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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Messaggero - Il Manifesto - La Stampa Rassegna Stampa
05.12.2008 Scontri a Hebron tra esercito israeliano e coloni
le cronache scorrette di Eric Salerno e Michele Giorgio, a confronto con quella corretta di Francesca Paci

Testata:Il Messaggero - Il Manifesto - La Stampa
Autore: Eric Salerno - Michele Giorgio - Francesca Paci
Titolo: «Piano per bombardare l'Iran senza l'appoggio Usa - Via i coloni-ultrà, è caccia all'arabo in Cisgiordania -»
"Il "Jerusalem Post" " scrive Eric Salerno sul MESSAGGERO del 5 dicembre 2008, "parla di preparativi israeliani per attaccare l'Iran "anche senza il sostegno americano", ma la vera guerra è in corso a Hebron  dove i coloni hanno vandalizzato le proprietà dei palestinesi e sparato contro gli arabi ferendone almeno tre".

Sono le prime righe dell'articolo "Piano per bombardare l'Iran senza l'appoggio Usa", pubblicato dal quotidiano romano a pagina 3, e sono un concentrato di disinformazione.
A Hebron, intanto, non è in corso una guerra, e certamente nulla di paragonabile per gravità alla crisi provocata dal programma nucleare di un paese (l'Iran) che vuole cancellarne un altro (Israele) dalla faccia della terra.
Gli scontri, poi, sono avvenuti in primo luogo tra coloni e soldati israeliani, impegnati nello sgombero di una casa abitata dai primi, sulla base dui un dubbio contratto di vendita.
Salerno lo riferisce poco oltre, ma inventa che il governo israeliano "permette agli estremisti religiosi di scatenarsi contro i palestinesi".
Degli spari di cui scrive, non c'è traccia in altri resoconti, mentre dal suo scompaiono i colpi di arma da fuoco che effettivamente sono stati esplosi da palestinesi contro le guardie di frontiera israeliane, dopo lo sgombero della casa abitata dai coloni.

Salerno dunque distorce la vicenda di Hebron, nella quale ciò che conta è che l'esercito israeliano ha ristabilito la legge e l'ordine, scontrandosi con i coloni estremisti, trasfomandola in un episodio di violenza contro i palestinesi tollerato da autorità israeliane inerti o complici.
Inoltre, usa l'episodio per sviare l'attenzione dei lettori dalla minaccia iraniana all'esistenza stessa di Israele, irrilevante di fronte alla "vera guerra" di Hebron.

Distorisioni simili a quelle contenute nell'articolo di Salerno si possono trovare in quello di Michele Giorgio pubblicato dal MANIFESTO a pagina 11, "Via i coloni-ultrà, è caccia all'arabo in Cisgiordania"

Ci sono voluti 600 uomini dell'unità antisommossa della polizia israeliana per evacuare ieri i coloni ebrei che occupavano un edificio palestinese di quattro piani a Hebron. Un'operazione complessa - in esecuzione di una sentenza dell'Alta Corte di giustizia - scattata a sorpresa in pieno giorno, preceduta da un incontro tra il ministro della difesa Ehud Barak e i rappresentanti dei settler e, soprattutto, seguita da raid punitivi degli estremisti di destra israeliani contro i palestinesi a Hebron e in molte altre località della Cisgiordania occupata e persino a Gerusalemme.
Ieri sera era in corso quello che la stampa locale ha definito «l'Intifada ebraica», con i coloni più violenti che dopo aver dato fuoco ad abitazioni palestinesi ad Hebron, hanno ottenuto immediato appoggio dai loro compagni in molte altre località che hanno bloccato strade, innescato scontri con i palestinesi agli svincoli di Hawara, Turmusaiya, Beit Iba, Burin, Ramallah e Qalqiliya, e preso di mira anche i soldati israeliani tanto da costringere l'esercito a proclamare «area militare chiusa» l'intera Giudea, così come i nazionalisti israeliani chiamano la parte meridionale della Cisgiordania. La televisione pubblica palestinese da parte sua ha lanciato appelli alla «resistenza» contro le aggressioni mentre il presidente dell'Anp Abu Mazen ha invocato l'intervento del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Si è trattato di una tremenda dimostrazione di forza da parte dei coloni, paragonabile alle proteste per lo sgombero dell'avamposto di Amona, all'inizio del 2006.
Eppure queste manifestazioni violente forse turbano solo fino ad un certo punto i leader israeliani che potrebbero servirsene ai tavoli della diplomazia internazionale. La rivolta dei coloni conferma, dal punto di vista israeliano, quello che il ministro della difesa Barak e altri esponenti del governo affermano da tempo, ossia che una evacuazione forzata dei coloni rischierebbe di «scatenare una guerra civile ebraica». Di conseguenza, i palestinesi non possono «pretendere» la restituzione di tutta la loro terra occupata nel 1967. Proprio Hebron è uno dei maggiori focolai di passioni religiose e nazionalistiche.
Un centro abitato da ben 160mila palestinesi ma che Israele, permettendo subito dopo il 1967 a centinaia di coloni ebrei di insediarsi nei pressi della Tomba dei Patriarchi, luogo di culto ebraico-islamico di eccezionale importanza, ha trasformato in una «città contesa» fino a ottenerne la divisione in due zone: H1, sotto il controllo dell'Anp, e H2, sotto l'autorità dell'esercito e della polizia dello Stato ebraico. In una città «contesa» non sorprende che l'edificio tenuto sino a ieri dai coloni sia stato chiamato dalla stampa israeliana «la casa della discordia», e non «la casa occupata». L'operazione di ieri, a lungo rinviata dalle autorità israeliane, tutto sommato non è stata così difficile. Si è conclusa nel giro di un'ora con una ventina di contusi, inclusi alcuni agenti di polizia. I coloni in realtà non avevano intenzione di arrivare ad uno scontro vero con la polizia, che avrebbe comportato inevitabili conseguenze penali.
Il loro principale obiettivo era attaccare i palestinesi, a Hebron e in altre località, nel tentativo di scatenare una reazione a catena. Così in televisione si sono viste scene in cui giovani coloni - molti appena adolescenti - urlavano e si divincolavano mentre venivano trascinati dagli agenti fuori dalla casa occupata. Dentro lo stabile, al momento del blitz della polizia, si trovavano solo poche decine e non centinaia di coloni come aveva annunciato qualcuno. L'unico vero atto di violenza dei coloni contro la polizia è stato il lancio di una sostanza acida verso un agente che è stato ricoverato d'urgenza in ospedale. Ben diverso quello che è accaduto contro i palestinesi: centinaia di settler hanno sfogato la loro rabbia con sassaiole, dando fuoco a copertoni di automobili, attaccando e dando fuoco case palestinesi, danneggiando proprietà e prendendo di mira l'abitazione di una famiglia palestinese, situata a poca distanza dall'edificio sgomberato.
Almeno tre palestinesi sono stati feriti da colpi d'arma da fuoco. La radio statale israeliana ha parlato di «pogrom» contro gli arabi. La furia degli estremisti della destra religiosa ha investito anche Gerusalemme, dove decine di giovani hanno cercato di bloccare l'accesso all'autostrada che collega la città alla costa, dando del «nazista» agli agenti giunti per disperderli. «Non finisce qui, torneremo ancora una volta. Tutte queste case un giorno saranno nostre», ha avvertito uno dei leader dei coloni, Naftali Woldman, indicando le abitazioni palestinesi di Hebron.

Più equilibrato il resoconto di Francesca Paci, a pagina 17 de La STAMPA ,"Israele, soldati contro coloni". Il titolo scelto dalla redazione per il richiamo in  prima pagina, "L'Intifada ebraica", che per altro riprende un'espressione del quotidiano israeliano Ha'aretz, sembra piuttosto sensazionalistico:  le due "intifade" palestinesi furono lunghi cicli di violenza, anche di natura terroristica. All'"intifada ebraica", dunque, al momento sicuramente non siamo arrivati.

Ecco il testo di Paci:

«Presto i coloni arriveranno anche qui, ci hanno già bruciato la macchina tre volte». Suleiman Abu Saifan scruta la colonna di fumo nero dalla veranda ingombra di panni stesi. Le camere della casa che dal 1964 divide con i sei fratelli e le rispettive famiglie affacciano sul passato, il filo spinato che circonda Qiryat Arba, l'insediamento ebraico in cui viveva Baruch Goldstein, il medico israelo-americano che nel '94 fece irruzione nella moschea al Ibrahimi di Hebron e massacrò 29 musulmani raccolti in preghiera. Dalla balconata coperta, invece, Suleiman vede il presente, la collina dell'edificio conteso, quello sgomberato ieri da 600 militari israeliani armati di granate e scudi di plastica. I 250 coloni che l'hanno occupato all'inizio dell'estate lo chiamano Beit HaShalom, casa della pace. Per tutti gli altri è la House of Contention per via del contenzioso con i proprietari palestinesi, risolto il mese scorso dall'Alta Corte di Giustizia di Gerusalemme con l'ordine di liberare immediatamente lo stabile. Dopo essere stati trascinati fuori dai soldati come a Gaza nel 2005 e a Amona nel 2006, decine di giovani coloni si sono dispersi nella campagna di Hebron e hanno attaccato con pietre e taniche di benzina le abitazioni dei palestinesi, ferendo due uomini e un bambino.
L'«intifada ebraica», come l'ha definita il quotidiano israeliano Haaretz, è cominciata una decina di giorni fa, quando gli abitanti della House of Contention, una palazzina di tre piani nel cuore della più grande città della Cisgiordania dove vivono 160 mila palestinesi e 60 coloni ebrei irriducibili, hanno deciso che non avrebbero accettato nessun ultimatum. Che venisse dall'autorità locale nemica e, men che mai, dalla propria.
Da allora si sono susseguiti scontri, una trentina di contusi, arresti e rilasci su cauzione, sassaiole incrociate. Ieri, la resa dei conti. Il ministro della Difesa Ehud Barak, alle prese con le primarie del partito laburista, aveva promesso tolleranza zero e, in serata, ha avuto indietro il bollettino di guerra: 20 persone in ospedale, abitazioni in fiamme, la Knesset spaccata.
Per capire il dilemma amletico d'un Paese al bivio, bastava seguire da vicino lo sgombero. Hebron, polvere, rocce, ulivi coraggiosi: «Non ti senti a disagio? - domanda il poliziotto con la visiera del casco calata sugli occhi per evitare l'acido lanciato dai ribelli che ha appena accecato un collega -. Un ebreo con il volto coperto è strano». «Hai ragione - replica il ragazzo parlando attraverso la maglietta nera che lascia visibili solo gli occhi come un Black Bloc del G8 di Genova -. Ma è ancora più strano vedere un ebreo che ne caccia un altro dalla sua terra». Quello tra Ygal, 40 anni di cui 20 al servizio dello Stato ebraico, e Noam, il sedicenne affacciato alla finestra della casa contesa e certo di battersi per l'identità biblica, è il dialogo muto che assorda Israele. Da una parte la contingenza storica che spinge verso un accordo con i palestinesi sulla base di concessioni reciproche, dall'altra l'ineluttabile necessità divina.
«Abbiamo dimostrato di saper applicare la legge», commenta Barak a fine giornata. «La nostra democrazia proteggerà i palestinesi», gli fa eco il premier dimissionario Ehud Olmert. Ma la partita resta aperta, ammonisce Dani Dayan, presidente dello Yesha Council, l'organo che rappresenta i coloni della Cisgiordania: «Il blitz ha rafforzato la componente più estremista del movimento». In mattinata, dice Dayan, Barak gli aveva garantito «una soluzione legale e un'apertura al dialogo». Il sole tramonta su uno scenario di guerra. Dall'abitazione verandata che divide con 52 famigliari, tra fratelli figli e nipoti, Suleiman si prepara al peggio: «Arriveranno anche qui».


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