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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Informazione Corretta - Liberal - Avvenire Rassegna Stampa
12.11.2008 Le ragioni del dubbio
e quelle dell'ottimismo sulla politica mediorentale di Barack Obama: la cronaca di Francesco Battistini, le analisi di Piera Prister, Emanuele Ottolenghi, Dennis Ross

Testata:Corriere della Sera - Informazione Corretta - Liberal - Avvenire
Autore: Francesco Battistini - Piera Prister Bracaglia Morante - Emanuele Ottolenghi - Limes
Titolo: «Barack manda uomini in Israele e da Hamas - Le ragioni del dubbio - Con Obama la pace è possibile - Ross: «Barack non sottovaluterà il pericolo di Teheran»»

Da pagina 14 del CORRIERE della SERA del 12 novembre 2008, la cronaca di Francesco Battistini, "Barack manda uomini in Israele e da Hamas":

RAMALLAH (Cisgiordania) — «Obama, a basket non si gioca con i piedi: stai attento ai tuoi compagni di squadra!». Si commemora la «misteriosa morte» di Arafat, alla Mukata, e ci sono le foto di Saddam, le urla contro Hamas, le maledizioni del popolo Fatah che teme di sparire, i versi riadattati che un poeta saudita dedicò al padre della patria: «Basket o pallavolo, siamo sempre giocatori senza campo...». Abu Mazen ha rose rosse per lui, l'Arafat sepolto nel mausoleo, e sulla grisaglia presidenziale la kefiah dei giorni di battaglia. «Non abbiamo paura del voto — si fa coraggio — contiamoci e vediamo chi vince!». L'istantanea non è bella: l'ultimo fallimento sono i colloqui del Cairo. L'ultima incognita, quel che accadrà a gennaio se il presidente palestinese dovrà mollare la poltrona a Hamas. L'ultima paura, le nuove amicizie che i nemici stanno stringendo. Quelle degl'israeliani: «Hanno già i loro uomini alla Casa Bianca e in questi giorni arrivano i lobbisti di Obama! », dice Nasser al Kidweh, nipote di Arafat, riferimento al grande elettore James Hoffa, in queste ore a Gerusalemme. E poi quelle di Hamas: «Abbiamo da mesi contatti riservati con lo staff di Obama — rivela un consigliere di Haniyeh, il capo di Gaza — e questo dialogo prosegue ancora oggi».
Gli amici americani, veri o no, sono il tema. L'intervista dell'uomo di Hamas a un giornale arabo,
al-Hayat, è qualcosa che somiglia a una gaffe. «I contatti con Obama sono cominciati per email — racconta Ahmed Yusef — poi c'è stato un incontro segreto con un suo consigliere, a Gaza. Gli americani ci hanno raccomandato di non parlarne, prima del voto». Ora che Barak è presidente, Yusef si sente sciolto dal vincolo ed è solo quando lo staff democratico nega tutto («questa cosa è assolutamente falsa», dice Denis McDonough, consulente per la politica estera) che l'incauto corre ai ripari, senza smentire: «La mia era una conversazione privata, non pensavo venisse pubblicata...».
È una corsa a mostrare credenziali. «Sono un grande sostenitore di Obama», dice pochi chilometri in là Hoffa, altro amico americano. Il Jerusalem Post accenna all'ingombro del cognome (l'uomo è figlio di Jimmy, il sindacalista in odore di mafia sparito nel nulla più di trent'anni fa: la sua morte, che si disse legata all'assassinio di John Kennedy, ha ispirato anche un film con Jack Nicholson), ma anche a quel che la famiglia Hoffa rappresenta per Israele: quand'era giovane, Jimmy senior fornì armi e soldi alla causa dell'indipendenza. James jr ha ereditato il sindacato del padre e ora vanta di guidare «la prima grande organizzazione che ha spinto il presidente, con 37mila volontari, un milione 600mila telefonate, 4 milioni e mezzo di case visitate ». Nega d'essere qui su commissione: «Nessuna diplomazia parallela, questo viaggio era pianificato da tempo». Non nega d'essere al servizio delle buone relazioni: «La lotta d'Israele per la sua sopravvivenza è molto simile a quella d'un lavoratore americano per il suo posto». Va in visita da Peres, amico di papà, prima che il presidente di Israele parta per New York dove è stato invitato a cena da Ban Ki-moon insieme ad altri leader mediorientali (compreso il re saudita Abdullah). E la foto di rito, promette di mostrarla a casa. A Obama? «No, nel mio studio».

Un commento di Piera Prister Bracaglia Morante scritto per INFORMAZIONE CORRETTA :

Mentre la Borsa di Wall Street con un'accelerazione al ribasso, non ha
risposto positivamente all'elezione di  Barack Obama, come c'era da
aspettarselo con tutti i suoi programmi populisti  sulla
ridistribuzione della ricchezza e sull' assistenza sanitaria ed
istruzione universitaria gratuite per tutti, come lui stesso ha
promesso, noi non ci capacitiamo proprio come il presidente eletto
abbia potuto incantare l'alta percentuale del 78% dell'elettorato
ebraico americano che ha votato per lui e che insieme alla percentuale
di repubblicani che si sono astenuti dal voto hanno fatto muovere
l'ago della bilancia a favore del senatore dell'Illinois.
Tanto piu' che l'Iran  sta preparando un'aggressione nucleare contro
Israele e che proprio il giorno della vittoria di Obama, Hamas che e'
il braccio armato dell'Iran ha lanciato contro lo stato ebraico piu'di
40 missili Kassam dalla striscia di Gaza sul Negev occidentale, e'
evidente che poi non ci sia piu' tempo da perdere ormai nemmeno per
convincere quelli che dubitavano di  Obama a ricredersi, (perche'
dopotutto egli non e' cosi' ostile ad Israele come sembrava) caspita
ha nominato chief of staff  Rahm Emanuel  perche' proprio in quanto
ebreo riassicuri l'elettorato ebraico che sicuramente ha patteggiato
la sua nomina in cambio del voto. Questa scelta tradita dalla fretta,
ci puo' rincuorare ma non basta e non ci convince, sembra fatta per
tranquillizzare tutti e per far dileguare le paure che invece
persistono. Rahm Emanuel proviene da quegli stessi circoli di Chicago
che hanno plasmato Barack Obama, che coincidenza, staremo a vedere!
John McCain e Sarah Palin non sono ebrei e se fossero stati eletti,
non avrebbero avuto l'urgenza di dimostrare d'essere a favore di
Israele come ha fatto Obama, perche' loro gia' lo sono mentre Obama lo
deve ancora dimostrare. Anzi ci meraviglia che non sia stata premiata
la loro sincera amicizia verso Israele soprattutto da parte
dell'elettorato ebraico.
Ma come hanno fatto a votare per Obama con tutta la sua storia
pregressa e che fino a ieri diceva: " Venezuela, Cuba, Iran? They are
tiny countries, they do not pose a serious threat to the United
States" – Venezuela, Cuba, Iran, sono piccoli paesi, non costituiscono
una minaccia seria per gli Stati Uniti. Ma che Obama ignorasse o
facesse finta di ignorare quale seria minaccia per Israele e per la
pace fosse  l'Iran e' il colmo. C'e' da credergli o piuttosto vuole
farcelo credere.  Del designato capo staff Ramh Emanuel sappiamo che
e' molto vicino alla Presidente della Camera, Nancy Pelosi  di cui
ricordiamo il viaggio in Medio Oriente nella prima settimana d'aprile
del 2007, quando era andata prima in Israele e s'era incontrata con un
gruppo di donne rappresentanti delle istituzioni che avevano perorato
anche un suo intervento a favore della liberazione dei tre soldati
israeliani, tenuti allora in ostaggio da Hamas e da Hezbollah.
La Pelosi  sembrava per l'appunto immedesimarsi nella richiesta di una
nazione che reclamava a gran voce la liberazione dei suoi soldati o
che venissero almeno visitati dalla Croce Rossa, e faceva promesse,
salvo poi all'indomani partire per la Siria, coprirsi il capo con un
velo e conferire al cospetto di Assad che le faceva orecchie da
mercante. Quel suo faccia a faccia con Bashar Assad in un colloquio di
3 ore le ha procurato le aspre critiche persino del "the Washington
Post" nell' editoriale del 5 aprile 2007 che cosi' intitolava la
missione della Pelosi: "Nancy Pelosi's foolish shuttle" – La stupida
spola della diplomazia di Pelosi-  E tutti sanno poi che la lingua di
Assad batte sempre sulla restituzione delle Alture del Golan da parte
di Israele. Ma che cosa ci si aspetta da loro, come gia' Jimmy Carter
(che indeboli' lo shah, Reza Pahlevi e consegno'l'Iran a Komeini) non
sono  la Pelosi e il neoeletto presidente Obama coloro che a tutti i
costi portano avanti la politica dell'appeasement con gli stati
canaglia!?
  Anche il "The Jerusalem Post " non sembra convinto della nomina di
Rahm  Emanuel come capo staff di Obama, a giudicare dal suo curriculum
come si legge in un articolo di Jeffrey Goldberg del  7 nov. 2008: "
What the Rahm Emanuel's appointment means for Israel" – Che cosa
significa per Israele la nomina di Rahm Emanuel-  E' ancora tutto da
dimostrare e da verificare, se date le premesse, il neoeletto
presidente e il suo staff seguiranno una linea conciliatoria con gli
stati islamici fondamentalisti, ma il nuovo presidente dovrebbe invece
ispirare paura  nei suoi nemici piuttosto che paura nei suoi amici che
appena lo hanno eletto. E lo sgomento c'e' stato se Obama si e'
affrettato a scegliere Rahm Emanuel come capo staff del suo gabinetto
a cui lo stesso " The Wall Street Journal " del week-end dedica quasi
un'intera pagina di carattere biografico, in base al principio del
bipartitismo.
 Dalle elezioni americane del 2008 e' uscito sconfitto il partito
repubblicano non certo lo spirito  pragmatico dell'America quello
della "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo" di Filadelfia di Thomas
Jefferson in cui si sostiene, l'eguaglianza, il diritto alla vita,
alla liberta' e alla ricerca della felicita'" e del "Common Sense" di
Thomas Payne che ispirarono la Rivoluzione Americana che non ha avuto
bisogno del terrore, ne' delle teste mozzate issate sulle picche per
erigersi sovrana a fondamento della civilta' dell'Occidente. Ed e' con
questo spirito che noi e con noi milioni e milioni di Americani faremo
opposizione e daremo battaglia, sempre e senza tentennamenti in difesa
della democrazia nostra e di tutti i popoli contro ogni
fondamentalismo e totalitarismo, a fianco di Israele.

Da LIBERAL  l'analisi di Emanuele, "Con Obama la pace è possibile", decisamente più pessimista di quanto il titolo lasci intuire:

Dal 20 gennaio il presidente Barack Obama avrà una pesante eredità: rimettere in ordine in un mondo travolto dalle tempeste dei mercati, il rischio di proliferazione nucleare e l’ascesa di forze politiche e ideologiche nemiche dei valori occidentali di libertà civili, libero mercato e società aperta. Non ci sono dubbi sul fatto che il vincitore porterà una boccata d’aria fresca e cambiamento nella Casa Bianca: il presidente Obama saprà interpretare gli interessi della sua nazione e contiamo su di lui per migliorare i rapporti con l’Europa. E continuerà nel solco della politica estera americana in Medio Oriente, che mira a garantire l’accesso alle risorse energetiche della regione per le economie occidentali a prezzi ragionevoli, e quindi alla stabilità della regione. Obama non si discosterà in maniera significativa dai suoi predecessori nel sostegno a Israele: un sostegno bipartisan e che affonda le sue radici in valori comuni molto radicati nei due Paesi.

Tutto questo dovrebbe rassicurare chi teme che la politica estera americana subisca a partire dal 20 gennaio una svolta in una direzione indesiderata. È importante dire invece che non importa quanto impercettibile sará il cambiamento della politica estera americana: i problemi che essa affronterà in Medio Oriente non si prestano a soluzione – e forse questo concetto non è abbastanza chiaro alla nuova amministrazione.

Il riferimento è in particolare al conflitto arabo-israeliano: la continuità della politica estera americana sotto ben cinque presidenti americani repubblicani e democratici è stata sempre guidata da buone intenzioni e cattiva comprensione della questione. Il problema del conflitto arabo israeliano, come dice lo studioso israeliano Dan Shueftan, è che gli israeliani credono che la chiave della soluzione sia il compromesso, mentre i palestinesi credonoche la chiave delle soluzione sia la giustizia. Giustizia per i palestinesi significa rettificare i risultati della storia chea loro giudizio sono ingiusti – in primo luogo facendo ritornare in Israele tutti i rifugiati palestinesi e i loro discendenti. Per gli israeliani questo passo è impossibile; per i palestinesi è irrinunciabile. Non sarebbe sorprendente vedere il ritorno della diplomazia americana all’assalto del conflitto più irrisolvibile dei nostri tempi, nella speranza (illusione?) che la pace che eluse Bill Clinton e non particolarmente cercata da George W. Bush possa essere ora il trofeo di Barack Obama. E va ammesso che anche la diplomazia condotta come fine a sé stessa ha dei meriti indubbi.

Persino sui recalcitranti diretti interessati essa ha quantomeno il beneficio di costringerli a essere più circonspetti nelle loro relazioni bilaterali. Quel che si teme sono le illusioni. Di una soluzione a un procercata da George W. Bush possa essere ora il trofeo di Barack Obama. E va ammesso che anche la diplomazia condotta come fine a sé stessa ha dei meriti indubbi. Persino sui recalcitranti diretti interessati essa ha quantomeno il beneficio di costringerli a essere più circonspetti nelle loro relazioni bilaterali. Quel che si teme sono le illusioni. Di una soluzione a un problema irrisolvibile, che distragga intanto dai veri problemi. E i veri problemi in Medio Oriente sono ben altri. Oggi il Medio Oriente è come quello degli anni ’60: percorso dal tremito del terremoto radicale e rivoluzionario che aspira a ristabilire una supremazia perduta. Quel radicalismo oggi crede di avere la risposta ai problemi del mondo arabo e interpreta le circostanze regionali come la prova incontrovertibi-le dell’ascesa dell’Islam radicale e il declino dei suoi nemici – Israele e l’America. La guerra del Libano nel 2006, la presenza di Hamas a Gaza, il ritiro unilaterale israeliano sono interpretati come un segno del prossimo crollo d’Israele, e soprattutto del fatto che Israele non ha più risposte ai suoi nemici. La situazione in Iraq è vista come un segno della debolezza americana. E l’inarrestabile ascesa dell’Iran e la sua corsa all’atomica sono visti come la riprova che l’era dell’egemonia americana in Medio Oriente sta finendo. Come potrebbero dunque i radicali non essere vincenti? E se il radicalismo dimostra forza e vitalità, come possono le forze dei moderati offrire una realistica e attraente alternativa?

Questo problema non é nuovo al Medio Oriente – dove i potenti sono sempre ostaggi della retorica delle forze radicali e i moderati sono sempre stati una sparuta minoranza. È un problema che però il nuovo presidente farebbe bene a capire, perché impone enormi limiti alla capacitá dell’America di influenzare il corso degli eventi, intervenire nel risolvere problemi, e mediare tra posizioni distanti come quelle tra Israele e i palestinesi. L’amministrazione Bush é stata criticata a più riprese per l’arroganza di certe sue politiche, a volte a ragione. Ma l’umiltà che si spera ritorni alla Casa Bianca sarà misurata prima di tutto dalla capacità del nuovo presidente di riconoscere quanto poco può incidere l’Occidente sulle dinamiche regionali e quanto meglio sia cercare soluzioni realistiche piuttosto che inseguire ideali irrealizzabile.

A pagina 15 AVVENIRE pubblica un'intervista a Dennis Ross della rivista di geopolitica LIMES:

« Uno dei dossier più caldi che saranno sul tavolo del neopresidente degli Stati Uniti sarà certamente quello ira­niano. Israele teme un appannamen­to della pressione della comunità in­ternazionale, e in es­sa dell’alleato ameri­cano, su Teheran. So­no preoccupazioni fondate?
  Direi proprio di no, al­meno per ciò che con­cerne l’importanza che Barack Obama at­tribuisce alla difesa di
Israele e al legame strategico che gli Stati Uniti hanno con Tel Aviv. Non c’è nessuna sottovalutazione della mi­naccia iraniana. Il punto è un altro e riguarda il modo migliore, più incisi­vo per neutralizzare il pericolo irania­no. Quella dell’Iran sarà una delle prio­rità della nuova presidenza america­na. Ma Obama è consapevole che con l’Iran non è possibile riprodurre i gra­vi errori compiuti con l’Iraq.
 C’è chi sostiene che il solo evocare un dialogo con Teheran, come Barack O­bama ha fatto nella sua campagna presidenziale, agevola i piani dell’ala dura del regime iraniano.

 Non sono di questo avviso. Quella che Obama ha intenzione di dispiegare è una strategia inclusiva che innanzi­tutto chiarisca a tutti i partner inter­nazionali che la questione del nu­cleare iraniano non è un problema della sola Israele né di Israele e degli
Stati Uniti, ma è un problema che va affrontato e risolto dalla comunità in­ternazionale. [...] Una strategia inclu­siva è anche un messaggio rivolto al­l’Iran. È una chance, vera, che viene of­ferta. Sprecarla sarebbe una respon­sabilità gravissima che il regime di Teheran dovrà assumersi innanzitut­to nei confronti del popolo iraniano.
 La minaccia iraniana, il terrorismo jihadista. Questioni che Israele vive con particolare angoscia e inquietu­dine, da paese in trincea. A Gerusa­lemme c’è chi teme che Obama sia piuttosto distaccato rispetto a queste percezioni israeliane.

 Non sarà così. Ho avuto modo di se­guire da vicino Barack Obama nella sua visita in Israele. Posso dire con e­strema cognizione di causa che Oba­ma è legato a Israele non solo con la testa ma anche con il cuore. Questo per dire che il legame che Obama ha
con Israele e il suo popolo non è solo il frutto della convinzione che Stati U­niti e Israele sono uniti da comuni in­teressi e comuni obiettivi. Al fondo c’è anche la consapevolezza da parte di Obama che a unire l’America a Israe­le sono valori comuni – la democrazia, la libertà di stampa, il pluralismo po­litico – quei valori che fanno di Israe­le una democrazia compiuta, un e­sempio per l’intero Medio Oriente. O­bama sa bene che abbiamo un co­mune interesse perché affrontiamo u­na minaccia comune. Ma essere fino in fondo amici di Israele significa non solo garantire assistenza e protezione militare ma anche e soprattutto met­tere in campo una strategia politica che aiuti Israele a ricercare una pace nella sicurezza con i palestinesi e i vi­cini arabi.
 In questa sottolineatura c’è anche u­na presa di distanze dalla politica se­guita
dall’Amministrazione Bush?
 Lo stesso presidente Bush, al termine del suo mandato presidenziale, ha do­vuto ammettere di aver per troppo tempo sottovalutato la questione i­sraelo- palestinese. È la realtà dei fat­ti. Per i primi sei anni della sua am­ministrazione, George W. Bush ha te­nuto in un angolo il problema. Una sottovalutazione doppiamente colpe­vole: perché si fondava sulla errata convinzione che la vittoria militare in Iraq avrebbe determinato un benefi­co effetto domino per l’intero Medio Oriente; e perché questa sottovaluta­zione ha finito per rafforzare in cam­po palestinese movimenti estremisti come Hamas.

 Perché questa sottovalutazione ha fi­nito per rafforzare Hamas?

 Perché ha permesso ai leader integra­listi di affermare che non esistevano alternative credibili alla loro strategia.

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