisi o fermato il terrorismo. E' vero, siamo giustificati: un gruppo fondamentalista e antisemita va sradicato. Non vuol dire che dobbiamo cascare in qualunque trappola preparata da Hamas. Dobbiamo fermarci adesso che abbiamo un vantaggio. L'obiettivo è sradicare Hamas, non noi stessi. Domani potrebbe essere troppo tardi». Il commento è stato pubblicato un giorno prima della strage alla scuola delle Nazioni Unite.
Da pagina 5, l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Mussa Abu Marzuk, braccio destro del capo di Hamas Khaled Meshal, che accusa Abu Mazen di non aver appoggiato l'organizzazione terroristica islamista, "«Abu Mazen ci ha solo criticato Non ha fatto nulla di concreto»":
«Resisteremo! Resisteremo! Non abbiamo alternative. Tutta Gaza è con noi. E gli israeliani lo sanno, combattono da lontano. Usano la superiorità aerea, i carri armati, i cannoni. I loro soldati si guardano bene dall'entrare nel profondo dei centri abitati. Stanno nelle zone coltivate, nelle aree aperte, temono i vicoli stretti, le abitazioni dei campi profughi». La voce di Mussa Abu Marzuk arriva mischiata a cento altri rumori. È stato difficilissimo raggiungere per telefono Abu Marzuk, numero due dell'ufficio politico e braccio destro del leader Khaled Meshaal a Damasco. L'offensiva di terra israeliana si sta allargando, stanno progressivamente eliminando i vostri quadri militari. Cosa pensate di fare? «Combattiamo. Sappiamo che i palestinesi sono con noi e così il mondo arabo e tanta opinione pubblica internazionale. A Gaza vince la parola d'ordine della resistenza ad oltranza». Israele vi accusa di essere i veri responsabili delle sofferenze di Gaza. «Sul campo ci sono due questioni. In primo luogo noi stiamo lottando, siamo organizzati per farlo, a lungo. E lo facciamo con successo. Poi c'è la questione dei civili uccisi dalle truppe israeliane. Hanno distrutto una scuola dell'Onu. Sparano con armi pesanti, che non distinguono tra armati e civili. Ma sono anche spaventati dalla nostra capacità di resistenza, appaiono confusi, tanto che si sparano addosso tra loro». Ma che strategia avete? Sapete bene che Israele è più forte? «Solo combattere. Per ora non ci sono strategie politiche o diplomazie parallele. Il nemico deve smettere di sparare e abbandonare Gaza. Solo allora si potrà aprire un negoziato e parlare di cessate il fuoco». Ma non siete stati voi a rifiutare di rinnovare la tregua scaduta il 19 dicembre? «Non è assolutamente vero. Nei sei mesi di cosiddetta tregua Israele ha compiuto più volte operazioni militari contro di noi. Molti blitz unilaterali che nessuno ha mai denunciato e che hanno causato una quarantina di morti palestinesi. A ciò si aggiungano il blocco economico e il totale isolamento per la popolazione di Gaza. Gli accordi della tregua stipulavano confini aperti. Israele non li ha rispettati ben prima che noi rifiutassimo di rinnovarla, perché nei fatti inutile e vacua ». La diplomazia europea si è messa in moto. Come vede gli sforzi di Nicolas Sarkozy? «Speriamo in un ruolo dell'Europa. Ma il presidente francese deve prima smetterla di sostenere le posizioni israeliane. Continuate a definirci terroristi e difendete la democrazia israeliana a priori. In questi termini non è possibile alcuna mediazione. Sarkozy non è l'uomo giusto. Se invece cambiasse linguaggio, sarebbe benvenuto». E come vede il ruolo del presidente palestinese Abu Mazen? «Abu Mazen non ci ha mai contattato direttamente. Ha condannato gli attacchi israeliani, ma non ha mai fatto nulla di concreto. Anzi, inizialmente ci ha criticati, quasi legittimando l'aggressione israeliana. Ora, dopo tanti morti e i fallimenti israeliani, sta cambiando posizioni. Speriamo che almeno contribuisca ad arrivare al cessate il fuoco, sarebbe molto apprezzato. Voi giornalisti invece dovreste fare di più per raccontare il massacro di Gaza». Cosa intende? «Israele ha bloccato l'intera regione ai media. Così il mondo sa tutto degli abitanti israeliani del Negev. Ma molto poco di ciò che avviene a Gaza. Dovreste protestare con maggior forza contro la censura del regime israeliano. I palestinesi muoiono, ma le nostre sofferenze sono nascoste, tenute sotto tono».
Di Guido Olimpio, da pagina 5, l'analisi "Miliziani tenaci e leader tentennanti", sull'articolazione politica interna di Hamas:
I combattenti di Hamas appaiono tenaci, risoluti, ben addestrati. E su un difficile campo di battaglia danno l'idea di compattezza. O quantomeno dimostrano di essere riusciti a sostenere l'urto. Diverso, invece, il comportamento di alcuni leader che in pubblico dicono una cosa e dietro le quinte ne fanno un'altra. Divisioni rese possibili non solo da contrasti di vedute ma anche dal fatto che alcuni capi di Hamas sono in esilio ed altri vivono nelle catacombe di Gaza. In queste ore accanto ai canali ufficiali (aperti al Cairo) per arrivare ad una tregua ve ne sarebbe un secondo. Fonti americane sostengono che l'ex portavoce del premier Ismail Haniyeh, Gazi Hamad, ha avviato contatti con l'Egitto attraverso Nabil Shaat, uno tra i più celebri negoziatori palestinesi del passato. Una mossa che avrebbe l'approvazione tacita dello stesso Haniyeh. La missione di Hamad sarebbe quella di ottenere la collaborazione di Omar Suleiman, il capo dell'intelligence egiziano che svolge un ruolo fondamentale nei negoziati per arrivare al cessate il fuoco. Hamad e un altro dirigente di Hamas, Ahmed Youssef, sarebbero contrari alle scelte di Khaled Meshal, l'uomo di Hamas che vive a Damasco. A loro giudizio la rottura della tregua e l'attuale confronto con Israele hanno rappresentato un errore grave che costerà parecchio ai palestinesi. Inoltre ritengono che Meshal sia condizionato nelle sue scelte dal rapporto con Siria ed Iran, due Paesi che hanno contribuito al riarmo di Hamas favorendo l'afflusso di razzi e coordinando l'addestramento. Differenze di vedute — aggiungono le fonti Usa — sono anche emerse tra Meshal e un altro personaggio di spicco della diaspora palestinese, Mussa Abu Marzuk. I dissidenti, infine, rimproverano ai «falchi» in esilio di aver stretto un patto d'azione con le Brigate Ezzedin Al Kassam tenendo però fuori i dirigenti locali del movimento. Le unità militari di Hamas non da oggi godono di ampia libertà e non sono mancati casi dove hanno preso l'iniziativa mettendo poi in imbarazzo la nomenklatura politica, in particolare quella di Gaza.
Sulla presa di posizione, che ha fatto seguito a un lungo silenzio, del presidente americano eletto, non ancora in carica, Barack Obama, Ennio Caretto ha intervistato l'analista liberal Paul Berman, " Una dichiarazione cauta perché non può ancora agire", a pagina 3:
WASHINGTON — «È una dichiarazione cauta, che dimostra il suo impegno umanitario. Obama ha rotto il silenzio per denunciare le perdite tra civili israeliani e palestinesi, ma non si è pronunciato su quelle militari. Sa di potere fare poco o nulla per la cessazione delle ostilità, almeno al momento. Ma ritengo che sia pronto a intervenire, non appena assunta la presidenza ». Al telefono da New York, Paul Berman, teorico liberal della diplomazia muscolare, autore di Terrore e liberalismo, dichiara che «Obama ha ragione quando ci ricorda che l'America ha un presidente alla volta». Ma è chiaro, aggiunge, che segue la guerra da vicino e cercherà d'impedire che si ripeta. Che cosa crede che farà? «Il problema di fondo è l'ascesa politica e militare dell'Iran, lo sponsor della guerra del Libano di due anni fa, adesso di quella di Gaza. Obama farà ciò che Bush non è riuscito a fare: creare una coalizione occidentale, mondiale, che contenga l'Iran». In che maniera? «Le democrazie, e non solo loro, devono impedire all'Iran di continuare la sua politica militarista ed egemonica e soprattutto di procurarsi l'atomica. L'Iran è il pericolo più grave per Israele e la Palestina. Hamas e Hezbollah non possono immaginare di sconfiggere militarmente Israele, ma possono immaginare di essere l'avanguardia della forza che lo sconfiggerà, l'Iran». Che cosa significa, che l'Occidente dovrà muovere guerra all'Iran? «Un conflitto più ampio tra l'Occidente e l'Iran deve essere evitato. Ma se l'Iran venisse neutralizzato sarebbe più facile prevenire conflitti come quelli in corso. Il guaio, ripeto, è che Bush è stato inefficace». Durante la campagna elettorale, Obama si disse disposto a negoziare con l'Iran. «Penso che Obama indicasse di volere mobilitare l'Europa, una delle chiavi per la soluzione del problema iraniano». Lei crede sempre in una soluzione politico diplomatica della questione israeliano palestinese? «La soluzione politica è bloccata dalla crisi militare. Ma esiste ed è quella sfiorata dal presidente Clinton nel 2000 e cercata invano in qualche misura anche da Bush. Mi auguro che Obama la attui con l'aiuto di Hillary Clinton, il prossimo segretario di Stato, erede della politica del marito. Però entrambi avranno bisogno di alcuni dei Paesi arabi che per ora, purtroppo, continuano a lanciare segnali nella direzione opposta».
Dalla prima pagina e da pagina 36 del CORRIERE, riportiamo infine due editoriali. Di Pierlugi Battista, "Tregua e retorica":
I numerosi appelli alla «tregua» non possono lasciare indifferente chi sostiene il buon diritto delle operazioni militari condotte da Israele. Di fronte allo scenario straziante di Gaza, dei civili e dei bambini uccisi, delle case sventrate, degli ospedali sovraffollati e drammaticamente a corto di medicinali, l'invocazione di una tregua parla a chiunque abbia a cuore le ragioni dell'umanità e disvela la natura essenzialmente, irrimediabilmente atroce della guerra, persino di quella più «giusta». Anche i civili massacrati nelle guerre di Bagdad e di Beirut, di Kabul e di Belgrado richiamavano l'urgenza di una «tregua». Per fortuna è passato il tempo in cui (basta compulsare le antologie letterarie per sincerarsene) anche gli intellettuali più sensibili cantavano l'ebbrezza bellica, l'estetica della guerra, la mistica della morte, la poesia del combattimento. La morte e la devastazione provocate dalla guerra, oggi, rendono invece improrogabile l'esigenza di una «tregua». Sono le autorità morali e religiose che chiedono la tregua. La chiede il presidente francese Sarkozy. Chiede il «cessate il fuoco » Tony Blair sebbene, come ha maliziosamente notato il suo successore Gordon Brown, in diciotto mesi da che è rappresentante del «Quartetto» in Medio Oriente non abbia mai messo piede nella striscia di Gaza. In Italia si spendono Massimo D'Alema per chiedere la «trattativa» con Hamas, Emma Bonino per la «tregua duratura», Lamberto Dini per il «negoziato». Tutti interventi animati da argomenti che non attengono solo alla sfera «morale», ma anche a quella del realismo politico. Non è dettata dal candore delle «anime belle» la preoccupazione (peraltro, non proprio inedita) che tra i giovani palestinesi l'irruzione a Gaza possa acuire un distruttivo furore anti-israeliano. E non è un argomento capzioso quello di chi invita a non sottovalutare il radicamento di Hamas, partito dedito alla lotta armata terroristica che però è sostenuto dalla maggioranza della popolazione di Gaza. Il fronte della «tregua » non è privo di basi politiche, oltreché morali. Ma è la «retorica della tregua» che rischia di renderle fragili e destinate all'inconcludenza. Tutte le espressioni che modulano con ripetitiva monotonia l'esigenza della tregua, dal «cessate il fuoco» al «tacciano le armi», dai «tavoli della pace» alle «conferenze internazionali per il dialogo » ai «corridoi umanitari », presuppongono una condizione fondamentale che è proprio quella assente nell'inferno di Gaza: la tregua, perché sia tale, si fa sempre in due. E' ragionevole, è realistico, è possibile che Hamas voglia essere una delle due parti a rispettare una tregua? Non l'ha già violata lanciando razzi Qassam sulle città israeliane per fare espressamente vittime civili? E poi, su quali basi è possibile per Israele trattare con chi non nasconde un'ostilità assoluta e non negoziabile verso la sua stessa esistenza? Una condizione asimmetrica talmente evidente che anche i più convinti partigiani della «tregua», e persino i commentatori più critici con le scelte di Israele, non possono fare a meno di notare. Rossana Rossanda, sul «manifesto », è durissima con «gli aerei e i blindati di Tsahal», ma non regala ad Hamas, tragicamente ispirata alla logica del «periscano Sansone e tutti i filistei», l'attenuante del «giustificato risentimento». Chi, a cominciare da Sarkozy, insiste sulla «sproporzione» della reazione israeliana non nega la legittimità di una reazione a un evidente torto di Hamas. Dovrebbe piuttosto indicare con passabile approssimazione quale sarebbe la reazione «proporzionata». Dovrebbe definire quale sanzione sarebbe considerata legittima per chi violasse in futuro una tregua già compromessa con il lancio dei razzi su Ashkelon e Sderot. Dovrebbe spiegare come colmare la latitanza degli organismi internazionali e come ovviare alla tragica mancanza di credibilità dell'Onu che, come ha scritto Angelo Panebianco sul «Corriere», parla senza pudore, attraverso il Richard Falk che rappresenta il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, di «aggressione israeliana». Dovrebbe spiegare se la condanna morale di chi uccide i civili palestinesi è applicabile con la stessa severità ad Hamas, che in uno dei suoi lanci di razzi sulle città israeliane ha colpito per sbaglio proprio due bambini di Gaza. Dovrebbe descrivere con parole moralmente adeguate chi fa delle sue donne e dei suoi bambini altrettanti scudi umani dietro cui mimetizzare bunker e depositi di armi. Dovrebbe indicare in cosa consista esattamente l'alternativa alla guerra e all'intervento militare. Per rendere la parola «tregua» credibile e convincente e salvare Israele come i civili palestinesi.
E quello di Bernard Henri Lévy, "Ostaggi di Hamas":
Non essendo un esperto militare, mi astengo dal giudicare se i bombardamenti israeliani su Gaza potevano essere più mirati, meno intensi. Poiché da decenni non sono mai riuscito a distinguere fra morti buoni e cattivi o, come diceva Camus, fra «vittime sospette» e «carnefici privilegiati», sono evidentemente sconvolto, anch'io, dalle immagini dei bambini palestinesi uccisi. Detto questo, e tenuto conto del vento di follia che, una volta di più, come sempre quando si tratta di Israele, sembra impadronirsi di certi mass media, vorrei ricordare alcuni fatti. 1) Nessun governo al mondo, nessun altro Paese se non l'Israele attuale, vilipeso, trascinato nel fango, demonizzato, tollererebbe di vedere migliaia di granate cadere, per anni, sulle proprie città: in questa vicenda, la cosa più sorprendente, il vero motivo di stupore non è la «brutalità» di Israele, ma, letteralmente, il fatto che si sia trattenuto così a lungo. 2) Il fatto che i Qassam di Hamas, e adesso i suoi missili Grad, abbiano provocato così pochi morti non prova che siano missili artigianali, inoffensivi o altro, ma che gli israeliani si proteggono, vivono rintanati nelle cantine dei loro edifici, nei rifugi: un'esistenza da incubo, in sospeso, al suono delle sirene e delle esplosioni. Sono stato a Sderot, lo so bene. 3) Il fatto che le granate israeliane facciano, al contrario, tante vittime non significa, come sbraitavano i manifestanti dello scorso week-end, che Israele si abbandoni a un «massacro» deliberato, ma che i dirigenti di Gaza hanno scelto l'atteggiamento inverso, di lasciare quindi le loro popolazioni esposte: una vecchia tattica dello «scudo umano » che fa sì che Hamas, come Hezbollah 2 anni fa, installi i propri centri di comando, i depositi d'armi, i bunker nei sotterranei di abitazioni, ospedali, scuole, moschee. Tattica efficace ma ripugnante. 4) Fra l'atteggiamento degli uni e quello degli altri esiste comunque una differenza capitale che non hanno diritto di ignorare coloro che vogliono farsi un'idea giusta e della tragedia e dei mezzi per porvi fine: i palestinesi sparano sulle città, in altre parole sui civili (e questo, in diritto internazionale, si chiama «crimine di guerra»); gli israeliani prendono come bersaglio obiettivi militari e, senza volerlo, provocano terribili danni civili (e questo, nel linguaggio della guerra, ha un nome: «danni collaterali» che, se pur orrendo, rimanda a una vera dissimmetria strategica e morale). 5) Poiché bisogna mettere i puntini sulle i, ricordiamo ancora un fatto al quale stranamente la stampa francese non ha dato risalto e di cui non conosco alcun precedente, in nessun'altra guerra, da parte di nessun altro esercito: le unità de Tsahal, durante l'offensiva aerea, hanno sistematicamente telefonato (la stampa anglosassone parla di 100.000 chiamate) ai cittadini di Gaza che vivono nei pressi di un bersaglio militare per invitarli ad andarsene. Che questo non cambi nulla rispetto alla disperazione delle famiglie, alle vite stroncate, alla carneficina, è evidente; ma che le cose si svolgano così non è, tuttavia, un dettaglio totalmente privo di senso. 6) Infine, quanto al famoso blocco integrale, imposto a un popolo affamato, che manca di tutto e precipitato in una crisi umanitaria senza precedenti (sic), di fatto non è proprio così: i convogli umanitari non hanno mai smesso di transitare, fino all'inizio dell'offensiva terrestre, per il punto di passaggio Kerem Shalom; solamente nella giornata del 2 gennaio, 90 camion di viveri e di medicinali hanno potuto, secondo il New York Times, entrare nel territorio. Tengo a ricordare (infatti, è inutile dirlo, anche se, secondo alcuni, sia meglio dirlo…) che gli ospedali israeliani continuano, nel momento in cui scrivo, ad accogliere e curare, tutti i giorni, i feriti palestinesi. Speriamo che i combattimenti cessino al più presto. E speriamo che al più presto i commentatori tornino in sé. Allora scopriranno che sono tanti gli errori commessi da Israele negli anni (occasioni mancate, lungo diniego della rivendicazione nazionale palestinese, unilateralismo), ma che i peggiori nemici dei palestinesi sono quei dirigenti estremisti che non hanno mai voluto la pace, mai voluto uno Stato e hanno concepito il proprio popolo solo come strumento e ostaggio (immagine sinistra di Khaled Mechaal il quale, il 27 dicembre, mentre si precisava l'imminenza della risposta israeliana tanto desiderata, non sapeva far altro che esortare la propria «nazione» a «offrire il sangue di altri martiri», e questo lo faceva dal suo confortevole esilio, ben nascosto, a Damasco). Oggi, delle due l'una. O i Fratelli musulmani di Gaza ristabiliscono la tregua che hanno rotto e dichiarano caduca una Carta fondata sul puro rifiuto dell'«Identità sionista», raggiungendo il vasto partito del compromesso che, Dio sia lodato, non smette di progredire nella regione, e allora la pace si farà. Oppure si ostinano a vedere nella sofferenza dei loro compagni solo un buon carburante per le loro passioni riacutizzate, il loro odio folle, nichilista, senza parole, e allora bisognerà liberare non solo Israele, ma i palestinesi, dall'oscura influenza di Hamas.
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