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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
17.11.2008 Iraq: ritiro delle truppe americane combattenti entro il 2011
la cronaca di Maurizio Molinari, le opinioni di Michael Walzer, Richard Perle, Bill Kristol, Daniel Pipes

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Ennio Caretto
Titolo: «Usa, via dall’Iraq entro il 2011 Ma le basi restano - Il sollievo dei neocon: «Siamo riusciti a eliminare Saddam e a dare la democrazia» - «Non elogio spesso Bush ma ora possiamo sperare»»

L'accordo tra Stati Uniti e governo iracheno per il ritiro delle truppe americane entro il 2011 nella cronaca di Maurizio Molinari, "Usa, via dall’Iraq entro il 2011 Ma le basi restano",  da La STAMPA del 17 novembre 2008, a pagina 8.

Ecco il testo:

Le truppe americane lasceranno l’Iraq entro il 1 gennaio 2012: attorno a questa data è stato raggiunto l’accordo fra Stati Uniti e Iraq che ieri il governo di Baghdad ha approvato e il Parlamento dovrà ora ratificare. L’intesa «Sofa» sullo «status delle forze armate» è l’accordo bilaterale in base al quale le truppe Usa potranno rimanere in Iraq dopo il 31 dicembre, quando scadrà il mandato delle risoluzioni Onu.
In base alle clausole, i soldati Usa si ritireranno dalle aree urbane entro giugno 2009, trasferendosi in circa 400 basi che saranno progressivamente consegnate agli iracheni fino al 31 dicembre 2011. Durante questi tre anni gli Stati Uniti si impegnano a non adoperare il territorio iracheno per lanciare attacchi contro «Stati confinanti» e Washington accetta il principio che «in caso di gravi reati commessi fuori dalle basi» soldati e civili americani potranno essere processati da tribunali locali «previo assenso di una commissione congiunta». Al momento di votare, 27 dei 28 ministri iracheni hanno alzato la mano per esprimere parere favorevole e il portavoce del governo, Ali al-Dabbagh, ha parlato di «interessi nazionali salvaguardati» e di chiari e completi «calendari di ritiro». Plauso anche da Washington, dove si auspica che il Parlamento iracheno proceda a una rapida ratifica. Ma a protestare è stato Moqtada al-Sadr, il leader sciita alla guida di uno dei partiti che sostengono il governo, accusando il premier Nuri al Maliki di «aver consegnato la nazione agli americani su un piatto dorato».
Al momento i soldati Usa in Iraq sono 150 mila e in base all’accordo fra tre anni dovranno essere ritirati anche se la sigla di un «Sofa» consente teoricamente un rinnovo per il mantenimento di basi permanenti, sotto sovranità irachena, sul modello di quanto avviene per le installazioni Usa in numerosi Paesi dell’Europa.
L’approvazione dell’intesa «Sofa» da parte del governo di Baghdad consente al presidente eletto Barack Obama di avere la cornice giuridica per ritirare le truppe, come ha promesso in campagna elettorale, anche se aveva parlato di un periodo massimo di ulteriore permanenza assai più breve: 16 mesi.
Quasi contemporaneamente all’annuncio di Baghdad, il presidente afghano Hamid Karzai da Kabul si è detto pronto a garantire l’incolumità del mullah Omar, leader dei taleban, se dovesse accettare l’offerta di negoziati. «Se lui e i suoi accetteranno di trattare la pace farò di tutto per proteggerli. E se la comunità internazionale si oppone ha solo due opzioni, rimuovermi o ritirarsi», ha aggiunto Karzai, muovendosi nel solco segnato dal generale americano David Petraeus, capo delle truppe in Medio Oriente, favorevole ad aprire un dialogo con i taleban sul modello di quanto fatto in Iraq con le tribù sunnite.
Risale a settembre il primo incontro, in Arabia Saudita, fra rappresentanti di Karzai e del mullah Omar e l’intento è di accelerare il processo spingendo il capo taleban a uscire dalla clandestinità dove si è rifugiato dopo la caduta del suo regime, nel novembre 2001. Petraeus e Karzai tentano di staccare il mullah Omar da Al Qaeda in vista della ripresa delle operazioni militari della Nato, che alla fine dell’inverno potrà contare su rinforzi americani liberati grazie al ritiro dall’Iraq. Obama vorrebbe mandare in Afghanistan due o tre brigate di marines per catturare Osama bin Laden.

Da pagina 2 del CORRIERE della SERA, riportiamo l'articolo di Ennio Caretto "Il sollievo dei neocon: «Siamo riusciti a eliminare Saddam e a dare la democrazia»

Ecco il testo:

WASHINGTON — Molti neocon americani respirano di sollievo: a loro giudizio a due mesi dalla scadenza del secondo mandato, George Bush è riuscito non solo a evitare la disfatta in Iraq ma anche a programmare un disimpegno onorevole se non vittorioso. Nelle parole di Richard Perle, l'ex consigliere del Pentagono, uno degli architetti della politica irachena di Bush, «fino a un anno fa temevamo che Al Qaeda e i saddamisti avessero il sopravvento, adesso abbiamo la certezza che siano stati sconfitti».
Non solo. L'accordo di Bush con il governo Maliki ha legittimato la presenza militare americana in Iraq dal 2003 al 2011 e smentito che l'America fosse e sia una potenza occupante. «Per me - dichiara ancora Perle - è un punto fondamentale. Il bilancio del nostro intervento a Bagdad è positivo, almeno al momento. Abbiamo eliminato Saddam Hussein e portato la democrazia rappresentativa, e lasceremo il paese in una situazione migliore di quella in cui lo trovammo».
Non tutti i neocon condividono il parere della maggioranza. Daniel Pipes, ad esempio, il direttore dell'Istituto del Medioriente e consulente della Casa Bianca e del Congresso, applaude il ritiro delle truppe ma teme che a lungo termine l'Iraq diventi una Repubblica islamica. Pipes afferma che gli Stati Uniti avrebbero dovuto arroccarsi in poche basi nelle aree strategiche fuori delle grandi città e lasciare che gli iracheni risolvessero da soli le loro divergenze. Hanno invece esposto l'Iraq all'influenza iraniana. Non c'erano alternative al disimpegno, sostiene Pipes, ma affinché a lunga scadenza esso non diventi controproducente bisogna che l'America e l'Europa uniscano le forze per arginare l'Iran, la Siria e altri paesi ostili.
Bill Kristol, il consigliere del candidato repubblicano alla presidenza John McCain, dà ragione a Perle. «Il tanto criticato invio dei nostri rinforzi l'anno scorso - rileva - ha ottenuto buoni risultati. Mentre i democratici ci davano ormai per battuti, Bush ne ha respinto le pressioni per una precipitosa ritirata. Tanto di cappello perché forse un altro presidente avrebbe ceduto».
Secondo Kristol la possibilità che il graduale disimpegno americano comprometta la sicurezza dell'Iraq è remota: «Non si possono escludere delle crisi - commenta - ma sono certo che gli iracheni non vogliono tornare all' instabilità degli anni scorsi».
Il consigliere di McCain pensa che la storia riconoscerà i meriti di Bush in Iraq, in Afghanistan e nella lotta al terrorismo «al cui proposito è stato spesso ingiustamente criticato».
In prevalenza, i neocon si sentono rivalutati dall'accordo sull'Iraq e dall' unanimità degli alleati sull'Afghanistan. Perle sottolinea che in politica estera George Bush lascia al successore Barack Obama un'eredità più positiva di quella attribuitagli finora: «Prevedo una certa continuità tra la strategia dei due presidenti sia a Bagdad sia a Kabul e contro il terrorismo, anche perché non ho mai creduto che Obama avrebbe compiuto mosse imprudenti. Il cambiamento maggiore — termina l'ex consigliere del Pentagono — riguarderà il cauto dialogo che Obama cercherà di avviare con i Paesi ostili, una strada peraltro intrapresa da Bush nel crepuscolo della sua presidenza ».
L'esperienza del conflitto in Iraq sembra tuttavia aver curato i necon dalla malattia dell'unilateralismo. Quasi tutti chiedono l'appoggio più ampio possibile dell'Europa nella ricostruzione dell'Iraq e nella pacificazione dell'Afghanistan, di fatto un solenne rilancio dell'Alleanza Atlantica. Una conversione anche questa in cui Bush li aveva preceduti.

Da pagina 3 del CORRIERE un'intervista di C aretto al filosofo liberal Michael Walzer,   «Non elogio spesso Bush ma ora possiamo sperare».

Ecco il testo:

WASHINGTON — Per Michael Walzer si profila una conclusione migliore del previsto della lunga guerra dell'Iraq. «Il presidente Bush — dichiara sorridendo — lascia al successore Obama più tempo di quello che aveva chiesto per il disimpegno da Bagdad e la sua stabilizzazione ». Il filosofo politico elogia Bush: cosa, ricorda «che non faccio spesso ». «Possiamo incominciare a sperare nel buon esito del nostro intervento — aggiunge — qualsiasi accordo che ci consenta di ritirare le nostre truppe è ben venuto. Ma perché regga alla verifica del tempo esso dovrà essere seguito da altri egualmente importanti. Un compito — conclude — che spetterà non più a Bush ma a Obama».
A quali accordi allude?
«A quelli indicati da Obama, ad accordi con i paesi vicini all'Iraq, l'Iran e la Siria innanzitutto. La sicurezza irachena dipende oltre che dal consenso delle forze politiche interne anche da queste potenze, con cui purtroppo Bush ha sempre rifiutato di negoziare».
Lei crede che Obama avrà successo?
«Forse è utopico pensare che l'Iran e la Siria vogliano aiutare gli Stati Uniti. Ma la stabilità dell'Iraq è anche nel loro interesse, nell'interesse dell'intero Golfo Persico e dell'intero Medio Oriente. Il dialogo sarebbe difficile ma non impossibile ».
Sarebbe una svolta anche per la questione palestinese?
«Ritengo di sì. L'Iran e la Siria sponsorizzano Hezbollah e Hamas. Se raggiungessero un accordo con noi sull'Iraq, la posizione di Israele potrebbe migliorare gradualmente. La questione palestinese non sarebbe più insolubile».
Le sue risposte tradiscono qualche preoccupazione per il futuro dell'Iraq.
«Effettivamente ci sono alcune incognite. La prima è se tutte le forze politiche irachene legittimeranno l'accordo tra il governo Maliki e l'amministrazione Bush. La seconda è se la costituzione verrà rispettata e diverrà di fatto una federazione con regione autonome, curde, sunnite e sciite».
Lei teme che non accada?
«Non si può escludere che in Iraq scoppino lotte intestine, in particolare che i curdi vengano attaccati. E' il motivo per cui vorrei che gli Stati Uniti conservassero una base militare nel Kurdistan, non altrove perché non ce n'è bisogno. Sarebbe una presenza significativa, un monito a non boicottare la pace».
Mi sbaglio o lei sospetta che il radicalismo islamico possa prendere piede in Iraq?
«Esatto. I contrasti tra sciiti, sunniti e curdi sono reali, e in queste condizioni l'Islam può farsi estremista. Di più, il disimpegno di una forza straniera può contribuire a spargimenti di sangue. Basti ricordare il disimpegno britannico in India alla fine del colonialismo».
Non si possono prevenire scenari del genere?
«Sì, ma a certe condizioni: che il ritiro dei nostri soldati sia lento e accompagnato da misure a difesa della popolazione; che chi ha lavorato con noi e si è esposto a pericoli possa trasferirsi negli Stati Uniti, che la polizia e le forze armate irachene assumano in parallelo il controllo della nazione».
A suo parere, che ruolo avrebbe in Medio Oriente un Iraq stabile e democratico?
«Supposto che superi il passaggio del 2012-2013, anni che si preannunciano delicati, un ruolo costruttivo, specialmente per quanto riguarda la produzione petrolifera, di cui in passato fu uno dei pilastri. Ma molto dipenderà dai rapporti che stabiliremo con Bagdad e le altre potenze regionali».
Un'ultima riflessione sulla guerra dell'Iraq?
«Avremmo dovuto imparare dal Vietnam che è molto facile entrare in guerra e molto difficile uscirne. Tutto sommato, da come si erano messe le cose, abbiamo avuto fortuna. Dopo gli errori da noi commessi, poteva finire molto peggio».

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