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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.12.2008 La questione pachistana
le possibili risposte indiane all'attentato di Mumbai, la necessità di ripensare la sovranità nazionale nell'era del terrorismo

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: la redazione - Robert Kagan
Titolo: «Così l'India organizza in Afghanistan una rete contro il Pakistan - La sovranità nazionale? Il Pakistan deve meritarsela»
Dalla prima pagina del FOGLIO del 7 dicembre 2008, riportiamo l'articolo "Così l'India organizza in Afghanistan una rete contro il Pakistan":

Nuova Delhi. Riunioni a porte sbarrate per approvare il piano di rappresaglia contro il Pakistan. I vertici politici e militari dell’India sono in crisi di credibilità dopo il fallimento dei servizi di sicurezza – incapaci di prevenire e bloccare l’attacco a Mumbai – e vogliono riscattarsi in fretta. Non basta l’arrivo del nuovo ministro dell’Interno, Palaniappan Chidambaram, uno con la fama di duro, che ieri ha fatto arrestare due persone che avrebbero fornito le sim per i cellulari del commando che ha dato l’assalto a Mumbai. I generali premono almeno per un attacco aereo contro il complesso di Muridke, sede centrale del Jamaat ul Dawah, la facciata politica del movimento terrorista Lashkar-e-Taiba. Lo stato maggiore chiede al governo di dichiarare Muridke “obiettivo nemico” e poi di autorizzare il raid: come giustificazione cita gli attacchi quasi quotidiani dei droni americani contro i nascondigli nelle aree tribali di talebani e al Qaida. Due giorni fa il segretario di stato di Washington, Condoleezza Rice, e il capo di stato maggiore, l’ammiraglio Mike Mullen, sono volati a Nuova Delhi per evitare l’escalation militare e trattenere l’esercito indiano, che considera ogni ritardo nell’azione punitiva un segno di debolezza. Mullen ha elogiato in una nota ufficiale la freddezza delle forze armate. Ma l’India ha piani d’attacco che aspettano dal dicembre 2001, quando terroristi di Lashkar-e-Taiba assaltarono il Parlamento indiano. Nei mesi successivi il conflitto tra i due paesi – che per il giornalista pachistano Ahmed Rashid “vivono in uno stato di guerra mentale permanente” – non scoppiò per un soffio. L’intelligence americana scoprì che il primo di giugno gli indiani avrebbero sfondato la Linea di controllo del Kashmir per distruggere i campi d’addestramento dei terroristi. Soltanto la minaccia di ritirare in 24 ore tutti gli uomini d’affari americani, inglesi e tedeschi dall’India, con grave danno per l’economia del paese, fermò l’attacco. Secondo Jon P. Dorschner, professore americano all’Accademia militare e autore di un dossier sull’argomento, oggi l’India ha tre opzioni di rappresaglia contro il Pakistan. Può scegliere due vendette a viso scoperto: un raid contro i campi terroristi con elicotteri e forze speciali o un bombardamento aereo. Oppure può scegliere di intensificare la sue contro-operazioni clandestine. In tutti e tre i casi, deve affrontare alcuni problemi. Dal 2001 i campi dei terroristi nel Kashmir, che prima erano a ridosso del confine, sono stati spostati più in profondità. Sono stati piazzati anche vicino a installazioni dell’esercito: così le truppe indiane non possono attaccare senza mettere in allarme quelle pachistane. Inoltre, in periodi di tensione come questo, i campi sono svuotati. E se i soldati indiani fossero presi in trappola, sarebbe un successo glorioso per Islamabad e un’ulteriore umiliazione per Nuova Delhi. L’opzione bombardamento appare più facile: Muridke è un complesso vulnerabile di circa 50 ettari in mezzo alle zone pianeggianti del Punjab, senza difese naturali e a pochi minuti di volo dalle basi aeree indiane. Non può essere occultato o spostato. I seguaci che lo frequentano sono circa tremila e vivono secondo i precetti più austeri dell’islam. Il Punjab è però l’area a maggior densità di difese antiaeree e di basi dell’aviazione pachistana. La reazione sarebbe immediata e lo scontro nei cieli in poche ore potrebbe degenerare in un conflitto su scala maggiore. Resta l’opzione “guerra clandestina”. Gli ambienti militari indiani sono grandi sostenitori delle campagne di eliminazione mirata condotte dagli israeliani contro i terroristi arabi e hanno già chiesto consulenze speciali a Gerusalemme. L’uccisione dei leader di Lashkar-e-Taiba e del Jaish-e- Muhammad sarebbe un grave colpo per il groviglio di movimenti islamisti che minaccia l’India. Ma i servizi segreti indiani, il Raw, hanno piani ancora più duri. Stanno organizzando in Afghanistan, nel cortile di casa del Pakistan, una rete antipachistana. Nuova Delhi ha un’ambasciata a Kabul e ben quattro consolati, a Kandahar, Jalalabad, Mazar-i-Sharif e Herat, che servono da basi di lancio per operazioni clandestine. Per portarle a termine, le spie indiane reclutano afghani e pachistani e stringono contatti utili con l’intelligence di Kabul. A proteggere le sedi diplomatiche e le proprie imprese, l’India manda anche piccoli ma sospetti contingenti militari, inclusi i Gatti neri, i corpi speciali che sono intervenuti a Mumbai. E addestra i “ferraris”, i dissidenti separatisti del Beluchistan, facendoli poi rientrare in Pakistan da nord. Così in Afghanistan si sta materializzando il grande accerchiamento, la sindrome più profonda e paurosa del comando militare pachistano.

Da pagina 28 del CORRIERE della SERA, riportiamo l'analisi di Robert Kagan "La sovranità nazionale? Il Pakistan deve meritarsela":

«Non pensiamo che le grandi nazioni e gli altri Paesi del mondo possano essere tenuti in ostaggio da agenti non appartenenti a uno Stato», ha detto, il primo dicembre, Asif Ali Zardari, presidente del Pakistan. Bene. Ma che cosa deve fare il mondo quando questi agenti non appartenenti a uno Stato muovono dal territorio di uno Stato e sono creazioni dei servizi segreti di quello Stato?
Comprendiamo la difficile posizione di Zardari. Non sono stati né lui né il suo governo ad addestrare e aiutare le organizzazioni terroriste pachistane responsabili, molto probabilmente, degli attacchi di Mumbai. E non è nemmeno colpa sua se Al Qaeda, i talebani e altri gruppi pericolosi svolgono le loro attività in Waziristan e nelle Aree tribali amministrate federalmente del Pakistan occidentale, da cui lanciano attacchi alle truppe statunitensi ed europee che cercano di portare la pace in Afghanistan.
Di questo dobbiamo ringraziare elementi dell'esercito e dei servizi segreti pachistani, e l'ex dittatura militare di Pervez Musharraf.
Far cessare le politiche di sostegno a questi gruppi, andate avanti per decenni, è probabilmente impossibile per qualsiasi leader pachistano, soprattutto quando le uniche forze in grado di sradicarli sono le stesse che li hanno fatti nascere e che li alimentano. Perciò, se il mondo non può accettare di essere tenuto in ostaggio da agenti non appartenenti a uno Stato che operano dal Pakistan, che cosa si può fare? L'amministrazione Bush fa bene a spingere il Pakistan a collaborare senza riserve nelle indagini indiane sugli attacchi di Mumbai, ma questo potrebbe non servire a molto.
I servizi segreti pachistani hanno già rifiutato di inviare i loro responsabili in India a questo scopo. E non basterà la cooperazione del Pakistan a calmare la rabbia degli indiani. Come gli americani dopo l'11 settembre 2001, anche loro vogliono che vengano prese delle iniziative concrete contro i gruppi responsabili degli attacchi.
Tutti i moniti del mondo potrebbero quindi non essere sufficienti a prevenire un attacco dell'India, considerata anche la vulnerabilità politica del suo governo, anche se il rischio è quello di un'altra guerra indo-pachistana. Invece di limitarsi a raccomandare moderazione agli indiani, sarebbe meglio trovare una risposta a livello internazionale. La comunità internazionale dovrebbe dichiarare che alcune aree del Pakistan sono divenute ingovernabili e rappresentano una minaccia per la sicurezza internazionale, e costituire un contingente militare internazionale che assieme ai pachistani lavori per eliminare i campi terroristi in Kashmir e nelle aree tribali. Questo avrebbe il vantaggio di impedire uno scontro militare diretto tra India e Pakistan e permetterebbe al governo pachistano di salvare la faccia ristabilendo, con l'aiuto della comunità internazionale, la sua autorità nelle zone in cui l'ha persa. Che a Islamabad piaccia o no, la comunità internazionale e gli Stati Uniti non hanno forse il dovere di dimostrare agli indiani che considerano gli attacchi contro l'India con la stessa serietà con cui considerano quelli indirizzati a loro stessi? Un'iniziativa del genere sarebbe una violazione della sovranità pachistana? Sì, ma le nazioni non dovrebbero rivendicare il diritto di sovranità quando non riescono a controllare un territorio da cui vengono lanciati attacchi terroristi. Se esiste una «responsabilità di proteggere», che legittima l'intervento internazionale per impedire una catastrofe umanitaria causata o non impedita da un governo nazionale, deve anche esserci una responsabilità a proteggere i vicini da attacchi provenienti dal proprio territorio, anche quando gli agenti sono «senza Stato».
Nel caso del Pakistan, la continua complicità dei militari e dell'intelligence con i gruppi terroristi fa venir meno le pretese di rispetto della sovranità. L'amministrazione Bush ha cercato per anni di lavorare sia con il governo militare che con quello civile, stanziando miliardi di dollari per aiuti e armi avanzate. Come ha notato Ashley Tellis, mio collega al Carnegie Endowment, quella strategia non ha avuto molto successo, e dopo Mumbai va considerata un fallimento. Finora i militari e l'intelligence sono stati più interessati a esercitare la loro influenza in Afghanistan attraverso i talebani e a combattere l'India in Kashmir a mezzo di gruppi terroristi piuttosto che a prendere provvedimenti contro di essi.
Forse hanno bisogno di uno stimolo diverso — ad esempio la prospettiva di vedere parti del loro Paese sottoposte a un'amministrazione internazionale.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite autorizzerebbe un'azione di questo genere? La Cina è stata alleata del Pakistan e l'ha protetto, e la Russia potrebbe avere motivi per opporsi a una risoluzione di questo tipo. A nessuna delle due piace l'idea che vengano infrante le barriere della sovranità nazionale (con l'eccezione, per quanto riguarda la Russia, della Georgia). È la ragione per la quale ostacolano le pressioni internazionali sul Sudan per il Darfur, come anche quelle sull'Iran e su altri Stati canaglia.
Sarebbe un ulteriore test per Cina e Russia, che dovrebbero essere nostri alleati nella guerra contro il terrorismo, per verificare se abbiano un vero interesse a combattere il terrorismo fuori dei loro confini. Se un'azione di questo genere fosse presa in considerazione dalle Nazioni Unite il Pakistan potrebbe anche convincersi a collaborare volontariamente.
In un modo o nell'altro, sarebbe utile che Stati Uniti, Europa e altre nazioni cominciassero a far capire al Pakistan e agli altri Stati che offrono asilo ai terroristi che non devono dare per scontato il rispetto della loro sovranità.
Nel Ventunesimo secolo il diritto alla sovranità nazionale bisogna saperlo meritare.
Distributed by The New York Times Syndicate
Traduzione di Maria Sepa

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