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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Panorama - Il Giornale Rassegna Stampa
24.11.2008 Il pericoloso ottimismo di Obama, i timori di re Abdullah
due analisi di Fiamma Nirenstein

Testata:Panorama - Il Giornale
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Obama, l’ottimismo non sempre paga - Per sopravvivere Amman cambia rotta e avverte Israele»

Da  pagina 132 di PANORAMA  n° 48 del 2008 riportiamo l'editoriale di Fiamma Nirenstein "Obama, l’ottimismo non sempre paga"

Le prime avvisaglie del fatto che l’ottimismo di Barack Obama potrebbe trovarsi in gravi difficoltà se esercitato in Medio Oriente sono già là, nella rottura della tregua fra Hamas e Israele, iniziata a luglio e ormai agonizzante a causa dei missili kassam e grad lanciati dai palestinesi su Ashkelon e Sderot. Obama, sia pure con molte oscillazioni, durante la campagna elettorale ha dichiarato che intende affrontare con la diplomazia i problemi mediorientali, dall’Iraq alla questione afghana, dall’Iran alla Siria, con i loro corollari Hezbollah e Hamas. In concerto con Tony Blair ha resuscitato l’idea clintoniana del ritorno di Israele entro i confini del 1967 e della divisione di Gerusalemme (la cui parte est diventerebbe capitale del futuro stato palestinese: una spaccatura che è sempre stata bocciata senza appello da ogni leadership palestinese), ripresa poi anche dal primo ministro dello stato ebraico Ehud Olmert.

Un piano che ritorna regolarmente: proposto dai sauditi nel 2002, venne rispolverato dalla Lega araba lo scorso anno. Secondo il Times di Londra Obama ne avrebbe discusso sei mesi fa a Ramallah con il leader dell’Anp, Abu Mazen, al quale avrebbe detto, senza mezzi termini: «Se gli israeliani non accettano sono pazzi». E invece quest’idea rappresenta un drammatico passo indietro rispetto al concetto di «confini sicuri a fronte di due stati per due popoli» che l’America, con l’amministrazione Bush, aveva compreso e accettato. Tornare alle frontiere del 1967 significherebbe infatti una sicura escalation delle incursioni e dei lanci di missili su Israele; rinunciare ai confini sicuri non è un passo avanti verso la pace, ma, al contrario, è una garanzia di conflitto.

Obama forse non sa ancora che il Medio Oriente cammina sempre su un filo e che gli Usa, se non riusciranno a bloccarne le focosità, si troveranno a decidere che fare di fronte a inevitabili guerre. Se tornerà in Iraq Muqtada al- Sadr con i suoi gruppi sciiti, se altre milizie chiederanno la loro fetta di potere, se i curdi e gli arabi seguiteranno a scontrarsi a Mosul, Kirkuk e Dyala, i programmi di ritiro diventeranno quasi impossibili. Se Israele, vedendo troppo vicino (è previsto nel 2009) il completamento della bomba iraniana, decidesse di agire come fece contro il reattore siriano nel settembre 2007; se gli hezbollah decidessero di sparare con la benedizione iraniana; se il Libano si asservisse a quella politica inimicandosi Israele (che non potrebbe che reagire), gli Stati Uniti sarebbero in difficoltà a mantenere il programma diplomatico.

Adesso a Gaza succede proprio quello che Obama non voleva: nei mesi scorsi due suoi inviati, ha rivelato ad Al-Hayat (giornale arabo di Londra) il portavoce di Hamas Ahmad Youssef, avevano incontrato segretamente i leader terroristi a Gaza. Hamas lo nega, il Times di Londra lo conferma. Già si scontra con la realtà l’ispirazione di Zbigniew Brzezinski e Robert Malley (che fu special assistant per le questioni arabo-israeliane del presidente Bill Clinton), famoso per aver creato la versione palestinese di Camp David, quella che incolpava gli israeliani del fallimento del vertice Arafat-Barak. Ambedue sono nel team di politica estera del presidente eletto. Ma ecco che piovono di nuovo i kassam, dai tunnel si importano armi, fra Hamas e Al Fatah le cose sono tali da rendere difficilissime le speranze di calma fra le fazioni. Il Medio Oriente è un ciclone più forte del vento lieve del pacifismo occidentale.

Da Il GIORNALE del 23 novembre 2008, "Per sopravvivere Amman cambia rotta e avverte Israele", sempre di Fiamma Nirenstein:

Nella notte di martedì scorso, nelle tenebre mediorientali, Ehud Olmert e il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak sono andati in visita al palazzo di re Abdullah ad Amman, invitati d'urgenza. Il giovane sovrano ha poi convocato nel palazzo di Aqaba giovedì il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen. Cose importanti? Per carità. Il primo ministro israeliano ha persino negato che l'incontro abbia mai avuto luogo, ma l'implacabile stampa israeliana ha scoperto tutto: Abdullah ha chiesto drammaticamente a Olmert di trattenersi dall'entrare a Gaza con l'esercito nonostante la pioggia di Kassam lanciati da Hamas che di nuovo perseguita le città di Sderot, Ashkelon e i kibbutz (ieri ci sono stati altri lanci): sappiamo che ponderate l'invasione di Gaza anche per aiutare Abu Mazen, ha detto il re, ma non fatelo, questo metterebbe la Giordania in grave pericolo, forse darebbe fuoco a tutte le polveri del Medioriente. I palestinesi, ha detto, che rappresentano il 75% della popolazione, si rivolterebbero contro la nostra pace con voi; la Fratellanza islamica egiziana, gli Hezbollah, la Siria e l'Iran, tutte le forze estremiste affiancherebbero Hamas. Olmert ha risposto che a Israele la sorte del regno hashemita sta molto a cuore, e che la valutazione dell'intervento eventuale terrà ben presente i desideri dell'unico Paese che ha firmato una pace con Israele, oltre all'Egitto. E ora, traduciamo la vicenda in lingua mediorientale: Abdullah è, sulle orme di suo padre re Hussein, un rais molto filoccidentale; e la sua casa regnante, sempre fragile fra le brame di molti falchi del deserto, ha potuto sempre contare sull'appoggio americano. Ma qui Abdullah cambia, con molto garbo, posizione, e questo la dice lunga sullo stato dell'islam moderato, che vede l'Iran sempre più vicino alla bomba e l'Islam estremo sempre più armato. Le cose sono cambiate: oltre a ripetuti attacchi di Al Qaida sul suo territorio, il re ha visto il rafforzarsi di tutti gli estremisti e si sente in pericolo: dall'Iran alla Siria, ai loro amici, gli Hezbollah e Hamas, tutti mostrano i denti mentre la parte moderata appare più fragile. Gli americani annunciano, fra molti mea culpa, la loro uscita dall'Irak, e la crudele logica di questa parte di mondo li identifica come perdenti; Israele è uscito male dalla guerra del 2006; Abu Mazen è un interlocutore incerto, specie alla conclusione del suo mandato, il 10 di gennaio. Ha annunciato che non lascerà la presidenza, e Hamas allora minaccia una rivoluzione della West Bank che potrebbe distruggere Fatah o con le armi o con le elezioni. Abdullah sente che il suo fronte è vulnerabile, e con questa richiesta di non attaccare Hamas lancia un messaggio ai palestinesi: se accadrà io non c'entro. E ne lancia un altro al mondo: avete così pochi amici, e ve li giocate con la vostra debolezza e col rifiuto di combattere la marea montante del terrorismo. Anche la debolezza di Israele, davanti alla rottura della tregua, lo getta nelle braccia di Hamas e di fatto sfavorisce Abu Mazen. Peccato.

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