Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
L'Iran tra informazione e stereotipi corruzione, patiboli, presunti riformisti
Testata:Corriere della Sera - Il Riformista Autore: Andrea Nicastro - Francesco De Leo Titolo: «Il «re di Teheran» cresciuto all'ombra di Ahmadinejad - Nel bazar di Isfahan, gli iraniani raccontano tutte le forche di Persia»
Da pagina 17 del CORRIERE della SERA del 12 dicembre 2008 riportiamo l'articolo di Andrea Nicastro "Il «re di Teheran» cresciuto all'ombra di Ahmadinejad".
Ecco il testo:
TEHERAN — Niente cravatta, nessun lusso, anche la rivoluzione ha i suoi vezzi. Il presidente Mahmud Ahmadinejad ne è un testimonial perfetto, il giubbino floscio che indossa fin sul palco dell'assemblea plenaria dell'Onu è diventato un'icona del laico devoto. Vuol dire: «Sono un politico onesto al servizio del popolo nel nome del-l'Islam ». Eppure a Teheran dicono che la villa del suo nuovo ministro degli Interni, Sadegh Mahsouli, sia proprio questa meraviglia al nord della capitale iraniana. Niente foto, gesticola la guardia. Per sentire l'odore dei dollari, però, basta annusare l'aria di montagna. La recinzione è fatta di lance con le punte d'ottone. In quest'area, un metro quadro in condominio costerebbe 5-6mila dollari, la villa del ministro vale milioni e non è una residenza di Stato. È la sfarzosa casa privata del primo ministro. I blogger iraniani sono scatenati contro di lui. Si rimbalzano l'un con l'altro la stessa favola, mai smentita dall'interessato. Eccola. Sadegh Mahsouli ha combattuto la guerra contro l'Iraq, non nell'esercito regolare, ma nelle milizie infiammate dalla fede, i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione. Una decina di anni fa, Mahsouli lascia la divisa proprio come ha fatto il presidente. Le loro strade sembrano dividersi, uno entra in politica, l'altro in affari. Uno fa il sindaco di Teheran. L'altro compra case a 3 piani e ottiene il permesso di abbatterle per costruire torri da 25 piani. Quattro anni fa il nuovo incontro. Mahsouli coordina la campagna elettorale di Ahmadinejad. È il trionfo, ma Mahsouli va ancora per la sua strada. I suoi affari decollano. Dal mattone passa al petrolio. Apre sedi a Dubai, in Turchia, in Turkmenistan. Poi si butta nell'import. Il patrimonio dell'antico pasdaran è oggi stimato in 20 miliardi di dollari, un quinto del budget annuale dell'Iran. Ufficialmente è «solo» di 163 milioni di dollari. «Il saccheggio dei beni pubblici è evidente — denuncia a Teheran, Saied Leilaz, celebre analista economico d'opposizione —. Il presidente ha in mano il credito: nel 2005, in una notte, cambiò i direttori delle sette più importanti banche pubbliche. Ha in mano gli appalti statali. C'è una base pasdaran fuori città, la Khatamolanbia. Era una base logistica che, finita la guerra, si è messa a lavorare per lo Stato. Solo che da 4 miliardi l'anno di contratti, con Ahmadinejad è passata a 20. Quando un'impresa controllata dai Basiji — altra milizia d'ispirazione religiosa— ambisce a una commessa, l'asta pubblica è sospesa. L'ha stabilito Ahmadinejad per legge. Per consuetudine, l'Iran fissava a ogni inizio anno le tariffe doganali. Ahmadinejad, invece, le cambia quando vuole. I cellulari, ad esempio sono passati dal 5 al 65% per poi scendere al 15. Chiaro che chi ha importato 5 milioni di apparecchi proprio prima dell'aumento ha fatto l'affare. Il nome dell'indovino? Lo dicono i blogger: il ministro dell'Interno Mahsouli. «Ahmadinejad sta creando una nuova classe sociale su cui poggiarsi per mantenere il potere » dice Mustafa Tajzadeh, il «ragioniere dei flussi elettorali » del Mosharikat, il principale partito riformista. Per lui dietro «alcune improvvise fortune» c'è una strategia politica. «Ahmadinejad è contro il sistema partitico — dice —, non ha un suo partito e indebolisce quelli esistenti. La sua base sono i mi-litari, organizzati, capillari ed efficienti per ordine di servizio. Noi lo chiamiamo il "partito delle caserme"». Il Mannheimer persiano comincia a elencare dal dito mignolo: «Ahmadinejad ha cercato di azzoppare la banca privata Parsian — vicina all'ex presidente Khatami, ndr —. Poi — ed è l'anulare — di mettere sotto controllo l'università Azad — vicina all'altro ex presidente Rafsanjani, ndr —. Quindi ha chiuso i giornali riformisti, da Sharq — il dito medio, di area Rafsanjani — all'Amihan - dito indice, sempre in orbita riformista —. Sono troppi i casi per citarli tutti. Il progetto è lasciare campo aperto solo al "partito delle caserme": unico in grado di mobilitare e organizzare la società" ». Per la prima volta da trent'anni, sulle poltrone chiave dell'esecutivo non siedono più dei clerici, i «turbanti », ma dei laici: alla presidenza del Parlamento, al ministero della Cultura e della Guida Islamica, al ministero della Giustizia. Dopo che un ministro di Ahmadinejad aveva parlato di amicizia con il «popolo israeliano» ed era stato rimproverato dagli ayatollah, un consigliere del presidente ne ha preso le difese. «È meglio che i clerici si occupino di religione e lascino il governo ai ministri». Una bestemmia nel Paese del Velayat- e Faqih, la guida del saggio religioso. «In questi tre anni i gruppi moderati di destra e di sinistra si sono avvicinati cacciando gli estremisti ai margini. Il futuro sarà del centro» sostiene Khosh Chehreh, professore di economia politica ed ex deputato conservatore. Nelle definizioni del professore gli estremisti di sinistra sono i giovani che chiedevano democrazia ai tempi delle riforme di Khatami, gli estremisti di destra sono i «militari ». La resa dei conti tra i due gruppi arriverà in giugno, alle elezioni presidenziali. Il volto della metamorfosi del potere iraniano è una bizzarra contraddizione: i possibili candidati «conservatori» sono ex militari di mezza età laici. I candidati «riformisti» hanno in testa il turbante del religioso e hanno superato ampiamente i sessant'anni. La sfida è diventata tra la vecchia guardia della rivoluzione islamica e i «giovani» leoni sopravvissuti alla guerra con l'Iraq. A difendere con il voto e la politica l'idea di una riforma democratica non è rimasto nessuno.
Sempre sul CORRIERE a pagina 17 l'articolo di Nicastro "Dobbiamo impedire la morte delle riforme" è dedicato all'ex presidente iraniano Mohamed Khatami, un "riformista" che ha ingannato la comunità internazionale sul programma nucleare, che nega il diritto all'esistenza di Israele che represse brutalmente il dissenso studentesco, ma che continua a godee di buona stampa. Ecco il testo dell'articolo, che non fa eccezione:
TEHERAN — L'ex presidente Mohamed Khatami ha il sorriso di sempre. Aperto, disarmante, autoironico. «Il problema dell'Iran — dice sornione — è la pazienza. Se un qualunque incapace come me arriva al potere, ci aspettiamo che sciolga in una notte ciò che è stato ingarbugliato in anni». Quando gli iraniani lo videro per la prima volta, rimasero stupefatti. Un «turbante» che sorride. Erano abituati al volto grave dell' Imam Khomeini, alla severità di Rafsanjani. Khatami veniva da un biblioteca, non dai campi di battaglia né dalle prigioni. Parlava di riforme e di «azadì» (libertà). Lo votarono in massa, ma le riforme istituzionali non arrivarono. Ahmadinejad è stato eletto perché chi aveva creduto in Khatami non è andato alle urne per protesta. Ora, tra i supersiti dello schieramento «riformista» e gli avversari del progetto «militarista» di Ahmadinejad, si parla ancora di Khatami come del miglior candidato alla corsa presidenziale nel giugno 2009. A conclusione di un incontro con i circoli politici amici a Teheran, Khatami ragiona sugli errori commessi e le prospettive future. Ad ogni parola sembra mettere le mani avanti, il Khatami che potrebbe sfidare Ahmadinejad a giugno (la riserva non è caduta) non sarà lo stesso che protestava contro il sistema politico sussurrando «non mi lasciano lavorare». L'Iran è cambiato e con esso anche ciò che si può o non si può promettere. «Non dobbiamo vivere di fantasie — dice —. Il mio governo aveva programmi precisi su sicurezza, sviluppo delle istituzioni civili, economia e rapporti internazionali. Ma molti "riformisti" avevano aspettative irrealistiche e ingiuste nei miei confronti. Ogni movimento sociale deve essere al passo con la reale volontà della gente. Le istituzioni civili, i partiti, la stampa: è vero con me presidente non hanno trovato stabilità. Ma l'errore è stato nel governo o nella società?». Eravate troppo «avanti» rispetto alla gente? «Se chiediamo a un iraniano se vuole la libertà, essere padrone della sua vita, interloquire con lo Stato, accedere ad informazioni complete certo dirà di "sì". Ma se gli chiediamo se vuole la libertà dalle potenze straniere, risponderà ugualmente sì». O democrazia o indipendenza? «Bisogna capire come raggiungere entrambi gli obbiettivi. Fino ad ora non ci siamo riusciti». Ci spera ancora? «La concorrenza politica in Iran è tra punti di vista. Sfumature diverse restano anche tra vari clan e tribù. La prospettiva riformista sta per essere eliminata dall'ambito del potere. Dobbiamo impedirlo ».
Da pagina 13 del RIFORMISTA l'articolo di Francesco De Leo "Nel bazar di Isfahan, gli iraniani raccontano tutte le forche di Persia":
Isfahan (Iran). «Ho assistito personalmente ad una pubblica impiccagione», mi dice Mohsen, un negoziante che incontro a Isfahan, una delle città più belle del mondo islamico. Avrà una trentina d’anni, vende pietre preziose, il suo laboratorio è pieno di gente e mi chiede di pazientare. «Fu quattro anni fa…li appesero a una gru…qui a Isfahan in una zona periferica, ma molto popolata della città», mi dice abbassando la voce. Cosa hai provato? «Ero lontano, non vedevo chiaramente, intuivo quanto avveniva…comunque un sentimento molto amaro». Mentre parliamo, si siede, il negozio è ora vuoto, gli chiedo di che reato si fosse macchiato il condannato. «Era entrato in un appartamento, aveva rubato e…prima di andar via si era accorto della presenza di una donna. L’aveva violentata e picchiata prima di scappare, una cosa assurda, gravissima ». Condividi questa forma di giustizia? «Sono casi terribili, non trovi?» mi dice guardandomi negli occhi e comprendendo il mio imbarazzo. «Non condivido la pena di morte quando è usata per motivi politici, contro chi fa opposizione, questo sì. Non esiste in nessuna parte del mondo uccidere chi si oppone al governo. Ma contro criminali di questa specie », prosegue sorseggiando il tè, «non riesco a vedere altra soluzione ». E la gente che presenzia? «È tanta. È una precisa scelta farlo in aree con grande densità di popolazione. Questo non lo condivido, bisognerebbe eseguire le sentenze in zone apposite, non in pubblico. Ricordo che quel giorno anche altra gente di fianco a me era della mia stessa opinione». Ad Isfahan, detta “la metà del mondo”, il freddo oggi è pungente, la temperatura vicino allo zero. Nella bottega entrano due amici del negoziante, incuriositi dal discorso si avvicinano per dire la loro. «Personalmente sono contrario alla pena di morte », dice uno dei due rivolgendosi a Mohsen. «Credo ci possano essere altre vie per contrastare i reati più gravi, per esempio provare ad educare questa gente». «Non condivido», gli risponde Mohsen, «la nostra società piomberebbe nella paura e nell’insicurezza». L’altro annuisce. Gli chiedo se il carcere non sarebbe un modo più civile di fare espiare la colpa. «Mandando i criminali in prigione non si risolvono i problemi, la condanna a morte resta una punizione esemplare». Ha mai assistito a qualche esecuzione pubblica? «No, non mi è mai capitato. Ho assistito, qualche tempo fa, a una fustigazione di quattro uomini. Avevano molestato delle donne, li frustarono a sangue e ritengo sia stato giusto punirli». Sono sulla porta del negozio per salutare e ringraziare quel negoziante di Isfahan così gentile. Di fronte a me la meravigliosa Imam Square, chiamata Naqsh-E Jahan, che significa «il modello del mondo». Si avvicina un suo collega, vende tappeti nel locale affianco. «Guardi che ascoltavo quanto chiedeva. Vorrei dirle… non so se ne è a conoscenza…che qui in Iran, qualora la famiglia di una vittima volesse perdonare un omicida, questi potrebbe essere liberato». L’uomo del bazar ha ragione, si chiama «il prezzo del sangue», è il compenso equo, il risarcimento che potrebbe essere chiesto a un assassino condannato alla pena capitale da chi ha subito il reato. È qui che la barbarie della pena di morte si somma alla barbarie della faida. L’intero sistema iraniano si colloca in una prospettiva più simile a quella antica medievale europea, che non a quella di un normale stato di diritto, in cui le norme sono applicate in base a un principio di interesse generale e non in base alla soddisfazione della propria voglia di vendetta personale. Ringrazio Mohsen per la sua ospitalità, gli dico che avrei voluto ascoltare delle donne, ma in negozio avevo paura di metterle in difficoltà. «Aspetta», mi dice facendomi cenno di seguirlo. «Ti accompagno da Anahita, è una mia amica artista, bravissima, sicuramente sarà contenta di darti il suo parere». Il sole è bassissimo, attraversiamo la piazza, è meravigliosa, sconfinata, 512 metri di lunghezza e 163 di larghezza. Fu concepita per ospitare i più raffinati gioielli architettonici dell’impero safavide e alle sue estremità si vedono ancora i pali delle porte in marmo usate per le partite di polo di 400 anni fa. Seguo Mohsen, con la piacevole sensazione di perdermi nel bazar. Mi saluta, presentandomi Anahita. E’ una ragazza elegante, disegna miniature, qui si chiamano negargarè, mi accoglie con un bellissimo sorriso nel suo laboratorio, pieno di pennelli e colori. «Sono famose in tutto il mondo le miniature persiane e quelle più pregiate sono quelle prodotte qui a Isfahan», mi dice, mentre con grande orgoglio mi mostra alcuni dei suoi lavori più belli. Scene di caccia, partite di polo e coppie in abiti tradizionali ritratte al momento del corteggiamento, i soggetti più utilizzati, che tanto contrastano con il tema delle mie domande. «Questo è il mio lavoro, la mia passione, il mio diletto. A furia di occuparmi di disegni, di sfumature di colori, di arte…ho acquisito una sensibilità diversa, una particolare leggerezza d’animo. Quando sento parlare di violenza e morte mi riempio di tristezza, non riesco a capire come si possa condannare un uomo alla morte, quando esiste il carcere per espiare le proprie colpe». Anahita parla lentamente, il suo linguaggio è musicale. Intorno a lei è pieno di terrine bianche con i colori degli acquerelli pronti ad essere usati. Qual è secondo te la motivazione per cui tanti iraniani, anche giovani come te, si dicono d’accordo con la pena capitale? «Non li giustifico, ma li comprendo…in questi ultimi anni non hai idea di quanto sia aumentata la violenza, specialmente sulle donne. Molestie e stupri da parte di giovani e anziani aumentano in modo terrificante. Magari tanti intervistati appartengono a famiglie che hanno subito drammi del genere e sono feriti, spaventati. Voglio citarti un episodio che mi riguarda», mi dice Anahita, con un tono di voce che tradisce emozione. Si arresta, mi guarda e abbassando lo sguardo ripone il pennello nell’acqua. «L’anno scorso, sono salita su un taxi collettivo. Durante la corsa tutti gli altri viaggiatori erano scesi. Ero rimasta sola. L’autista imboccò una strada isolata, arrestò l’auto e cercò di approfittare di me…Riuscii ad aprire la portiera e a scappare. Quando tornata a casa raccontai terrorizzata a mio padre quanto successo, lui perse la testa, per giorni andò in giro cercando quel tipo. Non so cosa avrebbe fatto… se l’avesse trovato». Anahita mi accompagna alla porta. Fuori è ormai buio, siamo vicini alla Moschea dell’Imam, arricchita da splendidi mosaici di piastrelle azzurre. Incrociamo due donne religiose, coperte dallo chador, mentre si recano in moschea. Chiedo loro cosa pensano della scelta del proprio governo di contrastare con fermezza qualsiasi moratoria contro la pena di morte. «Il governo non c’entra. Alla base di queste scelte ci sono motivazioni religiose e non possiamo non condividerle. Sono le leggi costituzionali del nostro Paese, sono basate sull’Islam. Ricordi poi…che crediamo fermamente alle parole della nostra Guida Suprema. Le sue sono le nostre parole». Si è fatto tardi, la piazza dell’Imam è illuminata. Non poteva non pensare a questo posto, Robert Byron, quando di Isfahan disse: «è tra quei rari luoghi in cui l’umanità trova comune sollievo».
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