Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
I paesi arabi moderati chiedono a Israele di eliminare i capi di Hamas, che non rinnovano la tregua le analisi di Fiamma Nirenstein e del Foglio
Testata:Il Giornale - Il Foglio Autore: Fiamma Nirenstein - la redazione Titolo: «I paesi arabi moderatti a Israele: Uccidete i capi di Hamas - Finita la “tregua”, Israele sotto i razzi cerca la quadra elettorale»
Da pagina 22 de Il GIORNALE del 19 dicembre 2008, riportiamo l'articolo di Fiamma Nirenstein "I paesi arabi moderatti a Israele: Uccidete i capi di Hamas":
A perdere la pazienza sono soprattutto ormai i paesi arabi moderati: una notizia bomba fa rumore fra le decine di missili Kassam e Grad che hanno terrorizzato e ferito gli israeliani di Sderot e dei kibbutz vicini a Gaza alla vigilia della fine della tahadiyeh, la tregua con Hamas, che si conclude oggi. Israele è incerta sull’intervento, ha di fatto già lasciato che la copertura della tregua lasciasse che Hamas si munisse di armi di lunga gittata e di un sistema di difesa efficiente, e consolidasse un grande sistema di tunnel. Il ministro della difesa Ehud Barak insiste nel dire «decideremo stadio dopo stadio qual è la strada migliore», mentre i cittadini di Sderot invocano l’intervento dell’esercito che li salvi dalle bombe. Ma certi Paesi arabi non sono della stessa opinione del mondo politico israeliano: scrive sul quotidiano Ma’ariv il famoso commentatore Ben Caspit che certi messaggi di leader arabi chiedono a Israele di eliminare i capi di Hamas. Uno di questi messaggi dice: «Tagliategli la testa». I leader temono che Hamas ricominci una guerra terroristica capace di infiammare tutta l’area. La leadership di Gaza che si chiederebbe di colpire ha nomi e cognomi, secondo Caspit. Fra gli armati, Ahmad Labari, capo dell’ala militare e Ibrahim Gandur, più volte ferito. Fra i politici, si parla addirittura di Ismail Haniya, il primo ministro, di Said Siam, ministro degli Interni e di Mahmud al Zahar, uno dei leader più duri. Per capire le ragioni dell’eventuale richiesta araba, bastano due fattori. Il primo è quello dell’appartenenza di Hamas ai Fratelli Musulmani, diramata in tutto il Medio Oriente, jihadista senza compromessi contro ogni atteggiamento moderato. Hamas, specie sull’Egitto con cui ha un rapporto molto teso dopo averne rifiutato la mediazione con Abu Mazen e aver disertato con molta sfacciataggine l’incontro del Cairo che avrebbe dovuto costruire l’unità, ha un effetto domino che minaccia i regimi correnti. La seconda ragione riguarda l’Iran, che minaccia i regimi moderati «forse più di quanto minacci Israele», ci dice il vice capo di Stato maggiore Dan Harel. Hamas è ormai una pedina strategica del regime degli ajatollah: Teheran e Damasco sono stati i primi responsabili dell’abbandono del tavolo egiziano da parte di Hamas, in particolare lo è stato Khaled Masha’al, che ha base a Damasco. Questo asse preme perchè Hamas non rinnovi l’accordo di tregua, sia per incastrare Israele in una guerra che lo metta nell’angolo dell’opinione pubblica internazionale, sia per impedire che l’Egitto possa vantare una vittoria strategica moderata. Ma anche i più aggressivi fra i personaggi di Hamas sanno che la linea dura potrebbe essere la loro fine. Israele per ora pare abbia risposto che non leverà le castagna dal fuoco a nessuno: i nostri primi obiettivi, pare pensi la leadership militare, sono i terroristi che sparano i missili sui nostri cittadini, e non i grandi capi.
Da pagina 3 de Il FOGLIO del 19 dicembre 2008, riportiamo l'articolo
"Finita la “tregua”, Israele sotto i razzi cerca la quadra elettorale":
Gerusalemme. Sugli autobus e sui cartelloni delle città israeliane una pubblicità non firmata dice “Bibi? Non gli credo”. Il Bibi in questione, Benjamin Netanyahu ha commentato che “Tzipi Livni sta mettendo in piedi una campagna anonima contro di lui”. La corsa tra il Likud e Kadima in vista delle elezioni di febbraio sconta antichi dissapori e il recente, quasi scontato collasso della questione palestinese, con i Qassam che volano dalla Striscia di Gaza ininterrottamente (40 da martedì), i raid di Tsahal e la maschera della tregua con Hamas che è infine caduta ieri. Anche nei Territori è tempo di elezioni – il 9 gennaio scade il mandato del presidente dell’Anp, Abu Mazen – e la coincidenza temporale non preannuncia nulla di buono. Per Kadima, il partito fondato da Ariel Sharon nel 2005 in seguito alla rottura con il Likud sul ritiro unilaterale israeliano dalla Striscia di Gaza, quelle del 10 febbraio saranno le seconde elezioni nazionali. Ieri ci sono state le primarie per comporre le liste elettorali, ed è stato un tripudio femminile: oltre alla candidata premier Livni, ci sono altre quattro donne nelle prime dieci posizioni, al top Dalia Itzik, speaker del Parlamento. Kadima s’avvicina al Likud, dato per favorito, ogni giorno che passa, “il 45 per cento degli israeliani non sa ancora per chi voterà – dice al Foglio Eyal Arad, uno degli uomini cui Sharon affidò la creazione di Kadima – Il risultato di queste elezioni è ancora in gioco”. A sinistra, i laburisti di Ehud Barak tentano in ogni modo di farsi notare (senza troppo successo) e vanno dicendo che un voto dato a Livni è un voto dato a Netanyahu. “E’ ovvio che il vecchio sistema politico, con destra e sinistra, ha portato il paese a una mancanza di unità – spiega Arad – nella quale prendere decisioni è diventato impossibile. Il sistema politico non è in grado di mettere in atto le decisioni prese, e quando questo accade le cose tendono a deteriorarsi.E’ quello che è accaduto in Israele in ogni campo, dall’economia, all’istruzione alla sicurezza. Ecco perché abbiamo bisogno di qualcuno al di fuori del vecchio sistema che abbia il potere e il coraggio di cambiare questa situazione. Livni incarna questo cambiamento”. Pare di sentire l’eco della campagna elettorale americana, e a guardare i siti e i discorsi la sensazione è confermata: la vittoria di Barack Obama si sente, eccome. Così come si sente al contempo un’aria di solido déjà vu dalle parti del Likud. La critica di Arad nei confronti di Netanyahu è, naturalmente, assoluta: “E’ ostaggio degli ortodossi dell’estrema destra religiosa, ha una cattiva reputazione, Israele non si fida di lui. Non sarebbe in grado di riconquistare la fiducia della gente nel sistema politico, condizione necessaria per il buon funzionamento di un governo. A Bibi importa più di se stesso e dei suoi interessi personali che del resto del paese, e la sua esperienza come premier ne è la prova.Non regge la pressione, va in panico”. E naturalmente ce n’è pure per Avoda, il Partito che, secondo Arad, “non ha futuro, deve decidere se vuole spostarsi ancora più a sinistra e fondersi con il partito di estrema sinistra Meretz o altrimenti, visto ciò che resta di loro, fondersi con Kadima. Oggi i laburisti non hanno una posizione. La sinistra è rappresentata dal Meretz, la destra dal Likud e il centro da Kadima. Non c’è spazio per un altro partito”. Così si ritorna a Bibi contro Tzipi. La sfida che porterà Israele a scegliere una strada da seguire sul dialogo con i palestinesi, sul dialogo con la Siria, sulla battaglia contro la Bomba iraniana, sull’economia che, tutto sommato al riparo dalla crisi finanziaria globale, sta oggi subendo il contraccolpo della truffa di Bernie Madoff. “L’equilibrio fra forza e speranza può venire soltanto dal centro”, conclude Arad, ma la pioggia di Qassam – 190 razzi nell’ultimo mese – fa saltare i pesi della bilancia.