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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - Il Messaggero Rassegna Stampa
26.11.2008 I confini, la diaspora e Israele: dibattito tra Abraham B. Yehoshua e Claudio Magris
le cronache e la solita pretestuosa propaganda

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - Il Messaggero
Autore: Francesco Battistini - Francesca Paci - Alberto Stabile - Eric Salerno
Titolo: «Il doppio volto della frontiera Magris e Yehoshua in parallelo - Le frontiere dividono Magris e Yehoshua - Magris e Yehoshua due idee di confine - Abbiamo bisogno di confini riconosciuti»

Da pagina 42 del CORRIERE della SERA del 26 novembre 2008, l'articolo di Francesco Battistini "Il doppio volto della frontiera. Magris e Yehoshua in parallelo":

GERUSALEMME — Racconta Claudio Magris: «Da ragazzino, andavo a giocare sul Carso. E spesso arrivavo alla Cortina di ferro. Oltre, c'era un mondo misterioso, inquietante. Il mondo di Tito e di Stalin. Qualcosa di conosciuto e sconosciuto, familiare e impressionante. Un Paese chiuso dalla frontiera, che non conosceva frontiera. E che mi portava a interrogarmi sulla mia identità: quando cessiamo d'interrogarci sull'identità, andiamo verso la fossilizzazione».
Racconta Abraham B. Yehoshua: «Nel romanzo che sto scrivendo, il protagonista è un regista settantenne che rivede un suo vecchio film. Il suo personaggio è una ragazza che vive nella Gerusalemme anni '60 e passa vicino a un muro: è il confine che, allora, divideva la città fra giordani e israeliani. Ho deciso di descrivere quella ragazza come se non fosse nient'affatto preoccupata dalla frontiera. Perché, anche nella mia sensazione di bambino, era una cosa giusta: ci dev'essere, una frontiera».
Noi e loro. I check-point. Il Muro. Gerusalemme unica e indivisibile. Israele e il diritto d'esistere. I palestinesi e il diritto alla terra. I Kassam. I valichi sbarrati di Gaza. I tunnel. Tutto parla di bordi e di confini, intorno. Ed è sui «confini della letteratura », nel sole d'un tardo pomeriggio, collina di Rehavia, che i due autori famosi vengono invitati a confrontarsi. La platea è quella dei «Dialoghi fra scrittori italo-israeliani», letteratura e impegno, organizzati da Simonetta Della Seta e dall'Istituto italiano di cultura. In prima fila due capi di Stato, Giorgio Napolitano e Shimon Peres. Il presidente italiano ricorda la «contestazione faziosa» al Salone del libro di Torino. Il vecchio Shimon ricorda Levi, Moravia, Elsa Morante. Claudio Magris ha un sorriso appena imbarazzato: «È un po' ridicolo che un triestino sia qui a parlare di frontiere...».
Non tanto. Esistono i medici, i reporter, gli architetti, i giochi senza frontiere: e gli scrittori? Primo a rivalutare la letteratura ebraica mitteleuropea, nato vicino a un ghetto e maturato in «una terra di nessuno tra due frontiere, che ha reso sempre difficile ai suoi scrittori definire un'identità», lo scrittore triestino avverte il deficit: si sente da molti anni «ebreo onorario» e però capisce Slataper, col suo «vorrei dirvi chi sono »: perché «quest'incertezza, quest'appartenenza plurima, io l'ho succhiata col sangue». Yehoshua, l'opposto: cresciuto in un popolo per secoli senza frontiere, «con un'identità ebraica portatile, quasi tascabile, perché non bisognava essere dentro Israele per sentirne la tradizione», è nel sionismo che ritrova il significato di frontiera. «In fondo — dice —, è simbolico che questo popolo, abituato ad attraversare con facilità tutte le frontiere, con altrettanta facilità sia stato radunato in un non-luogo come Auschwitz».
Terra o identità? In platea ci sono altri scrittori: Eli Amir (ebreo iracheno) che ama confondersi «in un Paese dove si parlano 85 lingue e basta leggere la letteratura dell'altro, per conoscerlo»; Alessandro Piperno (ebreo italiano) o Lidia Ravera che confessano «una strana forma d'invidia» per la ricchezza letteraria ebraica. Magris ammette la stessa attenzione: «Una volta discutevo con un rabbino, a Vienna, e a un certo punto mi chiese: "Ma lei è ebreo?". Dissi di no. E lui quasi si scusò: "È solo una domanda, eh?"». Grazie alla sua identità, sostiene Magris, «l'ebreo non è mai lontano da niente, come dice un celebre titolo di Yehoshua, e per intere epoche è stato uguale a quella gente che vive negli hotel: è passato senza lasciare traccia. Una vecchia storia racconta di due sapienti, un ortodosso e l'altro meno, che discutono sulla Legge. Quando arriva il sabato, l'ortodosso s'è quasi convinto e sta per superare il miglio, violando la regola. "Férmati!", l'avverte l'altro: "Stai tradendo te stesso!". Io penso che le frontiere vadano superate, ma anche mantenute assieme alla propria identità. Un modo corretto di viverle è sentirsi anche dell'altra parte».
Terra è identità? Del mito dell'ebreo errante, del mondo senza confini, Yehoshua è un po' stufo. E lo dice: «Il nostro cosmopolitismo, sì, ha dato frutti sul piano della conoscenza, dell'intelletto. Ma il prezzo esistenziale è stato terribile». E allora, meglio la terra. E confini certi. Perché la frontiera non è solo uno strumento d'identità. È necessità. È responsabilità: «Stamattina ero a un convegno di scrittori arabo-israeliani. Malgrado i rapporti siano di astio, c'è un fatto: loro stanno dentro le nostre frontiere, quindi dentro la nostra responsabilità. Bisogna tracciare i confini, ma quando li si superano, lo si deve sapere: se Israele si prende un altro territorio, si prende anche la responsabilità di chi c'è dentro». È un concetto che non vale solo nello scenario mediorientale: «La frontiera è responsabilità politica, morale, economica. La tv, la letteratura, l'arte, l'economia, i reality che confondono vita e finzione, tutto oggi è globale, senza confini. Ma anche questo ha un prezzo, e ora lo sappiamo: c'è una crisi economica mondiale, ma non si sa chi sono i responsabili. C'è una crisi morale, d'identità, per la rottura d'ogni confine. È affascinante la rapidità, la leggerezza con cui s'è abbandonato il concetto di frontiera, e quindi d'identità e di responsabilità. La letteratura ha partecipato a questa rottura: smettendo l'impegno, qualsiasi tensione morale. Per paura d'essere antiquata». C'è un film che rappresenta bene quel che s'è perso, dice Yehoshua: «È francese,
Tra le mura (in Italia: La classe, ndr) e ci dice che non è necessario uscire dalle mura per rappresentare, capire. E assumersi responsabilità».
Viva i confini e le diversità che marcano, dunque. Anche Magris ne è convinto: «Certe frontiere, non geografiche ma morali, devono restare chiuse: non si può discutere se Mengele aveva ragione o no». Fa qualche precisazione: «La prima frontiera che l'uomo supera, è quando lascia il padre e la madre. Ma non li rinnega. Io non difendo la diaspora, però credo che lì si sia formata la resistenza interiore, la capacità che ha fatto dell'ebreo il simbolo dell'universale umano». Yehoshua non lascia il microfono e sbotta: «Ah, voi Gentili! Non romanzate troppo sull'ebraismo! Avete preso questo ebreo che andava oltre i confini con l'intelletto, ne avete fatto un simbolo! Ma noi abbiamo pagato un prezzo altissimo a questo. E allora dateci la soddisfazione di vivere dentro questi confini territoriali!». La sala applaude. E prima che tutti se ne vadano, è Magris che riesce a dire l'ultima: «Giusta osservazione, caro Yehoshua: ma non deve farla a me...».

Da pagina 14 de La STAMPA, l'articolo di Francesca Paci "Le frontiere dividono Magris e Yehoshua": 

Ci rimproverate di aver sostituito al vecchietto hassidico e spiritoso l'israeliano guerriero. Basta: l'ebreo errante è un mito romantico che pagammo con l'Olocausto». Abraham B. Yehoshua, scrittore israeliano, adora provocare. All'Auditorium di Gerusalemme, seduto sul palco accanto a lui per l'incontro inaugurale dei «Dialoghi italo-israeliani», il simposio dell'Istituto Italiano di Cultura, Claudio Magris lo ascolta attento. Lo studioso triestino ha appena citato il passo del romanzo di Yehoshua «La sposa liberata» in cui il protagonista scopre negli occhi di un autista arabo la possibilità di «entrare in territori sconosciuti senza perdersi» per dimostrare come la natura profonda della frontiera sia l'andare oltre. Permeabilità culturale, etnica, geografica? Il contrario: «Se dovessi trovare un sinonimo di sionismo sceglierei frontiera». In prima fila il presidente italiano Giorgio Napolitano e il collega Shimon Peres seguono senza scambiarsi uno sguardo.
Claudio Magris racconta la propria esperienza d'intellettuale di confine, cresciuto all’ombra della Cortina di ferro che separava l'Italia dalla Jugoslavia di Tito: «Il modo corretto di vivere la frontiera è sentirsi sempre un po' dall'altra parte, tra mondo conosciuto e ignoto». L'ebreo da cui discende, dice Yehoshua, ha ricevuto per primo l'ordine divino di lasciare la propria patria e andare. Eppure, è proprio questo il nodo: «La speciale flessibilità ebraica ci ha portati alla rovina. E' incredibile come un popolo che attraversava così facilmente le frontiere sia stato rinchiuso con tanta facilità ad Auschwitz».

Da pagina 50 de La REPUBBLICA,  Magris e Yehoshua due idee di confine di Alberto Stabile:

Hanno più o meno la stessa età, Claudio Magris è del ?39, Avraham Yehoshua del ?36. Magris è nato a Trieste, Yehoshua a Gerusalemme. Uno ha vissuto il confine che attraversava la sua città con un dramma interiore, un limite, ma anche uno stimolo a definire la propria identità. L´altro non ha paura di dire, con la protagonista del romanzo su cui sta lavorando, che quel confine che divideva la Gerusalemme ebraica da quella giordana negli anni ?60 era «corretto e necessario», come necessari sono i confini, per definire non solo l´identità ma soprattutto la propria responsabilità.
Due grandi scrittori, discutono delle «Frontiere della letteratura» all´istituto Van Leer, nel cuore della Gerusalemme fra le due guerre. L´occasione è rappresentata dai «dialoghi italo-israeliani» che, su iniziativa dell´Istituto italiano di cultura, vedono narratori, critici, studiosi dei due paesi confrontarsi a margine della visita di stato di Giorgio Napolitano in Israele. Confronto, forse, non è la parola adatta: il vero tema degli incontri è il grande amore del pubblico italiano verso gli scrittori israeliani contemporanei. Scrittori israeliani, che scorrono, nelle parole di Magris, come discreti ma eloquenti protagonisti di un´opera corale, assieme, se così si può dire, ai grandi narratori ebrei della Mitteleuropea.
Magris, studioso della letteratura ebraica della diaspora, sente quasi un riflesso di pudore a venire a parlare di confini in Israele dove il problema dei confini è una storia scritta e riscritta, e non ancora risolta. Mentre per l´ebraismo europeo la parola confini richiama alla memoria realtà contrapposte: le porte opprimenti del ghetto ma anche la possibilità sofferta di muoversi, di vivere, al di la dei confini di questo o di quel paese. Portare nel cuore la propria identità per aprirsi agli altri: «Il problema delle frontiere - dice Magirs - è di sentirsi anche un po´ dall´altra parte, sapere di essere un po´ anche l´altro». E questo, volendo citare Oz, induce «un continuo confronto, con la negazione attraverso cui passa ogni forma di amore».
Yehoshua, ha un´opinione diversa. Gerosolimitano da cinque generazioni, ha sempre pensato che l´identità «flessibile, mobile, portatile» dell´ebraismo diasporico, quello che permette ad un ebreo di essere ovunque mantenendo la propria identità, non sia affatto un´ancora di salvezza. Anzi, è «una grande catastrofe», se si pensa alla facilità con cui gli ebrei della diaspora, vennero raccolti e portati nei campi di sterminio nazisti. Invece, «se mi chiedete di definire il sionismo in una sola parola, vi dico che sionismo vuol dire frontiere. Se mi offrite due parole, io aggiungo, responsabilità. Perché essere una frontiera significa ammettere e definire la propria responsabilità». Ne consegue che un grande errore è stato commesso nel ´67, quando dopo la guerra dei Sei giorni fu deciso di occupare i territori palestinesi senza rispettare le frontiere e dunque senza ammettere la propria responsabilità». Naturalmente, conclude, «le frontiere possono contenere delle aperture, ma quando l´attraversi sai dove tornerai». E questo vale anche per la letteratura che, davanti allo strapotere della globalizzazione deve trovare la forza di rimanere nei suoi confini.

Eric Salerno a pagina 16 del MESSAGGERO, nell'articolo "Abbiamo bisogno di confini riconosciuti" coglie l'occasione per scrivere di "confini" della barriera di sicurezza "arbitrariamente scelti da governo e militari" per inglobare le colonie.
In realtà, la barriera di sicurezza non è un confine politico, mentre in ogni caso è vero che , nel quadro di un accordo di pace, Israele cercherebbe di ottenere correzioni rispetto alla linea armistiziale del 49, difficilmente difendibile e insicura.

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