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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Rassegna Stampa
16.11.2008 Tariq Ramadan, l'esperto di islam sul giornale arancione
una scelta discutibile

Testata:
Autore: Tariq Ramadan
Titolo: «Che Allah aiuti Obama»

Tariq Ramadan è un abituale collaboratore del RIFORMISTA di Antonio Polito, anche se la collocazione culturale e politica del personaggio non gli consentono la qualifica di esperto " moderato " in affari islamici, o musulmani che dir si voglia. A trattare di questi argomenti, in chiave liberale e progressista, Polito aveva una ampia rosa di nomi fra i quali scegliere. Giornalisti lontani dal fondamentalismo islamista, forti oppositori delle dittature che devastano i paesi arabi, avrebbero potuto essere una voce interessante e utile per conoscere idee e opinioni su un mondo ancora lontano dalla modernità delle nostre società. Ha invece scelto Tariq Ramadan, un intellettuale discusso e criticato da chiunque si sia preso la briga di analizzare la  tecnica che usa nel diffondere ciò che ritiene utile che il mondo occidentale debba sapere. Era la tecnica sperimentata con successo da Yasser Arafat, apertura e disponibilità quando si rivolgeva all'occidente parlando in inglese, adesione alle posizioni più estremiste e terroriste quando si esprimeva in arabo.  L'articolo pubblicato oggi, 16/11/2008, sul RIFORMISTA a pag.1, dal titolo " Che Allah aiuti Obama "  ( che riportiamo integralmente)riassume bene le nostre affermazioni.  Da un lato loda la vittoria di Obama, anche se mette in guardia contro la lobby ebraica che potrebbe condizionarne la volontà di cambiamento nei confronti di Israele. Dall'altra riconferma quelle idee per le quali siamo stupiti che Polito abbia scelto proprio uno come lui quale editorialista di un quotidiano che ci pareva posizionato su ben altra linea. Ramadan scrive " A partire dal settembre 2001, le dichiarazioni politiche dell'amministrazione Bush si sono concentrate essenzialmente sulla guerra "contro il terrorismo", "contro i Talebani", "contro Saddam Hussein" e, più in generale, "contro l'asse del Male". come se l'11 settembre e l'ideologia che l'ha prodotto, fossero un'invenzione dei cattivi americani.  Aggiunge " Sul piano internazionale, Barack Obama dovrà mettere fine alla cecità della precedente amministrazione che ha fatto di tutto per convincere gli americani di essere "vittime" di aggressori che "detestano" la loro cultura e i loro valori. " ignorando, o fingendo di ignorare, la minaccia del fondamentalismo islamico che si pone come obiettivo proprio la distruzione della cultura occidentale per sostituirla con la Sharia.  E ancora, "Lo stesso si può dire per la politica destinata ad affrontare la crisi economica globale. In questi due ambiti (sostegno a Israele e difesa dell'economia liberale), sembra di entrare in questioni sacre, dogmi che nessuno negli Stati Uniti ha il coraggio di mettere in discussione." Curioso, pensavamo che il giornale di Polito, su queste due questioni, fosse dalla parte di Israele e dell'economia di mercato. Ma forse ci sbagliavamo, se ad esprimere la posizione musulmana è stato chiamato Tariq Ramadan, un personaggio implicato nel finanziamento al terrorismo islamista al punto che gli Usa gli hanno sempre negato il visto di entrata. Certo, il mondo occidentale lo vezzeggia, gli editori fanno a gara a pubblicarne i libri, non c'è dibattito che non se lo contenda. Ma ci chiediamo se questo sia sufficiente per diventare columnist su un giornale come il RIFORMISTA.

 Ecco il suo editoriale:

Negli otto anni appena trascorsi della presidenza di George W. Bush e della sua amministrazione, ci siamo abituati a una tale quantità di errori, menzogne, strumentalizzazioni e manipolazioni politiche, da non poterci non rallegrare del fatto che si sia finalmente voltata pagina nella storia degli Stati Uniti. A partire dal settembre 2001, le dichiarazioni politiche dell'amministrazione Bush si sono concentrate essenzialmente sulla guerra "contro il terrorismo", "contro i Talebani", "contro Saddam Hussein" e, più in generale, "contro l'asse del Male". I cittadini americani hanno gradualmente preso coscienza della mancanza di contenuti di tale retorica guerrafondaia e arrogante, dalla quale il candidato John McCain non ha mai realmente preso le distanze. Barack Obama è ormai il presidente degli Stati Uniti e possiamo esserne felici per svariate ragioni, senza per questo cadere in una valutazione ingenua delle prospettive future. Le radici, il passato e le molteplici identità culturali di Barack Obama contrastano fortemente con l'immagine di George Bush o John McCain. Obama ha una capacità di comprensione e un rapporto radicalmente differenti nei confronti degli altri paesi, soprattutto quelli del Sud del mondo, nonché della stessa società americana. È proprio grazie a un simile bagaglio di esperienze e modi di essere che abbiamo il diritto di sperare in nuove politiche interne e internazionali. Colin Powell aveva già posto i termini fondamentali della questione: Barack Obama non è musulmano, è nero e cristiano. Ma in fondo, che cosa ci sarebbe di male se fosse musulmano? Esiste forse un qualche problema nell'essere "afro-americano" e/o musulmano nell'America di oggi? Mentre la maggioranza dell'America sembra accettare l'elezione di un Nero, tutto sembra indicare che, dopo l'11 settembre, abbia preso piede un nuovo razzismo antimusulmano. Di fronte a timori e posizioni simili, a livello etnico e religioso, l'origine e il passato di Barack Obama dovrebbero consentirgli di diventare il presidente di tutti, rifiutando paradossalmente i falsi divari, l'etnicizzazione, la culturalizzazione o la "religionizzazione" della questione sociale negli Stati Uniti. Barack Obama diventerà il simbolo di una nuova America soltanto se utilizzerà il suo status di presidente per la promozione di politiche interne a difesa dell'uguaglianza dei cittadini, della giustizia, della lotta contro le discriminazioni sul lavoro e sul diritto all'abitazione nonché di nuove politiche urbane. La forza del primo presidente nero sarà far dimenticare il suo colore, preoccupandosi di promuovere politiche sociali paritarie e senza alcun colore. La scommessa non è stata ancora vinta. Sul piano internazionale, Barack Obama dovrà mettere fine alla cecità della precedente amministrazione che ha fatto di tutto per convincere gli americani di essere "vittime" di aggressori che "detestano" la loro cultura e i loro valori. Al di là della condanna degli attentati terroristici, che è pressoché unanime e non può essere messa in discussione, è necessario comprendere le critiche e i timori espressi dai popoli di tutto il mondo. La politica di Bush ha generato un rifiuto internazionale condiviso nei confronti degli Stati Uniti. Bisognerà iniziare da atti simbolici, ma che dimostrino chiaramente che, per il nuovo presidente, la vita di un afghano, di un iracheno o di un musulmano ha lo stesso valore di quella di un americano. È giunto il momento di smetterla con questo linguaggio arrogante e guerrafondaio e di chiudere le prigioni della vergogna a Guantanamo, così come in Africa e nel resto del mondo. Barack Obama non può più giustificare, in nome della sicurezza degli Stati Uniti, la morte di innocenti, la tortura legalizzata e i trattamenti indegni durante le estradizioni, fino alle discriminazioni nella gestione dei visti americani. Le molteplici origini di Obama possono essere realmente portatrici di speranza se gli consentono di evitare pregiudizi e non di chiudere gli occhi e utilizzarle come pretesto o alibi. La campagna ha dimostrato che non bisogna però farsi troppe illusioni. In alcuni settori, infatti, i cambiamenti potrebbero essere significativi, ma in altri resterebbero limitati. Il conflitto israelo-palestinese è di centrale importanza per la pace nel mondo, tuttavia abbiamo visto come le dichiarazioni di Barack Obama, dinnanzi alla lobby americana pro-israeliana Aipac, siano state nettamente a favore di Israele ed è quindi legittimo ritenere che, sostanzialmente, tale questione rimarrà invariata. Lo stesso si può dire per la politica destinata ad affrontare la crisi economica globale. In questi due ambiti (sostegno a Israele e difesa dell'economia liberale), sembra di entrare in questioni sacre, dogmi che nessuno negli Stati Uniti ha il coraggio di mettere in discussione. Pertanto, le nostre speranze devono essere contenute. Con l'avvento di Barack Obama, sicuramente alcune cose cambieranno in positivo. Queste andranno accolte favorevolmente senza però rinunciare alla capacità critica nei confronti dei dogmi sacrosanti dell'establishment che nega il riconoscimento della dignità del popolo palestinese e dei danni arrecati da un ordine economico che uccide milioni di innocenti in tutto il mondo, e che, oggi giorno, lascia in mezzo alla strada intere famiglie americane, in nome della propria logica e degli indebitamenti. I musulmani degli Stati Uniti e di tutto il mondo sono in maggioranza soddisfatti: sperano di vedere la fine di queste politiche della paura, della diffidenza e della polarizzazione spalleggiate dall'amministrazione Bush. Ciononostante, anche i musulmani hanno una parte di responsabilità: liberarsi dalla mentalità di vittime, essere più coerenti con i propri valori, uscire dal proprio ghetto intellettuale ed essere finalmente proattivi, in modo positivo e critico, per poter sentirsi parte di quel "Noi" (ossia "We") invocato nelle riforme nel momento in cui ripetono "Yes, we can".

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